Ma in Siria Obama ha o no una strategia?

Intervista a Claudio Neri

Sembrava questione di ore, pochi giorni al massimo, prima che le bombe americane cominciassero a piovere sulla Siria. Invece la macchina da guerra occidentale ha improvvisamente rallentato i giri del motore, dopo l’intervento di Cameron che ha chiesto di aspettare la relazione degli ispettori Onu prima di dare il via alle operazioni.

«Sembra che non ci sia nessuna strategia nelle decisioni del presidente americano», dichiara Claudio Neri, direttore dell’istituto di studi strategici Niccolò Machiavelli. «Obama aveva tracciato una linea rossa dichiarando che non avrebbe tollerato l’impiego di armi chimiche e adesso si trova vincolato alle sue stesse parole. Il tutto in un quadro in cui un intervento per abbattere il regime di Assad non è ritenuto fattibile, vista l’assenza di una strategia per il dopo».

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Dunque l’America non vuole la cacciata di Assad?
Non credo. Vista la frammentazione del fronte dei ribelli, pesantemente infiltrato da elementi vicini ad Al Qaeda e al terrorismo islamico di matrice sunnita, l’Occidente non ha interesse a determinare una caduta improvvisa del regime. Si rischierebbe un caos molto pericoloso per la regione e non solo.

Come si spiegano allora le insistenti voci di un imminente attacco?
Io penso che sia soprattutto una mossa propagandistica. Oramai Obama non può perdere la faccia e rimangiarsi quanto promesso. A ore, comunque, dovrebbe essere pubblicato un documento dell’Intelligence americana contenente le prove a carico del regime di Assad. Sarà questo un passaggio molto importante che dovrebbe permetterci di capire quali elementi informativi abbiano effettivamente in mano gli Stati Uniti. È appena il caso di evidenziare, tra l’altro, che l’ultima volta che un governo statunitense decise di rendere pubblico un rapporto dei propri Servizi segreti per giustificare un intervento armato fu nel 2003 e riguardava le armi di distruzione di massa di Saddam. In quel caso le prove poi si rivelarono errate. Sarà interessante, quindi, vedere come questa volta Washington gestirà questo delicato passaggio.

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Non si aspetterà una risoluzione Onu?
Penso di no, specie alla luce della posizione di Russia e Cina che col proprio veto possono bloccare qualsiasi risoluzione del consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Ma anche in caso di attacco, come dicevo, penso si tratterà di un intervento di breve durata e su obiettivi specifici. Potrebbe anche darsi la possibilità che gli alleati occidentali tentino di decapitare il regime, cercando di uccidere Assad nel corso dell’attacco. Ma in questo caso dovrebbe esistere un accordo con la Russia e gli altri attori internazionali sulla successiva exit strategy, e al momento non mi sembra che se ne colgano i segni.

Dunque un attacco più simbolico che altro
Penso di sì. Agli Stati Uniti non conviene indebolire troppo il regime, che comunque in questo momento è in vantaggio nello scontro coi ribelli. Se non è loro interesse che la situazione precipiti in tempi brevi ma, anzi, che si protragga ancora per un po’ di tempo il tipo di intervento militare dovrà essere necessariamente mirato e poco “pesante”.

La sicurezza di Israele è in pericolo?
Dipende dall’entità dell’eventuale attacco occidentale. Se fosse relativamente poco devastante per la struttura militare di Damasco, Assad non avrebbe interesse a rafforzare le ragioni di un intervento più massiccio colpendo Israele ed esponendosi a una ritorsione. In fondo finora ha già “tollerato” tre o quattro raid israeliano sul proprio territorio senza reagire militarmente. Se invece l’attacco fosse più intenso del previsto allora si può immaginare una risposta siriana sia con armi convenzionali contro Israele sia con strumenti terroristici. Non dimentichiamoci che in passato la Siria sponsorizzava e supportava gruppi terroristici di tutto rispetto, gruppi che operavano sia in Medio-Oriente che in Europa.

E per quanto riguarda i nostri soldati, impiegati al confine tra Libano e Israele nell’ambito della missione Unifil?
Il rischio ci sarebbe anche per loro in caso di attacco. Anche se la decisione del nostro governo di non avallare alcuna operazione che non sia sotto l’egida dell’Onu potrebbe rappresentare un parziale scudo. Il punto è che di fronte ai tentennamenti strategici degli Stati Uniti è molto difficile fare previsioni e agire di conseguenza.

Gli altri attori dell’area come si stanno posizionando?
La Russia sembra quasi rassegnata all’eventualità di un attacco in risposta all’impiego di armi chimiche. La linea da non superare tracciata da Putin è quella della cacciata di Assad. La Cina non è chiaro come si comporterà, anche se da sempre è una sostenitrice della non ingerenza negli affari interni degli Stati. Quelli che sicuramente sono i più convinti sostenitori dell’intervento e della destituzione di Assad sono i sauditi e in generale l’asse sunnita della regione. Da ultimo la Turchia, che finora sembrava far parte dei “falchi” pro-intervento, ora pare più cauta. Probabilmente i timori di una destabilizzazione dell’area, con conseguenze anche sulla questione interna dei curdi, stanno portando Ankara su posizioni meno oltranziste. Il proseguimento della guerra civile “a bassa intensità” è probabilmente per molti attori dell’area il male minore. Per concludere, il limite del possibile intervento statunitense (ed anglo-francese) è, insisto, un limite strategico. Manca un vero obiettivo, manca un approccio coerente e si procede reagendo alle urgenze del momento privi di una strategia generale per l’area medio-orientale. Si ondeggia tra l’inazione e l’uso della forza armata. Sembra quasi che gli strumenti classici della diplomazia siano considerati inutili.

Twitter: @TommasoCanetta

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