Mafia e turismo: in Sicilia è boom di “Padrino tour”

Un business imbarazzante

A pochi passi dal Duomo di Siracusa, a Ortigia, di fronte a questo incanto di pietra arenaria che si dice costruito sulle fondamenta dell’antico tempio di Minerva, vengo fermato da un uomo piccolo piccolo con baffi grandi grandi e scuri scuri che con cantilena dialettale mi offre al prezzo di tre euro una foto in posa con lui. Indossa una coppola nera, pantaloni di fustagno, un gilet nero su una lisa camicia bianca, e imbraccia un grosso fucile a due canne, forse di plastica, forse no. C’è un sole che schianta, è agosto, faranno quaranta gradi, i turisti sono in ciabatte da mare, e lui indossa un cappello di feltro pesante.

«Chista na lupara è», mi dice mostrando con fierezza lo spazio tra i denti ingialliti dal fumo. Poi osserva i miei amici francesi, i miei compagni di gita ancora sopraffatti dalla dolcezza di Ortigia dopo una settimana di asprezze etnee. Loro si accorgono di lui, e lui di loro. «Forestieri sono», pensa. E dunque: «A picture with a real padrino, mafia, godfather, tre euro», insiste. Ma il padrino, che in Sicilia orientale si chiama patrozzu, da queste parti, come a Catania, a Messina e a Ragusa, non è parola di malavita, nulla a che vedere con Marlon Brando e Mario Puzo. Quell’uomo con la coppola e il fucile, che si fa fotografare vestito da cacciatore (esiste la divisa del mafioso?), a Ortigia, sul mare, tra le barche dei pescatori e gli yacht, la fonte Aretusa e la sua acqua salmastra, è incongruo e improbabile come un ghiacciolo nel deserto. Difficile però farlo capire agli amici che vengono da Parigi. Io cerco di spiegarmi alla meno peggio, loro dicono di capire perfettamente, ma non capiscono niente, glielo leggo in volto; hanno visto i film americani, hanno letto i romanzi su cosanostra, guardato le fiction televisive, i Soprano, l’onore dei Prizzi, il Siciliano, sono immersi in quel paesaggio di stupidaggini e fantasia popolato da coltellacci e fichi d’India, canne mozze e granite al limone. Come spiegargli che la mafia non ha nulla di pittoresco ma il volto animalesco di Totò Riina? Niente da fare, è una dimensione ormai classica, risaputa fino all’oleografia: baffi, coppola, onore, lupara, cassata. Click, tre euro, la foto è fatta.

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A Taormina, passeggiando per le viuzze di questo paese così elevato, dolce, pulito, all’improvviso ci siamo imbattuti in un cartello per me assai curioso: «Visitate il museo e partecipate al tour del padrino». A Taormina? La mafia? Una freccia a indicare delle scale ripide, dentro, in un localino squallido, le foto del film con Al Pacino e Marlon Brando, la reclame del “padrino tour”. Per trenta euro “un viaggio nel cuore della mafia”, in macchina, con autista e guida turistica diplomata. La famosa mafia di Taormina. Persino il Grand Hotel Timeo, che è forse uno degli alberghi più belli e lussuosi del mondo in una città che non ha mai conosciuto un fatto di sangue e di malavita, offre ai suoi facoltosi clienti il tour di cosanostra, da Taormina fino a Savoca, paesino a pochi chilometri più avanti, poco più di trenta minuti in automobile, lì dov’è stata girata qualche scena del film di Francis Ford Coppola, quello della testa mozzata di cavallo nel letto, lì dove il massimo di contatto con la mafia è stato proprio quando sono arrivati Al Pacino, le cineprese e tutto il magnifico baraccone di Hollywood. “Il nostro concierge sarà felice di organizzare la vostra visita”. I più temerari, mi spiegano al Timeo, si spingono fino a Corleone, dove, recita in inglese la pubblicità che rimbalza anche su Trip Advisor, il grande motore di ricerca delle vacanze di massa, “è nata la mafia”. E qui l’enormità, certo, è inarrivabile, è una vetta suprema, ma che la mafia non sia nata a Corleone, pur terribilmente famoso per aver dato i natali alle bestie più sanguinarie dell’Italia del Novecento, non importa a nessuno, nessuno ha letto Salvatore Lupo e nessuno legge Napoleone Colajanni, che della mafia spiegò l’origine sociale ed economica, non importa ai turisti che cercano il pittoresco dei film americani e non importa ai siciliani che gestiscono questo business così imbarazzante. Il dubbio, prepotente e velenoso, è che di tutta questa finzione turistica, questa paccottiglia indecente, non ce ne sia bisogno, ché Siracusa è bella di suo, e così Ragusa con le sue pietre bianche, Mazzarò con il suo mare limpido che si apre ai piedi di Taormina.

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“Sure Taormina has its charms”, ha le sue attrattive, ha scritto Janis Cooke Newman, autrice di un paio di libri di grande successo in America. Lei, reporter di viaggi per il San Francisco Chronicle, famosa e premiata, finalista del Los Angeles Time Book Prize, rende bene l’idea: Taormina ha le sue dolcezze, dice la scrittrice americana, “but it’s not what i think of as Sicily”, non è quello che io penso sia la Sicilia. “In other words, it doesn’t look like a still from one of the two arguably (although not by me) greatest American movies of all time”, non assomiglia nemmeno un po’ a quello che ho visto nei grandi film del cinema americano. Ecco. Janis Cooke Newman, con i suoi racconti da Taormina, ha contribuito potentemente al successo dei “padrino tour”, quelli che oggi si possono prenotare prima di partire da Londra e da Tokyo, da New York e da Sydney, è lì e soltanto lì, in questa “mafia land” inventata, che la giornalista ha finalmente trovato la Sicilia che voleva trovare, “what i think of as Sicily”. E, insomma, circondati da omini con i baffi e da musei del padrino, si ha l’impressione che alla Sicilia, quella vera, sia sovrapposta per sempre una Sicilia di cartapesta, letteraria, cinematografica, farlocca, persino alla bestialità mafiosa è sovrapposta una caricatura grottesca, un fastidioso imbonimento di cui per primi sono persuasi i siciliani stessi, quelli che per incultura si travestono da malacarne, inventano la mafia dove la mafia non c’è, trasfigurano simboli e codici di una malavita che non ha niente di esotico ma è solo ignoranza, sangue e miseria. È la terra fantasiosa e insopportabile di Mario Puzo, che nel Siciliano, il suo romanzo sul bandito Giuliano, nel capitolo otto, per esempio scrive: “L’aria mattutina era pura; i fichi d’India sparsi per terra, freschi e dolci. Giuliano ne raccolse uno e lo morse, con cautela, per rinfrescarsi la bocca”. Avessero l’abitudine, i mafiosi, di raccogliere da terra fichi d’India, e assaporarli con cautela, cioè con le spine…

Twitter: @SalvatoreMerlo

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