La Gran Bretagna aveva Fred Perry, la Francia Renè Lacoste. L’Italia Sergio Tacchini. Giocatori che a fine carriera si scoprono imprenditori di successo riscrivendo la storia fuori dal campo. Quella di Tacchini non è più tricolore dal 2007 quando il tennista piemontese, sommerso dai debiti, passò la mano ai cinesi del gruppo Hembly che dapprima hanno affittato il ramo d’azienda e poi rilevato la compagine per 42 milioni di dollari. Sergio Tacchini torna d’attualità per via dell’imminente chiusura degli ultimi outlet e negozi monomarca: da poco hanno abbassato le serrande gli shop di Castelletto Ticino, Vicolungo e Caltignaga, a settembre chiuderà il negozio di Gallarate. E Tacchini resterà senza monomarca, con 42 dipendenti in cassa integrazione e altri in balia di un futuro scritto a metà. Non è bastato delocalizzare la produzione e snellire le risorse umane, dopo l’estate la T più blasonata del tennis subirà l’ennesima cura dimagrante.
«Ma non c’è nulla di nuovo», ribattono al telefono dal quartier generale di Bellinzago Novarese. «Da tempo è stato annunciato che Sergio Tacchini sarà una brand company e le licenze per l’utilizzo del marchio verranno affidate ad altri soggetti tramite la modalità dell’affitto di ramo d’azienda». L’agente che si occupa delle licenze è Img, colosso internazionale del marketing. Niente più produzione, via i negozi presenti in sette paesi (Cina inclusa) e addio alla sede di Bellinzago, «ormai troppo grande visto che in futuro saremo pochi, meno di una ventina», riferisce un dirigente ST a Linkiesta. Si parla di 10-15 dipendenti, l’organico di una qualunque PMI. In Italia resterà la cabina di regia con l’ufficio stile, prodotto e marketing, oltre alla testa delle collezioni. Un pugno di attività coordinate in loco dai cinesi: «La signora viene tutti i giorni in azienda».
Paiono lontani gli anni in cui Sergio Tacchini stipendiava 450 dipendenti. L’azienda fondata nel 1966 dal tre volte campione italiano («posata la racchetta bisognava pur mangiare») ha scritto un’epoca, rivoluzionando l’abbigliamento tennistico dal total white al multicolor anticipando la strategia dei campioni a servizio del marketing. È il periodo in cui il made in Italy fa la voce grossa sui campi da tennis con Fila, Ellesse, Cerruti, Maggia, LaFont: una selva di concorrenti tricolori a inseguire l’azienda dell’ex tennista che si muove come una multinazionale dal cervello familiare.
Dal Piemonte ai cinque continenti ST si impone come icona di stile e leader nelle sponsorizzazioni sulla terra rossa vestendo campioni come Ilie Nastase, Vitas Gerulaitis, Lea Pericoli, John McEnroe, Jimmy Connors, Adriano Panatta, Martina Navratilova, Pete Sampras, Martina Hingis, Gabriela Sabatini, Pat Cash e Goran Ivanisevic. Il palmares conta 40 slam e centinaia di collezioni che dettano la moda mondiale. McEnroe fu messo sotto contratto grazie ad una birra bevuta in un pub di Londra tra suo padre e Sergio Tacchini, mentre l’ingaggio di Sampras venne caldeggiato da Gianni Clerici: «Telefonai a Sergio e lui lo mise sotto contratto adornandolo di magliette e pantaloncini».
Negli anni 80 Tacchini ha il vento in poppa e approda in Formula Uno aggiudicandosi brand ambassador del calibro di Ayrton Senna e Carlos Reutemann. Gli affari vanno bene pure nello sci con Marc Girardelli e Pirmin Zurbriggen griffati ST che, a cavallo degli anni 90, diventa sponsor della Coppa del Mondo di sci alpino. Nel frattempo escono gli occhiali da sole, i profumi, l’abbigliamento per il mare. E altre sponsorizzazioni nel golf, con Costantino Rocca e Ian Woosman, ma anche nella vela, dove la famiglia Tacchini si toglie lo sfizio dell’America’s Cup entrando dalla porta principale come sponsor tecnico dell’imbarcazione +39. Poi nel 1996 la fornitura ufficiale della squadra italiana ai Giochi Olimpici di Atlanta con gli atleti azzurri che indossano le tute griffate dalla T. Tanto, forse troppo: dalla terra rossa si passa alle altre superfici, il tutto rafforzato da campagne marketing internazionali che coinvolgono stampa e tv.
Sembra una favola, quella dell’ex tennista reiventatosi manager che nel 1992 riceve dal presidente della Repubblica l’onorificenza di Cavaliere del Lavoro. Gli anni d’oro segnano cifre al miele, fatturati da 400 miliardi di lire, centinaia di dipendenti in Italia e in Europa, investimenti a pioggia su sponsorizzazioni e marketing. Papà Sergio, poi affiancato dal figlio Alessandro, gioca da attore protagonista nel segmento ed è a un passo dal prelevare i negozi della catena di abbigliamento sportivo Giacomelli. Salgono a duecento i monomarca ST nel Vecchio Continente e il franchising cresce. Alle soglie del 2000 arriva pure la decisione di quotarsi in Borsa: «Voglio regalare al gruppo un futuro garantito anche quando non potrò più dare il mio apporto personale», spiegava il patron Tacchini durante un summit con gli analisti finanziari.
Tra un rinvio e l’altro «in considerazione del momento poco favorevole dei mercati», nei primi anni 2000 la crisi bussa anche a Bellinzago. Non bastano le delocalizzazioni già effettuate in Cina, Grecia e Portogallo, le multinazionali dello sport (Nike e Adidas) sono macchine da guerra e aggrediscono ai fianchi con strutture produttive e distributive che ingurgitano anche chi, come Tacchini, era stato leader indiscusso. Dal declino al crollo il passo è breve: nel 2006 la Sergio Tacchini S.p.A è sull’orlo del fallimento, fattura 100 milioni a fronte di 70 di debiti. Nello stesso anno i vertici varano una campagna pubblicitaria del valore di 10 milioni di euro per il rilancio dell’immagine aziendale. Ma a stretto giro di posta, siamo nel 2007, si concretizza il passaggio di consegne ai cinesi di Hembly, gruppo guidato dal magnate Billy Ngok, già fornitore in outsourcing e distributore per una trentina di marchi. Da lì in poi l’ex tennista non ha più ruoli in azienda: esce in silenzio e alla griffe lascia solo, si fa per dire, il suo nome.
La nuova proprietà promette l’apertura di decine di monomarca nel mondo e l’inserimento nel mercato cinese mantenendo la testa in Italia. Il core business, neanche a dirlo, è il tennis e la partenza si conferma spumeggiante: nel 2009 viene ingaggiato Novak Djokovic con un contratto decennale le cui cifre sono coperte dalla più stretta riservatezza. Eppure, confermano a Linkiesta fonti vicine a ST, l’accordo prevedeva un minimo garantito basso rafforzato da ricchi assegni in caso di vittorie. Un colpaccio strappato all’Adidas, ma soprattutto una scommessa vinta che assicura al marchio italocinese il giocatore che in pochi mesi sarebbe diventato numero uno al mondo. Su di lui la casa piemontese basa il rilancio aziendale. Al serbo vengono dedicate linee di abbigliamento, campagne pubblicitarie e sito internet. Per seguire Nole, ST “scarica” anche Flavia Pennetta: «Djokovic non è uno che costa poco, non ce l’abbiamo fatta a trattenere anche lei».
Ma il serbo è croce e delizia, anzi boomerang. Tacchini si trova a gestire l’irresistibile ascesa del suo testimonial (4 Slam e 161 partite vinte su 190), senza riuscire a far fronte alla richiesta commerciale in arrivo da tutto il mondo, Stati Uniti in testa, dove i dealer protestano per i “mesi di ritardo” con cui arriva la merce griffata ST. «Non avevamo un buon distributore negli Usa e non abbiamo potuto garantire la nostra presenza in tempi utili», fanno mea culpa in Sergio Tacchini. Ogni coppa che Nole alzava si traduceva da contratto in premi in denaro e bonus sempre più alti. Un ritmo forsennato, quasi insostenibile, nel bel mezzo dell’ascesa del campione, «ma abbiamo onorato tutti i pagamenti», sottolineano da Bellinzago. Il matrimonio dura tre anni dopodiché «il giocatore riceve un’offerta a cifre che non potevamo permetterci».
Così subentra la giapponese Uniqlo, risposta del Sol Levante a Zara e H&M, che al tennista stacca un assegno da sei milioni di euro annui. Impietoso il giudizio di Darren Rovell, columnist della Cnbc: «Tacchini non è stata in grado far fruttare il successo di Djokovic». Il commento, seguito a ruota da altri addetti ai lavori, mette in campo le ombre di una miniera d’oro che, se valorizzata, avrebbe potuto sancire la resurrezione del marchio piemontese.
Persa la sponsorizzazione degli Internazionali d’Italia, nel portafoglio di Tacchini resta oggi il torneo Master 1000 di Montecarlo. L’azienda è ormai una brand company, prosciugata nelle sue articolazioni produttive e amministrative, con la logistica e il deposito merci che vengono gestite dalle cooperative. Niente più struttura retail nè flagship store in giro per il mondo. D’ora in poi ci sarà l’affidamento di licenze a terzi per l’utilizzo e la valorizzazione del brand. Si legge Tacchini, ma gli attori sono stranieri. E l’Italia? «Qui continueremo a promuovere il brand, a disegnare le collezioni e a organizzare gli eventi», spiega a Linkiesta Cristina Clerici, direttrice della comunicazione di Sergio Tacchini. Il tennis, stella polare della vita aziendale, «resta il nostro Dna e torneremo con le sponsorizzazioni dei giocatori». «Siamo orgogliosi perché nel tennis abbiamo una storia che pochi altri possono eguagliare: ripartiamo da qui, ristrutturati e riorganizzati».
Twitter: @MarcoFattorini