E si avviano alla scomparsa, mesti e inconsapevoli, quelli che furono i comunisti d’Italia, i figli di Togliatti e di Gramsci, gli uomini cresciuti negli anni in cui le masse operaie e contadine tenevano la scena senza seri concorrenti, dominavano indisturbate le lettere, le arti, la filosofia, il costume… «Moriremo democristiani?», si chiede Giuseppe Vacca con il titolo del suo ultimo libro. E il presidente dell’istituto Gramsci, il professore e politologo, non senza un accenno di malinconia, lui che marxista lo è forse ancora, si dà anche la risposta. «Prima delle ultime elezioni il compito di ricostruire la Repubblica appariva urgente», scrive, «dopo il loro esito è ancora più cogente e chiama in causa il ruolo del cattolicesimo democratico».
E i comunisti dove sono finiti? Tragica domanda. Che fine ha fatto la sinistra rossa che tre volte si nomò, Pci, Pds, Ds, prima di conquistare la primavera del Pd? Un silenzio tombale, è l’unica risposta. Un tacere gravido d’allusioni e nefasti presagi: le radici della Quercia d’Achille Occhetto affondavano ancora nelle sabbie del Pci e nella gloria ortodossa, ma quelle solide propaggini sono adesso ammuffite. Il partito è scomparso nel Pd e se la passano male pure il suo apparato, le sue antiche virtù, come sono caduti nell’ombra i suoi ultimi e più rappresentativi epigoni, che si chiamavano Massimo D’Alema e Walter Veltroni. Mentre all’orizzonte della sinistra ormai solo due uomini luccicano di futuro, Matteo Renzi ed Enrico Letta. Due democristiani.
E in principio fu Romano Prodi, getto vegetale d’antica pianta Dc, che per due volte portò la sinistra alla vittoria contro Silvio Berlusconi e sempre fu bersaglio del cattivo umore del Pds, oggetto delle trame, delle gelosie, dei tradimenti di D’Alema e degli ex comunisti ancora padroni in casa loro ma sempre guardinghi, forse involontariamente coscienti del pericolo, del tarlo democristiano che li avrebbe rosi dall’interno. La crudele betoniera del tempo non cessa mai di rigirare e rimescolare i poveri ingredienti della politica, e quando un altro democristiano, Matteo Renzi, si è affacciato con prepotenza al balcone del potere, è stato ancora con quelle stesse armi, con quella atavica puzza d’apparato, d’intelaiatura sovietica, di pasticcio nell’ombra, che i post comunisti lo hanno combattuto. Stavolta annientandosi. Gli archivi dei giornali sono pieni dei taglienti dileggi e grevi motti di spirito che D’Alema, sul finire degli anni Novanta, riservava al suo alleato/nemico Prodi. Spesso D’Alema si abbandonava alle battutine e agli scatti di nervi; ironizzava sull’Ulivo di Arturo Parisi; diceva di aver fornito a Prodi una barca, «con la speranza che ora la sappia portare». Il primo governo di Prodi cadde, ovviamente, come tutti sanno, per una manovra dalemiana, una tela post comunista intessuta nei corridoi meno illuminati del palazzo e che consegnò – per breve tempo – la toga del comando allo stesso D’Alema, primo (e unico) ragazzo della Fgci ad essere diventato presidente del Consiglio.
Fu vera gloria? No, il governo cadde poco dopo e Berlusconi tornò a sedere sul trono di Palazzo Chigi. Così quando è comparsa all’orizzonte la faccia tonda da boyscout di Renzi con la sua eresia modernista, la storia s’è ripetuta, quasi tredici anni dopo, pressoché identica nello spirito. Una colonia di formiche perennemente minacciata da un’immane ruspa. Ed è stato ancora una volta D’Alema, l’highlander, sempre verde, a combattere e a tirare a lungo i fili d’una battaglia mai affrontata alla luce del sole, ma sempre incappucciata, combattuta negli angoli bui, sempre all’ombra, dov’è più facile sferrare una stilettata alla schiena, offrire con il caffè anche un bicchierino di veleno, come usa nei romanzi di Arthur Koestler. E dunque mai un dubbio, mai un cenno d’incertezza, ma l’intima persuasione d’una assoluta superiorità che tutto legittima, la sicurezza d’essere nel giusto, di possedere la verità. Prodi fu buttato giù, spintonato da dietro, e pure Renzi è stato a lungo combattuto, e con efficacia, a colpi di carte bollate, regolamenti, commissioni, voti d’apparato, boicottaggi polverosi, primarie problematicamente organizzate e altrettanto enigmaticamente votate. E chi non ricorda i cognomi Stumpo e Zoggia?, i due onorevoli e funzionari di partito, ognuno grigio interprete d’un codicillo anti Renzi, sostenitore d’un oscuro comma scovato dentro un misterioso sottoregolamento, sempre imbrogli d’azzeccagarbugli, «è un caso chiaro, deciso in una grida, confermata poi da un’altra grida, tenete, dell’anno scorso, dell’attuale signor governatore del ducato di Milano».
L’uso della dottrina e il linguaggio avvocatesco sono quello che nell’arte comica si chiama l’incorporo di materiale di psogos, di derisione rituale. Il risultato è, oltre la censura, l’aumento della potenza parodistica. Mai che ai post comunisti fosse venuto in mente di contrapporre al faccione democristiano di Renzi il volto di uno dei loro, ma fresco, nuovo, capace di suonare tutte le corde della sinistra italiana. E troppo tardi arriva oggi Gianni Cuperlo, candidato di D’Alema e di Bersani alla segreteria, uomo per bene, ma tragicamente in ritardo sul tempo della storia. Mai che gli sia venuto in mente di conquistare il potere secondo le regole della democrazia liberale occidentale. Così adesso, dopo che hanno “non vinto” le elezioni, li colpisce la più terribile delle nemesi: un democristiano, Enrico Letta, siede a Palazzo Chigi. E un democristiano, Renzi, senza concorrenti capaci di contendergli davvero la vittoria, s’appresta a conquistare il congresso del Pd, la segreteria e dunque il partito, la cosa alla quale da sempre i comunisti tengono di più, più dello stesso governo del paese. Ed è ormai una battaglia strana, quasi malinconica, percorsa da una grande svogliatezza blaseé, da un languore di lago o lungomare. I post-comunisti già si dichiarano sconfitti, «siamo in minoranza», ammette l’un tempo fierissimo D’Alema, mentre l’orgoglio s’ammaina e l’identità si stinge nel fiume della sconfitta annunciata. Ma si sono abbattuti da soli, con le loro mani, con i loro metodi fuori dalla storia. E adesso, direbbe Nanni Moretti, ve lo meritate Matteo Renzi.