Una storia di creazione di valore. È quanto recita il claim del gruppo Salini-Impregilo. A guardare i conti, la pubblicità non sembra ingannevole. Ieri l’assemblea ha approvato la fusione per incorporazione di Salini in Impregilo. Si completa dunque un percorso iniziato lo scorso luglio, quando l’assemblea dava l’ok alla decadenza del consiglio d’amministrazione, mossa prodromica all’Opa. Un’operazione stranamente market friendly per le logiche di Piazza Affari, che ha segnato di fatto un’innovazione epocale nella raccolta dei voti di azionisti e fondi tramite la proxy solicitation, pratica ancora poco diffusa che serve a contare – non pesare – le azioni.
Dopo l’alienazione della partecipazione del 30% nella concessionaria autostradale brasiliana Ecorodovias, fruttata 937 milioni, il dividendo da 600 milioni e il successo della recente emissione obbligazionaria da 400 milioni, l’obiettivo è raggiungere al 2016 ricavi per 7,4 miliardi e ordini per 26. Il tutto garantendo all’azionista un ritorno del 14% (Roe) e un payout (la percentuale di dividendi distribuita, ndr) al 40 per cento. Un’attenzione per gli investitori che nelle parole di Salini è dimostrata dalla presenza di 12 indipendenti (su 15 membri) all’interno del consiglio d’amministrazione, e dal curriculum dei tre nuovi ingressi odierni: il direttore centrale di Bankitalia Franco Passacantando, l’ex Technip Nicola Greco e il consigliere di Beni Stabili Giacomo Marrazzi. Via libera anche alla delega ad aumentare il capitale fino a 50 milioni – uno dei modi possibili per aumentare il flottante al 25% dall’attuale 10% – e a emettere bond convertibili, oltre a deliberare dividendi straordinari. Prosegue da piano la dismissione degli asset non core Fisia, Fisia Babcock e Shanghai Pucheng, per i quali si punta a racimolare 150 milioni.
I numeri sono dalla loro. Rispetto a fine 2012, nella prima metà del 2013 il portafoglio ordini è salito da 19,9 a 21,7 miliardi, con un mix geografico in cui l’Europa scende dal 43 al 41%, l’Africa dal 34 al 30% e gli Emirati Arabi dall’1 al 9%, grazie principalmente alle commesse per la costruzione della metropolitana di Riyadh e di una linea di quella di Doha. Il general contractor scoppia di salute: ipotizzando che la fusione fosse operativa dal primo gennaio, e non da oggi, i ricavi si assestano a 2 miliardi di euro, con un margine lordo del 14% a 290 milioni, utili a 132 milioni e una posizione finanziaria netta positiva per 60 milioni, oltre a portafoglio nuovi ordini al 30 agosto a 11 miliardi di euro. Cifre che fanno di Salini-Impregilo il 21mo gruppo di costruzioni in Europa, il 58mo al mondo. Unico cruccio il debito
Una ricchezza che però è difficile capire in che termini si riversi nella filiera italiana. Nel bilancio di sostenibilità 2012 di Salini – prima della fusione, quello di Impregilo è in corso di pubblicazione – su un totale di 317 aziende subappaltatrici, 292 sono locali e soltanto 25 portate dall’Italia. Sul totale del backlog, recita ancora il bilancio di sostenibilità, il 12% è stato subappaltato, creadno 9.227 posti di lavoro. A margine dell’assemblea odierna, l’amministratore delegato del gruppo, Pietro Salini, ha detto a Linkiesta: «Non per tutti i progetti i subcontractors italiani sono migliori tecnicamente e sono più adeguati a livello di costo». « A Panama (dove Impregilo ha vinto una commessa da 560 milioni di dollari per la realizzazione del sistema di viabilità che porta a una nuova miniera, e soprattutto dove sta ampliando il canale ndr)», prosegue Salini, «ci siamo portati la Cimolai per realizzare le paratoie. Non è una scelta casuale». «Campione nazionale», ha concluso il costruttore romano, «significa anche campione di traino della filiera». C’è da dire che la Cimolai, azienda di Pordenone, non è l’ultima arrivata: due anni fa, ad esempio, ha vinto l’appalto per la costruzione di Oculus, la stazione ferroviaria progettata da Calatrava che passerà sotto al World Trade Center.
C’è un altro elemento: il consorzio che a metà agosto si è aggiudicato l’appalto per la realizzazione del primo lotto dell’autostada costiera libica – una partita da un miliardo di euro che rientra nell’ambito delle riparazioni italiane del periodo coloniale – è tutto italiano (Condotte d’Acqua, Pizzarotti e Cooperativa Muratori e Cementisti). In molte altre, come la metro di Copenhagen, la metro del Qatar, le autostrade in Polonia e Georgia, la quota non supera il 50 per cento. Al di là dell’impegno formale, per le società di progettazione e ingegneria che ruotano intorno all’orbita di Salini-Impregilo non c’è alcuna certezza di coinvolgimento, ma sicuramente qualche possibilità in più. A meno che non accada come per il Ponte sullo Stretto: in virtù della legge che ha bloccato il progetto, la società incasserà penali per 96 milioni entro il 2014.
Twitter: @antoniovanuzzo