C’è un variegato universo di pentiti di mafia e ‘ndrangheta che da più o meno vent’anni tira in ballo la Lega Nord di Umberto Bossi. Molte indagini sono state archiviate, anche perché i magistrati non hanno trovato risconti delle parole dei collaboratori di giustizia ma, negli ultimi giorni, il pentito Francesco Oliviero, ex capo del clan Spinello di Crotone che comandava «sei ’ndrine e un distaccamento a Rho, in provincia di Milano», ha iniziato a raccontare ai magistrati dell’inchiesta “La Svolta” di nuovi presunti collegamenti tra la cosca dei De Stefano e i leghisti, scoperchiando un vaso di pandora che si perde ormai nella notte dei tempi della Prima Repubblica.
È una storia partita all’inizio degli anni ’90, quando ipentiti parlavano soprattutto «per sentito dire», ma che arriva fino agli ultimi scandali che hanno affossato il Carroccio nel 2012. Le dichiarazioni di Oliviero riguardano la Liguria e l’ex tesoriere leghista Francesco Belsito. Oliviero sostiene che le ‘ndrine avrebbero riciclato soldi e custodito armi tra Genova e Ventimiglia anche ai tempi del defunto cassiere Maurizio Balocchi, di cui Belsito ha preso il posto. Del resto, vale la pena rileggersi le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia dell’epoca anche per valutare la credibilità di quanto detto da Oliviero, già condannato in passato per associazione di stampo mafioso, che sostiene di parlare «per il bene dei suoi quattro figli». Le parole di Oliviero infatti riannodano i fili e riapre un coperchio che si era chiuso alla fine degli anni ’90, quando un’altra inchiesta fu archiviata dai magistrati di Palermo.
Si tratta di «Sistemi Criminali» ed è uno dei primi tronconi d’indagine della più nota trattativa Stato-Mafia. In quel mare magnum di carte che cercano di ricostruire le trame dell’inizio degli anni ’90, di massoneria, delle stagioni delle stragi di mafia, di Tangentopoli, dei contatti tra ‘ndrangheta e il leader serbo Milosevic e soprattutto del futuro assetto politico-istituzionale, compaiono, oltre a Giovanni Brusca e Totò Riina, Licio Gelli e Giulio Andreotti, anche la Lega Nord di Bossi, Gianfranco Miglio e Roberto Maroni.
Se oggi c’è Oliviero, all’epoca c’era Leonardo Messina, altro collaboratore di mafia, che raccontò nel 1992, anche in sede di commissione parlamentare, del progetto «indipendentista-massonico» mafioso del boss di Corleone Riina. La storia ha – come in tante altre vicende leghiste – aspetti insieme grotteschi e inquietanti. In pratica, Messina sosteneva che la mafia stesse lavorando per separare la Sicilia dall’Italia. E in questo progetto la Lega Nord di Bossi avrebbe potuto dare una mano.
Salvatore Riina, nato a Corleone nel 1930
Disse Messina nel 1993 alla commissione parlamentare:
«Una delle tante volte in cui io mi trovai a conversare con il Miccichè (Liborio, ex Dc ucciso nel 1992, ndr) , il Potente (Mario, ndr) ed il Monachino (Giovanni uomo d’onore della famiglia di Pietraperzia, il quale faceva da vivandiere a Riina, ndr), il discorso cadde sull’on. Bossi della Lega Nord, che poco tempo prima era andato a Catania. Io, che allora consideravo Bossi un «nemico della Sicilia», dissi: «Perché un’altra volta che viene qua non l’ammazziamo?». Al che il Miccichè Borino esclamò: «Ma che sei pazzo? Bossi è giusto». Il Miccichè spiegò quindi che la Lega Nord, e all’interno di essa non tanto Bossi, che era un «pupo», quanto il senatore Gianfranco Miglio, era l’espressione di una parte della Democrazia cristiana e della massoneria che faceva capo all’onorevole Giulio Andreotti e a Licio Gelli. Il Divo quando lesse le dichiarazioni ci scherzò sopra: «Forse Messina dimentica che ho baciato Bossi…».
Miccichè spiegò ancora che, dopo la Lega del Nord, sarebbe nata una Lega del Sud, in maniera tale da non apparire espressione di Cosa Nostra, ma in effetti al servizio di Cosa Nostra; ed in questo modo «noi saremmo divenuti Stato». Queste cose il Miccichè disse di averle sapute proprio da Riina Salvatore e da altri componenti della “regione”». Su queste dichiarazioni i magistrati hanno indagato per anni, intersecando avvenimenti, come il comizio di Bossi a Catania nel 1991 o un’intervista di Miglio del 1999, dove il professore raccontò di un suo incontro con Andreotti dove si pianificava appunto la suddivisione dell’Italia in tre macroregioni.
Da segnalare che persino Giovanni Brusca fece cenno alla Lega e Bossi, riferendo di una confidenza fattagli da Totò Riina, il quale gli disse: «Mi vogliono portare questo Bossi per fare la Lega del Sud o la “Lega della Sicilia”, intendendo con ciò dire che era stato chiesto il suo appoggio per un’iniziativa di questo genere, ma lui aveva rifiutato questo contatto, dicendo “ma come si può avere a che fa re con uno di questi”, riferendosi alle stravaganze del Bossi». Le vicende sono emerse anche lo scorso anno in relazione alla trattativa Stato-mafia e il procuratore di Caltanissetta, Sergio Lari, ha definito una «boutade» quanto affermato da Brusca.
Per la stessa procura di Palermo però quell’inchiesta non era sufficientemente corroborata da riscontri per approdare a giudizio e il procuratore Roberto Scarpinato ne chiese l’archiviazione. «Una intuizione realistica» dicono gli investigatori, che mancava però di due punti fondamentali e oggi non trascurabili: i fatti attorno all’omicidio del giudice Antonino Scopelliti (un favore della malavita calabrese a Cosa nostra, che contribuì a puntare tutta l’attenzione verso la criminalità siciliana) e la presa di coscienza della potenza e delle entrature della ‘ndrangheta nei gangli criminali e di tutto quel groviglio fatto di politica, imprenditoria, massoneria, servizi segreti che giocano per l’antistato e mafia.
Già nel 1993 un altro collaboratore di giustizia, Tullio Cannella dichiarava ai pubblici ministeri di aver saputo da Vito Ciancimino che la vera massoneria era in Calabria, perché i calabresi hanno appoggi dei servizi segreti. «A Lamezia Terme – raccontava Cannella – si tenne la riunione con esponenti di “Sicilia Libera”, altri movimenti separatisti meridionali, ed esponenti della Lega Nord».
L’ex tesoriere della Lega Nord, Francesco Belsito
E allora come oggi, vent’anni dopo – emerge anche nell’inchiesta sull’ex tesoriere della Lega Nord Francesco Belsito – la cosca De Stefano sarebbe tra i protagonisti. Oggi a indagare c’è il pm della procura di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo: personaggio che non ama la ribalta mediatica, ma che conosce bene la ‘ndrangheta e che ha ripreso in mano i fili morti che l’inchiesta di Palermo aveva lasciato sull’altra sponda dello Stretto.
Uno sguardo ai nomi dei coinvolti nell’indagine ribattezzata “Sistemi criminali” e archiviata nel 2001 è utile, per capire come l’inchiesta di Lombardo non solo sia arrivata a concentrarsi proprio sul groviglio di potere in cui la ‘ndrangheta appare come un ingranaggio, ma anche per osservare come, di fatto, anche oggi la configurazione di quell’ingranaggio non sia cambiata. Licio Gelli, Stefano Menicacci, Stefano Delle Chaie, Rosario Cattafi, Filippo Battaglia, Salvatore Riina, Giuseppe e Filippo Graviano, Benedetto Santapaola, Aldo Ercolano, Eugenio Galea, Giovanni Di Stefano, Paolo Romeo e Giuseppe Mandalari: questi sono i nomi su cui la procura di Palermo aveva costruito l’indagine “Sistemi criminali”. Nomi legati chi a Cosa nostra, alla massoneria, alla destra eversiva e chi alla Lega Nord.
Oggi nel filone calabrese delle indagini sui fondi neri della Lega Nord (che riprende sotto alcuni aspetti un’indagine arenatasi nel 1999) compaiono nomi diversi, ma la sostanza non cambia: ‘ndrangheta, massoneria, destra eversiva e Lega Nord. E nessuna di queste componenti sorprende i ben informati, anche perché tra le tre famiglie di vertice della ‘ndrangheta (De Stefano, Tegano e Libri), vi sono appunto i De Stefano il cui cuore ha sempre battuto a destra. Per la destra più nera: non è un caso infatti se nel 1970 Paolo Romeo (che compare tra gli indagati di “Sistemi criminali”) fece da intermediario tra Junio Valerio Borghese e il gruppo mafioso dei De Stefano, proprio in vista del cosiddetto “golpe Borghese”.
Nell’inchiesta del pm Giuseppe Lombardo, denominata Breakfast, compaiono, oltre all’ex tesoriere leghista Francesco Belsito, nomi come quelli di Lino Guaglianone (con un passato nei Nuclei Armati Rivoluzionari e poi con poltrona nei consigli di amministrazione di Ferrovie Nord e Fiera Congressi Milano), del faccendiere Romolo Girardelli (detto “l’ammiraglio” e sospettato di legami a doppio filo alla cosca dei De Stefano e con il mafioso Paolo Martino, secondo gli investigatori factotum milanese della stessa cosca), di politici locali e di un sottobosco imprenditoriale costantemente incastrato tra le maglie della giustizia, ma che alla fine colleziona affari e appalti dorati.
Il primo collaboratore di giustizia proveniente dalle fila della ‘ndrangheta che inizia a parlare dei rapporti tra esponenti della Lega Nord e la cosca De Stefano è stato Luigi Bonaventura, sentito dallo stesso pm di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo. Un tema fino a quel momento «tabù»: «se hanno cercato di ammazzarmi qui a Termoli (località tutt’altro che protetta dove si trova Bonaventura e ormai divenuto un deposito di collaboratori di giustizia) è anche per questo», dice Bonaventura raggiunto da Linkiesta. Per lui, già oggetto delle attenzioni della criminalità calabrese da quando ha deciso di collaborare con la giustizia, si profilerebbe addirittura un trasferimento all’estero con la famiglia, per migliorare le condizioni della sua tutela. Poi accusa, nel ricorso poi rigettato, al Consiglio di Stato predisposto dai legali del pentito crotonese per chiedere il trasferimento da Termoli «La mimetizzazione non ha funzionato non per la disvelazione della località protetta ma per la corruzione di organi ed apparati della giustizia che si occupano della tutela dei collaboratori». I giudici, nonostante il respingimento del ricorso constatarono comunque «la necessità di disporre adeguate misure per l’effettiva mimetizzazione».
A questa indagine, la cui tesi è basata sulla contestazione della violazione della legge Anselmi, tesi per altro avallata anche dal procuratore presso la Direzione Nazionale Antimafia Francesco Curcio, lo stesso Lombardo affianca il lavoro in aula di alcuni processi che in apparenza sembrerebbero riguardare la sola Calabria, ma che in realtà hanno già avuto riflessi più ampi: basti pensare al processo “Meta” (in questo momento il più importante procedimento contro la ‘ndrangheta che ha portato sul banco degli imputati proprio il triumvirato De Stefano-Tegano-Libri) dalle cui annotazioni hanno preso il via alcune importanti operazioni proprio sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta nel Nord Italia, e in particolare a Milano.
A fare da sfondo c’è un’altra componente, sfumata. Che chiamare “zona grigia” sembra riduttivo: si tratta dei cosiddetti “riservati”, ovvero quelli che potrebbero essere definiti i “pupari”, al di sopra della ‘ndrangheta e in contatto con i poteri dello stato, siano essi politici o giudiziari, legati a doppio filo anche con i servizi. Un livello che non sarebbe un’invenzione, ma che emergerebbe dai riscontri delle più recenti indagini sulla criminalità organizzata.
E se in quei “sistemi criminali” all’epoca di Palermo i riscontri non furono sufficienti, anche a causa di un pentitismo anni Novanta non del tutto attendibile, questa volta la scelta degli investigatori si è concentrata sull’insegnamento di Giovanni Falcone: seguire l’odore dei soldi. Una traccia che sta portando non solo da Sud a Nord dell’Italia, ma anche in Svizzera, Francia, Inghilterra, Cipro e Tanzania. Una criminalità che combatte sempre di più a colpi di IBAN e i cui protagonisti non sono più soltanto quelli dei santini bruciati e dei “fratelli di sangue”. Proprio per questo l’inchiesta “Breakfast”, che tradotto in italiano significa colazione, potrebbe essere indigesta a qualcuno perfino dentro le velenose aule giudiziarie di Reggio Calabria e non solo.
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