Il gioco d’azzardo inguaia il governo Letta

Esecutivo battuto su mozione della Lega

“La tassa degli stupidi”, come la definì Cavour, o un caso di “Stato spacciatore”: il gioco d’azzardo legale continua ad essere materia di dibattito. Sarà che il giro di affari è passato dai 14,3 miliardi di euro del 2000 ai quasi 90 miliardi del 2012, collocando l’Italia al primo posto in Europa e al terzo posto nel mondo tra i Paesi che giocano di più. La conseguenza è da un lato un allarme sociale per il problema della ludopatia – esplosa secondo alcuni soprattutto dopo la crisi economica – e dall’altro la sempre maggior dipendenza dello Stato dal gettito delle scommesse.

L’ultimo atto di questo scontro si è avuto giovedì in Senato, quando è passata una mozione della Lega Nord, con il parere contrario del governo, che vieta per un anno l’apertura di nuovi centri per i giochi d’azzardo elettronico on-line e nei luoghi aperti al pubblico. Il sottosegretario Alberto Giorgetti rimetterà la delega sui giochi nella mani del ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni, spiegando che la mozione della Lega è talmente perentoria da essere «inapplicabile, se non creando un conflitto con i diritti esistenti dei concessionari che hanno vinto le gare e perdendo 6 miliardi di gettito».

Sei miliardi sono circa una volta e mezza il gettito annuo dell’Imu sulla prima casa e poco più di un punto di Iva. Il governo, facendo valere la ragion di Stato, ha ammesso per bocca di Giorgetti di non poter accettare un intervento così drastico in materia. La mozione della Lega, del resto non vincolante per il governo, rischia di restare lettera morta. In compenso il Parlamento ha approvato un ordine del giorno unitario – approvato dal governo e liquidato dalla Lega come un “contentino” – che impegna comunque a «prevedere una moratoria per le nuove autorizzazioni in attesa della riorganizzazione e pianificazione dell’intero sistema». Riorganizzazione che la Corte Costituzionale aveva richiesto già a partire dal 1985, rilevando la “massima disorganicità” del sistema, ma senza che il Parlamento abbia mai accolto il suo appello.

La Lega Nord può vantare un successo – a seguito del quale il segretario Maroni già chiede al governo di andare “a casa” – che la accredita nuovamente come partito vicino agli umori del territorio. Dopo anni di iniziative più o meno isolate di singoli amministratori, a gennaio 2013 è stato presentato a Milano il “Manifesto dei sindaci per la legalità contro il gioco d’azzardo”. Immediata l’adesione di 40 Comuni del nord Italia, a cui sono seguite quelle di paesi e città sparsi su tutta la Penisola. Indipendentemente dal colore politico della giunta.

Gli amministratori locali chiedono, tra le altre cose, “una nuova legge nazionale, fondata sulla riduzione dell’offerta e il contenimento dell’accesso, con un’adeguata informazione e un’attività di prevenzione e cura; (…) che sia consentito il potere di ordinanza dei sindaci per definire l’orario di apertura delle sale gioco e per stabilire le distanze dai luoghi sensibili, e che sia richiesto ai Comuni e alle Autonomie locali il parere preventivo e vincolante per l’installazione dei giochi d’azzardo”.

L’esplosione delle scommesse e i costi sociali connessi – è stata riconosciuta per la prima volta con norma primaria l’esistenza di “fenomeni di ludopatia conseguente a gioco compulsivo” necessitanti la definizione di apposite “linee d’azione per la prevenzione, il contrasto ed il recupero” solo con la legge di stabilità del 2010 – sono diventati sempre più un problema, specie a livello locale. Molti cittadini chiedono più limiti e più regole, in particolare per quelle slot machine e videolottery che da sole rappresentano il 56% del mercato (dati relativi al 2011).

I contrari al gioco d’azzardo fanno notare la contraddittorietà di uno Stato che sanziona penalmente questa pratica quando è svolta da privati cittadini, ma dall’altro non disdegna per sè il ruolo del biscazziere. In realtà questo nodo è stato sciolto nel 1985 dalla Consulta, stabilendo il principio generale per cui se i proventi sono “entrate dello Stato”, essendo destinati al finanziamento di interventi di interesse generale della popolazione, sono pienamente legittimi.

Oggetto del dibattito non è tanto se il gioco vada proibito o meno – il giro illegale è già di 10 miliardi l’anno e un eventuale divieto assoluto avrebbe l’effetto di ingrassare ulteriormente le casse della malavita, oltre che svuotare quelle dello Stato – quanto la misura della regolamentazione che si può imporre. Le recenti liberalizzazioni portate avanti dal governo Monti hanno reso più difficile per gli amministratori locali intervenire su orari e regole degli esercizi commerciali e ora sindaci rivorrebbero indietro questo potere. I contrari allo “Stato paternalista” sono preoccupati che dietro un intervento di buonsenso si faccia passare una nuova stretta burocratica e limitativa della libertà di impresa. La ricerca di un compromesso potrebbe essere lunga.

Dallo Stato, per cominciare, si potrebbe almeno pretendere una maggiore informazione o quantomeno una minor disinformazione. Le pubblicità di giochi d’azzardo – monopolio statale – che incentivano a scommettere sono un insulto al buon senso. Invece che raggirare le persone con false promesse di “facili” vittorie lo Stato potrebbe almeno ricordare loro una basilare verità statistica: il giocatore alla lunga perde sempre perché le percentuali sono matematicamente a favore del banco. Per questo, ad esempio, esiste lo “zero” alla roulette.

Twitter: @TommasoCanetta

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