«Se il sistema Italia fosse stato così preoccupato come lo è stato negli ultimi due giorni forse si sarebbe arrivati a un intervento più strutturale» ha detto stamani Franco Bernabè in audizione al Senato. Certo, il top management e gli azionisti riuniti in Telco hanno pesanti responsabilità gestionali tra la fine del 2007, quando l’ex amministratore delegato dell’Eni viene nominato al vertice dell’ex monopolista, e oggi. La società ha urgente bisogno di ricapitalizzarsi per evitare il declassamento del rating a junk, spazzatura, e veder così schizzare al rialzo il già troppo oneroso (il tasso medio è del 5,4%) costo del debito monstre, pari a 40 miliardi.
L’operazione, ha sottolineato Bernabè, è aperta «a soci attuali o nuovi, nella prospettiva delle potenzialità di sviluppo dei mercati in cui opera il gruppo e del valore che può essere creato dal progetto di societarizzazione. In questo caso, il percorso di separazione della rete di accesso, che rappresenta un elemento fondamentale del piano industriale, potrà essere realizzato in un orizzonte temporale più adeguato alla complessità degli aspetti regolatori». Su questo fronte, sono due gli elementi critici sottolineati dal manager di Vipiteno: «La mancanza di certezza in merito al nuovo quadro degli obblighi regolamentari post-separazione» e «la complessità di determinazione del valore degli asset della rete di accesso da conferire alla nuova società».
Un ingresso diretto della Cdp in fase di aumento di capitale appare improbabile anche a fronte di un via libera del principale azionista, il ministero dell’Economia. I negoziati sulla societarizzazione sono però bloccati da tre fattori: da un lato la decisione dell’Agcom di ridurre da 9,28 a 8,68 euro il canone d’affitto all’ingrosso dell’ultimo miglio per gli operatori non dominanti (Olo) – scaturita da una revisione al ribasso dei costi di manutenzione – dall’altro le tempistiche dell’analisi di mercato dell’Agcom sulla rete d’accesso, che dovrebbe concludersi entro fine anno. Infine, il perimetro della rete e dei servizi da conferire alla newco.
Neelie Kroes, commissario Ue all’Agenda digitale, ha criticato la decisione dell’Agcom sull’unbundling, seppure in una recente raccomandazione abbia sottolineato l’importanza di mantenere stabili i prezzi per favorire gli investimenti dell’operatore dominante.
Per Bruxelles, il problema sta nell’equivalence of imput, cioè la parità di accesso tra gli operatori. Telecom garantisce solo l’equivalence of output, cioè dei servizi finali. Un principio che la società è pronta ad adottare, a patto di ottenere «un dividendo regolatorio», ha spiegato qualche giorno fa l’amministratore delegato Marco Patuano.
La struttura della rete d’accesso di Telecom (Fonte: Uilca)
Attraverso Opac, la newco della rete, Telecom puntava dapprima a portare la fibra dalla centrale di commutazione all’armadietto stradale, e in un secondo momento da quest’ultimo alle case degli utenti. Il cosiddetto “fiber to the cabinet”, meno costoso del “fiber to the home”. Il perimetro dello scorporo, tuttavia, non sarebbe ancora chiaro così come gli investimenti sulle reti di nuova generazione Ngn e i servizi veicolati: con il bitstream sulla rete in rame, la modalità classica dell’Adsl, i servizi sono forniti da Telecom. Con il Vula, invece, è l’operatore a mettere i propri servizi sopra al flusso dei dati del proprio cliente che passa attraverso la fibra ottica di Telecom. Con l’end to end, invece, l’Olo può “noleggiare” parti di rete da Telecom come se fosse di sua proprietà.
Certo, l’esecutivo può sempre bloccare gli spagnoli. La strada per esercitare la golden share è tortuosa, sebbene Antonio Catricalà, viceministro dello Sviluppo Economico con delega alle Comunicazioni, abbia lasciato intendere in un’audizione al Senato che l’assenza dei decreti attuativi per il settore delle telecomunicazioni non sia un problema: se si configurano rischi per la sicurezza nazionale la golden share è invece praticabile.
Dal canto suo, Telefonica sembra aver vinto su tutta la linea. Se, come riferisce l’agenzia Bloomberg, il regolatore brasiliano Anatel sembra orientato a chiedere una vendita a Vodafone o AT&T di Tim Brasil – più che uno spezzatino – la società iberica, che controlla Vivo, il principale operatore del Paese, ripagherà ampiamente i due miliardi complessivi (tra cash e quota parte di debiti) necessari a salire al 100% della holding Telco, che detiene il 22,45% dell’ex monopolista. Sarebbe un peccato: Tim Brasil genera il 30% dei ricavi del gruppo Telecom, e anche nel caso fosse suddivisa tra i tre principali operatori del Paese – Telefonica, America Movil di Carlos Slim e la locale Oi – le quote di spettro occupate sarebbero comunque al di fuori dai limiti regolatori. Per questo, dovrebbe rendere al governo la parte eccedente, stando a quanto riferisce un analista del Banco Itau.
Amare le considerazioni degli amministratori indipendenti, che in una nota diffusa da Luigi Zingales a nome di Jean Paul Fitoussi, Mauro Sentinelli, Lucia Calvosa e Massimo Egidi, notano che ancora una volta la maggioranza relativa di Telecom è passata di mano «a sostanziale vantaggio di pochi, senza alcuna considerazione per la maggioranza degli azionisti». «È con disappunto», aggiungono gli indipendenti, «che osserviamo come l’ordinamento italiano non contempli strumenti di tutela della maggioranza degli azionisti, quando pacchetti in grado di conferire il controllo di fatto finiscono nelle mani di azionisti in conflitto con l’interesse sociale. È questo il caso di Telefonica, un concorrente diretto di Telecom Italia in Argentina e Brasile, che rischia di forzare Telecom Italia alla dismissione di asset preziosi per il rilancio della società».
Da questa prospettiva, il possibile coinvolgimento della Cdp ha il brutto sapore della beffa. In primo luogo il 20% del capitale è in mano alle Fondazioni bancarie come Cariplo, azionista rilevante di Intesa Sanpaolo, istituto che – ironia della sorte – ha appena venduto a Telefonica. Secondariamente, l’ingresso di un soggetto pubblico riavvolge il nastro al ’97, all’epoca della frettolosa privatizzazione messa in piedi da Prodi e portata avanti da D’Alema per ridurre il debito pubblico italiano in ottica entrata nell’euro. Terzo, non è detto che l’investimento garantisca adeguati ritorni per i risparmiatori postali, i cui denari sono impiegati dall’ente presieduto da Franco Bassanini. Così, gli obiettivi dell’agenda digitale comunitaria, che prevedono entro il 2020 il 50% della popolazione coperta da una connessione almeno a 100 megabit al secondo, sembrano davvero irraggiungibili.
Twitter: @antoniovanuzzo