I Radicali lo hanno già chiesto a Matteo Renzi, rottamatore, nuovo possibile futuro leader del Partito Democratico: «Si è sempre dichiarato per l’abolizione del finanziamento pubblico, ora può fare un atto concreto firmando i referendum». Dal sindaco di Firenze, al momento, non è arrivata alcuna risposta. Ma sta qui il nocciolo di uno dei tanti problemi della battaglia per la segreteria del Partito Democratico: la gestione della cassa di uno dei partiti principali d’Italia.
Come è noto la spaccatura tra le correnti dei democratici sulla questione è enorme. E di lunga data. Renzi si è sempre professato a favore dell’abolizione del finanziamento pubblico, mentre la vecchia ala dei Ds, da Pierluigi Bersani a Massimo D’Alema, ha sempre remato contro. Il problema quindi esiste. E non riguarda solo i rimborsi pubblici che arrivano dalle elezioni, ma soprattutto il patrimonio immobiliare dei democratici, valutabile intorno al mezzo miliardo di euro, spartito tra le varie fondazioni e sottofondazioni.
Dopo l’endorsement da parte di Dario Franceschini, ex Margherita, a Renzi – ex Margherita pure lui come peraltro Enrico Letta (era responsabile economico ndr) -, in vista del congresso l’ala ex Ds appare politicamente sempre più schiacciata all’interno del partito. Eppure è quella che gestisce «i cordoni della borsa» e difficilmente lascerà il timone nelle mani di chi si faceva gesitire il patrimonio da uno come da Luigi Lusi, finito al centro di scandali di ogni tipo, già ai domiciliari dopo un rinvio a giudizio per associazione a delinquere. Anche di questo si discute in via del Nazareno. Del resto, l’anno scorso, il Pd non ha voluto rinunciare ai rimborsi elettorali (il disavanzo era di 43 milioni di euro ndr). Nè lo ha fatto quest anno, incassandone 45, di milioni.
D’altra parte, l’autofinanziamento, secondo i bilanci passati, è di appena 8 milioni di euro. E tra sedi, stipendi dei dipendenti in organico si arriva alla bella cifra di almeno 20 milioni di euro all’anno. In sostanza, senza i rimborsi elettorali il Pd non potrebbe sopravvivere. Renzi ha sempre sostenuto di poter fare a meno dei rimborsi, anche per sciogliere il vecchio apparato «burocrate» del Pd. Ma come dice proprio Franceschini «Renzi dovrà tenere unito il partito». E come potrà farlo con un partito leggero? Potrà contare solo suoi finanziatori? Sulla Fondazione Big Bang? Ma davvero a Renzi basterebbe una Leopolda per amministrare il più importante partito del Paese? O forse quel patrimonio immobiliare dei Ds, ex Pci, rappresenta una pietra fondamentale negli schemi del nuovo Pd a trazione renziana?
Al momento c’è chi preferisce optare per il silenzio come il primo tesoriere della storia dei democrat Mauro Agostini: «Sono tornato a fare il manager: non ho nessuna intenzione di parlare di questa cosa». E c’è, invece, chi esterna sicurezza come l’ex tesoriere dei Ds Ugo Sposetti: «Io il patrimonio Pci-Pds-Ds l’ho messo in sicurezza». Insomma dietro il riposizionamento di personaggi politici come Franceschini, ormai approdato al renzismo «duro e puro», si nasconde una vecchia guerra «economica» fra Margherita e Ds. Con i primi travolti dallo scandalo di un anno fa del tesoriere Lusi – la Margherita esisterebbe ancora ma è in liquidazione. E con i secondi che, per dirla con un ex dirigente siciliano della Quercia, posseggono «i piccioli». Ove per i «piccioli», in questo caso, si intende un enorme «patrimonio immobiliare».
Quando infatti all’«americano» Walter Veltroni balenò l’idea di fondare il Pd – ci collochiamo intorno alla metà del 2007 – il matrimonio politico fra gli ex comunisti, i Democratici di sinistra, e gli ex democristiani, i margheritini, avvenne in regime di «separazione dei beni». Memorabile fu un’affermazione proprio del tesoriere Ds Ugo Sposetti che si rivolgeva così al tesoriere della Margherita Luigi Lusi: «Luigino e Ughetta, che sono io, vanno all’altare poveri in canna, ma se Ughetta ha un patrimonio e Luigino ha un po’ di soldi, quel che devono dire al sindaco è: facciamo la separazione». Infatti il matrimonio fu solo «un matrimonio d’amore» perché, disse Sposetti ridacchiando in un’intervista a Radio Radicale, «è sempre meglio stare all’erta».
E oggi, con il senno poi, e con una separazione «di fatto» in vista del congresso, gli ex Ds possono vantare un patrimonio di circa 2.399 immobili per un valore di almeno mezzo miliardo di euro più 410 opere d’arte e cimeli della tradizione comunista. Tra cui, come ha spiegato Filippo Ceccarelli su Repubblica, si annoverano due famosissimi Guttuso: la battaglia garibaldina di Ponte dell’Ammiraglio e i funerali di Togliatti, ospitati alla Galleria di arte contemporanea a Bologna. Nel 2005 chi prendeva le decisioni economiche nei Ds girò tutto il patrimonio immobiliare a 57 fondazioni, sparse in tutte Italia, e nate proprio per proteggere il patrimonio della Quercia.
Il modello è quello delle fondazioni bancarie. Una forma giuridica scelta «sia per un discretto vantaggio fiscale», in caso di cessione o di vendita degli immobili, la fondazione non paga l’11% di tassa sul registro, «sia per dare continuità e stabilità al patrimonio». Piccolo dettaglio: un patrimonio che, guarda caso, è stato catalogato da una signora che si chiama Linda Giuva, che i più conosceranno perché si tratta della moglie di Massimo D’Alema.
Fra le 57 fondazioni la più prestigiosa è la «fondazione duemila» di Bologna che può annoverare 150 immobili, dalla storica sede “Calari” in via de Carolis alla “Corazza” in via Andreini fino all’attuale domicilio dei democratici in via Rivani. In questo elenco, come ha scritto Enrico Miele sull’edizione bolognese di Repubblica, «rientrano anche gli stabili dell’Immobiliare Castello, nata negli anni novanta per riordinare il patrimonio post-comunista». Sempre nella «rossa» Emilia-Romagna la Fondazione Modena, altro riferimento della galassia ex Ds, controlla 70 immobili che rendono oltre 300 mila euro l’anno.
Spostandosi nell’altra regione «rossa» doc, ovvero in Toscana, la Fondazione di Pisa ha una quarantina di immobili, mentre quella di Siena dispone di tre società immobiliari. Questi immobili, tramite la società immobiliare Risorgimento s.r.l, sono stati in parti riaffittati al Partito democratico, a canoni più o meno politici ( 9 euro a mq), e fra questi non mancano bar e persino fabbriche, palestre e bar.
Oltretutto alle 57 fondazioni, che sono state catalogate come «enti di volontariato», è possibile versare il 5 per mille. Anche se poi, come ha scritto Paolo Bracalini su il Giornale, «le stesse fondazioni, attraverso le immobiliari, partecipano in altre società a scopo di lucro. Un incastro a scatole cinesi». Che di certo assicurerà gli ex Ds nell’era Renzi. E chissà per quanto tempo ancora…