«Non è esclusa la possibilità che Telefonica si possa eventualmente assicurare il controllo di Telecom Italia», dichiara al Financial Times Cesar Alierta, presidente del colosso Telefonica. «Se dovessimo verificare che Vivo e Tim Brasil faranno accordi sottobanco, potremmo adottate nuove restrizioni sul tema», ha spiegato Antonio Bedran, numero uno dell’Anatel, l’antitrust carioca.
Sembra ieri, era il 2007. La pazienza è la virtù dei forti, dice il proverbio. Bastava aspettare qualche anno, e il contraccolpo della crisi dei debiti sovrani nei conti di Intesa Sanpaolo e Mediobanca e la rifocalizzazione del business della partecipata di quest’ultima, Generali, per salire al 66% della scatola Telco (che controlla il 22,45% dell’ex monopolista) sborsando poco meno di un miliardo tra equity e quota parte del debito dei soci italiani. Più un altro per salire al 100 per cento. Più o meno quanto Lvmh ha pagato lo scorso luglio per acquisire il marchio di cachemere Loro Piana.
Un’operazione “all’italiana”, quella di Telefonica: niente Opa, che avrebbe valorizzato a 1,1 euro le quote dei piccoli risparmiatori e non solo gli azionisti forti, ma un ingresso diretto all’ultimo piano della piramide. Senza un piano industriale, che sarà discusso soltanto al consiglio d’amministrazione convocato per il prossimo 3 ottobre. Con un’aggravante che, per quanto sia ancora solo un’ipotesi di scuola, ha il sapore della beffa: un possibile ingresso della Cassa depositi e prestiti attraverso la sottoscrizione di un aumento di capitale – di cui l’ex monopolista ha disperatamente bisogno – per assicurare gli investimenti necessari allo sviluppo della rete fissa in rame. Indiscrezioni di stampa stimano un’iniezione di liquidità tra i 3 e i 5 miliardi. Impegni gravosi anche per un gigante come Telefonica.
Cambia la lingua, ma non la sostanza: guardando a conti e governance, la compagnia iberica non è poi così diversa dall’ex monopolista. Tra i suoi azionisti rilevanti ci sono due istituti di credito, Bbva e La Caixa, rispettivamente al 5,7 e al 6 per cento. Nel primo semestre i debiti si sono assestati a 49,8 miliardi, due volte e mezzo il margine lordo, mentre quelli di Telecom ammontano a 28,8 miliardi , quasi il quintuplo del margine lordo (5,2 miliardi). Simile anche il costo medio del debito: 5,3% per Telefonica, 5,4% Telecom. La cassa di Telecom è negativa per 4,7 miliardi, ma quella degli spagnoli positiva per 7,7 escludendo 14 miliardi di linee di credito inutilizzate. Il merito creditorio di Telecom è BB (Ba2 per Moody’s) – ultimo gradino prima del livello “junk”, spazzatura – mentre Telefonica è giudicata dalle agenzie di rating BBB (BBB+ per Fitch e Baa2 per Moody’s), entrambe con prospettive negative. Come la società guidata da Franco Bernabè, anche gli spagnoli l’anno scorso hanno attinto alle riserve per pagare un dividendo di 0,53 euro per azione.
Essenziale, per Telefonica, il Sudamerica: per quanto in rallentamento, garantisce il 51% del fatturato. Per Telecom, come è noto, Tim Brasil rappresenta la gallina dalle uova d’oro: da lì arriva il 30% dei ricavi (3,2 miliardi nel primo trimestre) secondo mercato dopo quello domestico, al 58 per cento. Per gli spagnoli mantenere il controllo sia di Vivo che di Tim Brasil è una mission impossible, come hanno fatto notare oggi fonti vicine all’Anatel, il regolatore delle tlc del Paese: un unico gruppo non può avere due imprese attive nella telefonia mobile nella medesima Regione. Lo spezzatino della controllata italiana è una delle ipotesi più accreditate. Nel frattempo, Alierta cerca di racimolare 4 miliardi vendendo le attività inIrlanda – ceduta per 850 milioni ad Hutchinson Whampoa – nella Repubblica Ceca e in Centro America, oltre al 5% di China Unicom. Poi ci sono le mire su E-Plus, divisione tedesca dell’olandese Kpn, per la quale Telefonica ha offerto 8,5 miliardi (si indebiterà ulteriormente?).
Le analogie non si fermano qui. Il presidente del gruppo, César Alierta – compagno di Mba dell’ex presidente Gabriele Galateri, oggi al vertice di Generali – è un ex boiardo di Stato esattamente come Franco Bernabè, che ha un passato all’Eni. Nel 1997, prima della nomina a direttore generale di Telefonica, Alierta finì accusato di insider trading per un presunto passaggio di informazioni al nipote Luis Javier Placer, che avrebbero consentito di comprare azioni di Tabacalera – monopolio dei tabacchi allora guidato dal top manager – e realizzare una plusvalenza da 1,8 milioni. Vicenda giudiziaria conclusasi con la prescrizione nel 2009.
Assieme al suo predecessore, Juan Villalonga, Alierta fa parte di quella schiera di dirigenti vicini al ministro dell’Economia del primo governo di José Maria Aznar – Rodrigo Rato, oggi consigliere di Telefonica – che, bisognoso di uomini fidati, li promosse a capo di due imprese da lui stesso privatizzate a metà degli anni Novanta: Telefonica e Tabacalera. Dopo essere stato il fautore delle privatizzazioni spagnole e aver ricoperto l’incarico di direttore del Fondo Monetario Internazionale, Rato ha guidato il progetto di riunificazione di sette casse di risparmio sotto l’egida di Bankia. Storia finita con un salvataggio che è costato miliardi di euro a Madrid, agli azionisti e ai contribuenti europei. Rato, Villalonga e Alierta: sono loro i protagonisti indiscussi degli ultimi decenni della finanza iberica. Una storia che ricorda molto le “relazioni” tra gli azionisti litigiosi dell’ex monopolista.
Twitter: @antoniovanuzzo