Con il capo cosparso dalla cenere del deficit pubblico (il fatidico 3% è stato superato sia pur di poco), il governo Letta si è messo al lavoro sulla legge di stabilità che quest’anno sarà una vera e propria finanziaria d’altri tempi, visto che molto è stato rinviato e quasi tutto si concentra nell’appuntamento autunnale. La congiuntura va peggio del previsto, si tratta di trovare qualcosa come l’un per cento del prodotto lordo, insomma attorno ai 16 miliardi per far fronte alle esigenze impellenti. E ciò rischia di trasformarsi in un nuovo colpo di freno alla domanda interna.
C’è un solo modo per recuperare risorse: tagliare la spesa; ma ci vuol tempo. Una scorciatoia sarebbe cominciare la vendita dei beni pubblici, immobiliari e soprattutto mobiliari, anche perché di più rapido effetto: in altri termini nuove dimissioni, cedendo le partecipazioni nelle aziende di stato. I liberisti da tempo spingono su questo pedale. Anche Letta sembra convinto, almeno sulla carta. Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il fardello del reale. Lo spirito del tempo porta il pendolo verso la mano visibile dello stato e non certo verso quella invisibile del mercato. E proprio noi vogliamo andare controcorrente?
Il governo come agente attivo dell’economia è emerso prepotente durante la crisi. Per far fronte ai fallimenti privati, dicono i keynesiani. Per il vorace appetito del Leviatano, sostengono i seguaci di Hayek. Un po’ l’uno un po’ l’altro, secondo il nuovo paradigma sincretico che sta uscendo dal dibattito tra le due maggiori scuole di pensiero (vedi Jeffrey Sachs). Come che sia, le cose stanno così. Le più grandi multinazionali sono in mano agli stati; ciò vale soprattutto per i paesi in via di sviluppo, Cina, Russia, Brasile, ma non solo; si pensi ai colossi bancari americani o a quelli britannici nazionalizzati, senza contare che zio Sam si accinge a vendere solo adesso la sua quota in General Motors.
Dunque, che senso ha privatizzare? E poi come farlo per evitare gli errori degli anni ’90? E che cosa può essere venduto con profitto per i cittadini? Non è una discussione da affidare all’accademia o alla storia, perché sono la prassi e la cronaca a premere. Telecom Italia, la matrigna di tutte le privatizzazioni, la più grande e la più sbagliata, che fine farà? Cadrà nelle mani dello straniero o di nuovo dello stato, magari via Cassa depositi e prestiti? È un test decisivo per capire se parlare di privatizzazioni è oziosa retorica. E Alitalia? Salvata da un pool di banche e “capitali coraggiosi” su impulso diretto del governo, adesso potrebbe finire in mano ad Air France, probabilmente a condizioni inferiori di due anni fa, oppure in bancarotta.
Alla domanda perché privatizzare, oggi, la risposta è semplice: perché l’Italia ha bisogno di aumentare competitività ed efficienza e solo il mercato può garantire la combinazione migliore tra i fattori produttivi. Come dice Pierluigi Ciocca, storico dell’economia, ex membro del direttorio della Banca d’Italia, il capitalismo è un pessimo sistema, ma non ne abbiamo inventati altri migliori. Esattamente come la democrazia per Winston Churchill. E allora perché sono andate quasi tutte male le privatizzazioni degli anni ’90, un periodo in cui l’Italia ha preso spunto dalla signora Thatcher, tra banche, industrie e servizi, chiudendo una esperienza come l’IRI, già portato ad esempio urbi et orbi di originale ed efficace forma di economia mista?
Il disegno era ambizioso: smobilitare l’industria di stato e favorire la nascita di un nuovo capitalismo. Gli sbagli commessi derivano in parte da eccesso di entusiasmo, in parte da insipienza, in parte da priorità sbagliate. Il primo errore nasce dalla debolezza del capitalismo italiano. Ciampi e Prodi che pure lo sapevano, gettarono il cuore oltre l’ostacolo. La questione siderurgica e la questione telefonica insegnano: ritiratosi lo stato, non sono emersi imprenditori capaci di sostituirsi ad esso perché privi di capitale o del mestiere necessario. O di entrambi. Sono state scelte le banche come ordinatrici del sistema, ma proprio il bancocentrismo ha ulteriormente soffocato il mercato (i fondi di investimento sono emanazioni bancarie), avviando così un circolo vizioso che si è spezzato con la crisi finanziaria del 2008. Inoltre, si è venduto in fretta e per far cassa.
British Telecom ha impiegato dieci anni a diventare una public company, Telecom Italia voleva farlo in dieci giorni. Così, sotto la pressione dell’emergenza, sono state privatizzate le imprese senza liberalizzare i servizi, quindi si è passati dal monopolio pubblico a quello privato. Ciampi non aveva un disegno industriale in testa, del resto non era questa la sua cultura. Ma non l’ha avuto nemmeno Prodi anche se era la sua specialità accademica. In questo vuoto, hanno fatto man bassa le banche d’affari, la cui strategia era massimizzare le commissioni. L’unica a possedere il know how sufficiente era Mediobanca la quale, però, avendo avuto la parte del leone per decenni, è stata tenuta dal governo in un ruolo secondario. Al mitologico meeting a bordo del Britannia il 2 giugno del 1992, gli uomini di Cuccia non c’erano.
Le critiche, emerse gli anni scorsi da chi ha analizzato senza spirito partigiano le privatizzazioni all’italiana, come per esempio Marcello De Cecco o Fulvio Coltorti, dovrebbero servire da insegnamento per l’oggi. Prendiamo le ferrovie. La Ue impone di liberalizzare e l’Italia si adegua, ma le Ferrovie dello stato hanno in mano sia la rete sia le stazioni, quindi possono stringere in una tenaglia chiunque voglia mettere sui binari un convoglio diverso da quelli di Trenitalia. E ciò puntualmente avviene: Arena, entrato nelle ferrovie locali piemontesi, è fallito dopo un anno. Ntv che con Italo ha diversificato l’alta velocità, è già in crisi profonda. Non esiste ancora un’autorità dei trasporti che possa stabilire se il gioco della concorrenza è corretto, mentre l’Antitrust ha già condannato le Fs nel caso di Arena e sta adesso esaminando il ricorso di Ntv. Eppure, aprire alla competizione è una necessità anche nel trasporto su rotaia.
Le privatizzazioni del prossimo decennio dovrebbero partire proprio dai grandi servizi, un concentrato di rendite di posizione e costi eccessivi caricati sui contribuenti e sugli utenti. Ci sono le Poste, oltre le Fs, ci sono le municipalizzate, veri monopoli locali attraverso i quali i comuni esercitano il loro potere, facendo pagare un prezzo altissimo ai cittadini. Sono tutte società che possono attrarre investimenti italiani e stranieri, soprattutto europei, nella logica di costruire un vero mercato continentale. C’è una reciprocità da pretendere e difendere (i francesi sono i peggiori su questo piano), ma non può essere l’alibi per il non fare.
Importante è anche definire chiaramente che cosa è strategico e cosa no. Le reti lo sono e rappresentano un bene pubblico da presidiare. La soluzione ideale, quindi, è separarle affidandole a società ad hoc collocate sul mercato. Un’unica società delle reti sarebbe un carrozzone, piuttosto meglio un’agenzia che ne coordini e controlli la gestione. A quel punto, i servizi andrebbero affidati alla libera competizione tra soggetti diversi, più sono e meglio è, compatibilmente con i costi e l’efficienza.
E i tre “campioni nazionali”, Eni, Enel, Finmeccanica? Operano in settori strategici come energia e difesa. Ma bisogna favorire la loro trasformazione in vere multinazionali. Possono essere la nostra sfida ai Brics, ma sono ancora troppo piccole. L’Eni che senza dubbio resta la migliore e la più globale, non è tra le prime dieci nel suo settore. Dopo il fallito tentativo di fondersi con la Elf, si muove in splendid solitude, come la Fiat prima della Chrysler. A questo punto bisogna ragionare su alleanze strategiche. Enel è troppo ispano-dipendente. L’acquisizione di Endesa, oltre tutto, l’ha gravata di debiti che ne impiombano le ali. Quanto a Finmeccanica, deve ancora liberarsi del civile che potrebbe trovare miglior vita in altre mani. Ansaldo è una società importante, ma è davvero essenziale oggi che il nucleare in Italia non si fa più? L’unica cosa certa è che, così com’è, non sopravvive.
E veniamo alla prova del nove: Telecom Italia. È di nuovo in vendita, per la quinta volta dall’infausta privatizzazione del 1997. Già questo è l’indice di un disastro industriale. Vedremo nei prossimi giorni se finirà in Telefonica, vendendo Tim Brasil, proprio la società dalla quale arrivano i maggiori profitti. Quindi, sarebbe una soluzione in perdita, che evita il crac, ma crea una compagnia schiacciata dai debiti e priva delle risorse per investire. Oppure vedremo se spuntano all’orizzonte altri acquirenti che siano del mestiere. Potrebbe emergere anche una soluzione nazionale (banche più privati, tra i quali si candida Fossati). Insomma, modello Alitalia. Funziona? La compagnia di bandiera mostra che non regge. C’è una quarta strada indicata da Vito Gamberale, l’ex capo della Sip (i telefoni dell’IRI), fondatore di Tim, che con le carte prepagate ha fatto il successo dei telefonini. Uno che sa di quel che parla, insomma. Propone di conferire Metroweb (la società lombarda dei cavi in fibra ottica che la Cassa depositi e prestiti ha preso da Fastweb attraverso il fondo F2i guidato dallo stesso Gamberale). In questo modo, la Cdp diventerebbe azionista portando un asset importante, nucleo della futura rete a banda larga.
Lo stato, dunque, rientra dalla finestra, più o meno indirettamente, non come barelliere, ma come ostetrico che favorisce la nascita di una Telecom proiettata nel futuro. Se la Cdp è l’unico soggetto a portare capitali e know how, è un ritorno indietro più o meno mascherato. Se è parte di un progetto più ampio con linfa nuova nel corpo esausto della società telefonica, chissà. In tal caso, Metroweb potrebbe entrare in una società della rete scorporata, con una proiezione anche nel mobile visto che ormai tutti gli operatori puntano sulla integrazione. A quel punto, Telecom vivrebbe sui servizi offerti alla clientela. E allora, vinca il migliore. L’Italia, così, può cominciare il cammino verso una nuova fase delle telecomunicazioni, oggi bloccato dalla mancanza di risorse finanziarie e dalle incertezze sul destino del campione nazionale. Utopia? Certo è che questa partita sarà determinante anche per sapere se le nuove privatizzazioni sono una cosa seria o un altro flatus vocis.
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