Bernabè non ha replicato il miracolo Eni in Telecom

Ritratto del top manager dimissionario

Era tornato con lo spirito di Edmond Dantès, ma a differenza dal personaggio dumasiano, non è riuscito a consumare la propria rivincita. Eppure Franco Bernabè ha la fredda determinazione, la capacità di calcolare azioni e reazioni di un provetto scacchista, con in più i saggi ammonimenti di Sun Tzu del quale è studioso e ammiratore: non condurre mai la battaglia se non sai che puoi vincerla; usa l’intelligence prima della forza; e soprattutto nell’arte della guerra la premessa del successo è mostrare le schieramento delle truppe.

Così insegnava il generale cinese duemila e cinquecento anni fa. Già, le truppe. Proprie queste sono mancate, adesso come nel 1999: le truppe finanziarie e ancor più quelle politiche. Allora c’era il nocciolino duro guidato da Umberto Agnelli con lo 0,6% del capitale. Non aveva nessuna intenzione di tirar fuori una lira di più. Oggi c’è la triade Mediobanca-Generali-Intesa in carenza d’ossigeno senza nessuna possibilità di contrastare l’Armada Invencible (per ora) di Telefónica. E c’è ancora un governo.

La seconda resa di Bernabè in Telecom Italia è ben più mesta di quella del 1999. Allora giocò alcune carte, magari male secondo i molti cultori del senno di poi, ma venne sconfitto dall’urto frontale con Massimo D’Alema e con la “rude razza padana” sostenuta da una montagna di dollari (più o meno la stessa montagna di debiti che impiomba la compagnia telefonica). Oggi, non è riuscito a tirar fuori nessun asso dalla manica. E si è arreso. Il manager nato a Vipiteno nel 1948, educato a Torino e svezzato a Roma, non è il conte di Montecristo.

Ogni volta che gli chiedono con petulante e morbosa curiosità perché quattrodici anni fa non aveva rilanciato dopo l’audace puntata della razza padana, risponde: “Non volevo lasciare il gruppo con una zavorra che l’avrebbe affondato”. Per questo respinse l’offerta della banca d’affari JP Morgan pronta a mettergli in mano un pacco di bigliettoni verdi per il contrattacco. Il suo asso era Deutsche Telekom, ma la fusione venne bloccata per ragioni politiche. Già la politica. In Telecom ha sempre svolto un ruolo chiave. 

La privatizzazione nel 1997 fu voluta da Romano Prodi allora a palazzo Chigi e doveva essere un modello di public company. In due anni cambia tre gruppi dirigenti. Poi arriva Colaninno sostenuto dagli ex comunisti. Nel 2001 Silvio Berlusconi stravince, Colaninno non ha i mezzi per gestire Telecom e non ha più nemmeno i sostegni politici. Entra Marco Tronchetti Provera che molla tutto nel 2007 quando torna al governo la coalizione di sinistra guidata da Prodi il quale escogita la soluzione attuale: Telco, una scatola finanziaria nella quale chiudere un quinto del capitale affidandone le chiavi a César Alierta, alla trimurti finanziaria milanese e a Benetton che però molla dopo un anno o poco più.

A guidare questa scombinata compagnia, Prodi sceglie Bernabé su consiglio di Giovanni Bazoli il suo mentore e presidente di Banca Intesa, previo via libera di Cesare Geronzi, presidente di Mediobanca, da pochi mesi nel sancta sanctorum di Enrico Cuccia, e dei soci francesi guidati da Vincent Bolloré e Tarak Ben Ammar. A favore del ritorno di Bernabé c’erano non solo le amicizie politiche e finanziarie, ma anche la correttezza austro-ungarica e l’educazione ricevuta nei Lehrjahren trascorsi all’ufficio studi Fiat, che gli imponevano sempre di chiedere prima il consenso degli azionisti. 

Nel 1999, il noccioliono duro si era squagliato. Due padroni veri, almeno sulla carta, si erano arresi. Nel 2007 sembrava che un partner industriale forte come la compagnia spagnola avrebbe evitato la stessa sorte. Anzi, avrebbe preferito prendersi tutta Telecom piuttosto che mollarla. I protagonisti di allora negano che questo era, in fondo, il pensiero nemmeno troppo nascosto. Nessuno poteva immaginare che la crisi del 2008 avrebbe abbattuto il valore in borsa della compagnia italiana e avrebbe lasciato boccheggianti anche le banche pilastro del sistema. E’ vero, ma Telco nasceva già con un assetto del tutto improbabile. E si affidava a Bernabè il compito più che arduo di mantenere l’equilibro tra gli azionisti, ridurre il debito, tagliare e risanare, mestiere che aveva mostrato di saper fare benissimo all’Eni.

L’ente petrolifero di stato gli era stato affidato in quella fosca primavera del 1993, da Giuliano Amato, presidente del Consiglio. Bernabè era da nove mesi direttore generale. Gabriele Cagliari si trovava agli arresti e il neo capo azienda decise di portare in tribunale i conti Enimont, svelando al pool di Mani pulite la madre di tutte le tangenti. Fece il suo dovere; e il dovere si sa è quasi sempre doloroso, spesso implacabile. Cagliari si suicidò il 20 luglio nel carcere di San Vittore dopo 134 giorni di carcerazione preventiva; ad appena 72 ore di distanza, Raul Gardini si tirò due colpi di pistola, uno dei quali mortale. A Bernabè toccò di salvare il salvabile. Gli riuscì talmente bene che i suoi cinque anni al vertice del colosso petrolifero sono diventati un caso studiato alla Harvard Business School. 

All’Eni lo aveva portato Franco Reviglio, economista, grande esperto fiscale e docente a Torino dove Bernabè, figlio di un ferroviere, dotato di una intelligenza sistematica e una volontà di ferro, si era laureato giovanissimo. Il professore, tirandolo fuori dall’ufficio studi Fiat, l’aveva accolto in quel gruppo di giovani brillanti poi chiamati “Reviglio boys”, insieme a Giulio Tremonti, Domenico Siniscalco, Alberto Meomartini. Poi le loro vite si separarono. Tremonti venne prestato a Rino Formica, Meomartini e Bernabè invece seguirono il loro maestro nel 1983, quando Bettino Craxi, ispirato da Giuliano Amato, lo collocò al vertice dell’Eni. 

La mission di Reviglio era ricondurre al mestiere originario l’ente, trasformato nel decennio ’70 in un mastodonte simile all’Iri, una conglomerata che produceva perdite per 1.500 miliardi e accumulava debiti per 19 mila miliardi di lire. Dopo sei anni nei quali Bernabè affila le lame del tagliatore di teste, la ristrutturazione ha successo: l’Eni torna a generare utili per 1.500 miliardi e l’indebitamento viene dimezzato. Soprattutto, il gruppo si concentra di nuovo sull’energia. 

Ceduta la Nuovo Pignone alla General Electric, l’ultimo passaggio, senza dubbio il più difficile, è la vendita di Enichem. L’acquirente naturale è Montedison e il potere politico toglie l’operazione dalle mani del professore, per consegnarla a un manager interno, un tecnico di lungo corso, Gabriele Cagliari, che proviene proprio dalla chimica. Raul Gardini, alla testa del gruppo Ferruzzi, che controlla Montedison, concepisce l’idea di creare un campione nazionale di primaria grandezza, Enimont. Un sogno che si scontra con l’ostilità dell’establishment finanziario e con la rapacità del Palazzo foraggiato ampiamente da Gardini e Cagliari. Intanto, in soli due anni, i debiti dell’Eni tornano a 13.400 miliardi di lire: si stanno accumulano le premesse del collasso, anche senza l’intervento della magistratura. 

Bernabè assiste impotente allo sfascio del suo capolavoro. Ma proprio a lui Amato, affida la svolta. All’Eni tutti i poteri operativi vanno al direttore generale che di fatto diventa amministratore delegato. Lui manifesta freddezza e determinazione, chiede le dimissioni dei consigli di amministrazione di tutte le società e in due mesi sostituisce ben 250 consiglieri. Nel solo 1993 vengono chiusi o venduti 73 business, licenziati o “messi in libertà” 15mila dipendenti, con risparmi di 1.700 miliardi di lire, e in bilancio si iscrive un utile di 304 miliardi. Poi arriva la privatizzazione. Parziale perché il Tesoro mantiene qualcosa in più del 30%. Ma è una bella vendita, nella quale Bernabè lavora a stretto contatto con Mario Draghi, direttore generale del Tesoro e stringe legami con la banca Rothschild dove poi, consumata la sconfitta Telecom, diventa vicepresidente per l’Europa (mentre Draghi sarebbe andato a Goldman Sachs con l’arrivo di Berlusconi al governo).

Nel 1997 Eni viene fusa con Agip per aumentare controllo e concentrazione del gruppo, nel 1998 i debiti sono dimezzati, i profitti garantiti ogni anno e i dipendenti ridotti di 46mila.
Il gran risanatore sembra l’uomo giusto per riacchiappare Telecom, ma all’Eni era dominus (il Tesoro azionista di riferimento gli ha dato carta bianca), in Telecom diventa di nuovo il gestore per conto degli azionisti, un piccolo gruppo debole e diviso e una gran massa senza alcuna rappresentanza, che si scompagina di fronte all’attacco esterno. Una scalata è una guerra di sterminio, di fronte alla quale lo stratega Sun Tzu avrebbe consigliato la sorpresa, la rapidità nell’azione, la mobilità delle truppe. O lo schieramento di un esercito molto più potente.

Bernabè ci prova, mettendosi d’accordo con Ron Sommer, capo di Deutsche Telekom, controllata dal governo tedesco. Ma D’Alema chiede al cancelliere, il socialdemocratico Gerhard Schröder, un impegno certo per la privatizzazione. “Non devo rispondere delle mie scelte al governo italiano”, è la secca risposta. Le sorti dello scontro sono segnate e il 21 maggio Bernabè getta la spugna. “La sua difesa è stata piccola e tardiva, ma la sua reputazione è salva”, scrive in agosto Bloomberg in un’ampia ricostruzione della battaglia intitolata “Rompere le regole”.

Comincia, allora, una traversata, non proprio nel deserto, ma fuori da incarichi di gran potere. Amato lo nomina rappresentante speciale per la ricostruzione in Kosovo, con Berlusconi va alla Biennale di Venezia. Ma intanto cerca di ricostruirsi anche una carriera imprenditoriale e fonda FB Group una società di investimenti nella quale coinvolge anche Chicco Testa e resta nelle telecomunicazioni. Fonda Andala H3G insieme a Tiscali (poi verrà venduta a Hutchison Wampoa del magnate cinese Li Ka-shing), prende il controllo di Netscalibur e di Telit che opera nella comunicazione detta M2M (machine to machine), si butta nel software con il gruppo Kelyan. Ha fatto del lavorar sodo la propria filosofia.

Il colpo migliore gli riesce con Rothschild dove nel 2004 fa confluire la sua società di advisory finanziario ottenendo la carica di vice presidente per l’Europa. Con quell’atteggiamento schivo e l’aria da ragazzo timido, lo troviamo dovunque ci sia da acquisire relazioni e influenza, dal Council on Foreign Relations alla sua filiazione Trilateral, dall’Aspen alle mitiche riunioni del Bilderberg dove si incontra il governo mondiale, secondo le popolari teorie cospirative. 

La rivincita è vicina e ben preparata. Pur apprezzato nel centrodestra variante tecnocratica, le simpatie maggiori vengono dal centrosinistra (e viceversa). E’ tra i manager e i banchieri (numerosi) che firmano il manifesto dei 150 per la discesa in campo di Walter Veltroni. Lo sdoganamento completo, ironia della storia, avviene quando D’Alema lo chiama tra gli scenaristi e i futurologi della Farnesina, unico esponente del mondo industriale insieme a Leonardo Maugeri dell’Eni. Certo, Bernabè ha una riconosciuta passione e competenza geopolitica, un lato ancor più apprezzabile per Francesco Cossiga: non a caso, l’ex presidente della Repubblica lo volle nel comitato per la riforma dei servizi e al momento opportuno ha sempre spezzato una lancia a suo favore. Ma il ritorno in Telecom Italia si deve a Prodi. E’ stato il suo plenipotenziario ufficioso, Angelo Rovati, a recarsi in piazzetta Cuccia, il 13 novembre 2007 per ottenere luce verde da Geronzi.

Perché Bernabé ha fallito? Abbiamo già visto le circostanze attenuanti, prima di tutto la grande crisi, poi la debolezza e gli equivoci di fondo che segnavano Telco e la compagine azionaria. Ma c’è di più. Il manager ha gestito il gruppo con prudenza forse eccessiva, attento a non aumentare l’indebitamento, ma senza avere l’energia e l’arditezza di compiere scelte radicali. E’ stato tutto un tira e molla sulla rete (scorporo o non scorporo), su Tim Brasil principale fonte di reddito (l’ha difesa fino in fondo e adesso che comanda Telefónica non si sa che fine farà), sulla propaggine televisiva, La7, venduta all’ultimo anche se fonte continua di perdite, sui rapporti con gli altri operatori italiani. Quando poi è ricominciata la grande danza delle fusioni e delle acquisizioni, si è trovato spiazzato alla testa di un’azienda che non può comprare nulla, anzi è pronta ad essere comprata. 

La compagnia spagnola è anch’essa molto indebitata, ma è grande il doppio e ha un insediamento internazionale molto più ampio. Nemmeno lei è al sicuro, sia chiaro. C’è Vodafone piena di soldi liquidi. Ci sono gli americani, tra i quali AT&T e Verizon, vogliosi di espandersi nei mercati ricchi. C’è un mercato europeo diviso tra decine si compagnie poche delle quali in grado di reggersi in piedi. La festa, dunque, è cominciata, ma per Telecom sembra già finita. Il prossimo top manager dovrà gestire una strategia difensiva, attento a non farsi spolpare dai nuovi padroni. Anche questa volta la politica ha avuto la sua voce. Ma è stata una voce flebile, roca, consumata.

Twitter: @scingolo

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