Il futuro: intervista a Pierre Lemaitre

Letteratura

Il futuro del mondo lavorativo sarà sempre più cinico e il management aziendale, trovandosi di fronte a una forza lavoro proporzionalmente sempre più numerosa e disperata, potrebbe arrivare, un giorno non lontano, ad arrogarsi persino il diritto di vita o di morte, in cambio del miraggio di un impiego remunerato. Questa considerazione amarissima è uno dei concetti chiave del nuovo libro di Pierre Lemaitre, Lavoro a mano armata, edito da Fazi (449pp. 16,50€ – tradotto da Giacomo Cuva) e vincitore in patria del Prix Le Point du polar européen come miglior romanzo noir. Il romanziere francese, già apprezzato autore di Alex e L’abito da sposo, è un grande appassionato di Hitchcock, e anche in questo libro riesce a portare in pagina una prosa spiazzante per durezza e una tensione (speriamo di ritrovarla anche nel film che ne verrà tratto, con nel cast, tra gli altri, Sandrine Bonnaire).

Protagonista del romanzo è Alain Delaimbre, manager cinquantasettenne, un quadro disoccupato. Disposto a tutto pur di non perdere la dignità, Alain si arrangia con lavoretti degradanti per guadagnare poche centinaia di euro, dando fondo ai risparmi per mantenere almeno le apparenze. Nonostante l’appoggio della moglie Nicole, la voce narrante di Alain, ci racconta una vera e propria odissea emotiva. Aver perso il proprio lavoro non lo priva soltanto della sicurezza ma anche del ruolo di capofamiglia, della virilità agli occhi della società e delle figlie stesse. E poi all’improvviso “si libera” una posizione di alto profilo che sembra ritagliata sulle sue qualifiche professionali e, nonostante sia di gran lunga il più anziano dei candidati, viene ammesso alla selezione. Ma tutto ciò nasconde un gioco di ruolo assai crudele: la creazione di un commando per la messa in scena di finto rapimento, al fine di testare la fedeltà dei dirigenti dell’azienda. Ma quando il tranello esce allo scoperto Alain si troverà solo, senza alcun freno inibitore a far da rete di protezione…

Il tuo libro prende spunto da un fatto di cronaca. Cos’è scattato nella tua mente?

Ne ho sentito parlare ad una trasmissione radio di informazione continua, e ho pensato: «sicuramente ho capito male, non è possibile». Quello che mi ha fatto pensare di non aver sognato che una società avesse veramente preso i suoi funzionari in ostaggio per testare la loro reattività, è il fatto che questo episodio di cronaca è sparito dalle trasmissioni in quella stessa giornata. Segno che non può non essere significativo.

Tramite il rapporto con la moglie e le figlie, Lucy e Mathilde (con l’aggiunta del marito Gregory), cristallizzi alla perfezione le diverse istanze della società legate al successo: da una parte c’è chi crede nell’etica dell’azione ma dall’altra…

Tutti hanno un’etica dell’azione, tutti. Un gangster ha un’etica, ed è quella del gangster. I professori, gli idraulici, i romanzieri, tutti… Il problema è sapere ciò che può succedere tra persone la cui etica è molto differente, se non opposta. Nicole, la moglie di Alain, è una donna di sinistra, crede nei valori della solidarietà, della morale e il problema della coppia – e quindi del libro – sopraggiunge quando le azioni del marito diventano inconciliabili non solamente con quello che pensa, ma anche con quello che lei è. Mi è parso interessante moltiplicare questo tipo di opposizioni/contrasti – tra Alain e suo genero, tra Nicole e Alain, tra le due sorelle ecc… – per essere insieme concreto e realista. 

Charles, un senzatetto amico di Alain, ad un certo punto, afferma: «se vuoi uccidere un uomo, comincia a dargli tutto ciò che desidera di più». È davvero così?

Oh sì, sono d’accordo con il mio personaggio. Quando i nostri desideri sono molto soddisfatti, diventano i nostri peggior nemici. Datemi il Premio Nobel per la letteratura e sarò un autore morto.

La tua passione per i film di Hitchcock è  nota. Quale fra i tuoi libri avrebbe trasposto sul grande schermo, il maestro del thriller?

Credo che avrebbe preferito il mio secondo romanzo, L’abito da sposo, perché parla della questione della follia e della manipolazione, che sono state la materia preferita da Hitchcock.

Hai già raccolto grandi apprezzamenti per l’uso della suspense, fra tensione e colpi di scena. Ci sono delle regole da osservare per scrivere un buon thriller?

Sì, ci sono delle regole, ma non le conosce nessuno. La sola cosa che sappiamo è che un buon thriller deve spingere il lettore a identificarsi con un personaggio  – positivamente o negativamente – al fine di condividere le proprie emozioni come se fosse DENTRO il libro. Ma sulla modalità per arrivarci a colpo sicuro, nessuno ha mai trovato la ricetta infallibile.

Come mai hai scelto una tripartizione come espediente narrativo, alternando anche i punti di vista?

Sono fedele alle storie divise in tre parti. Le concepisco spesso come dei testi teatrali in tre atti, credo sia una buona base. Per quanto riguarda la scelta del punto di vista, è più complicato e dipende dalle storie che voglio raccontare. A volte scrivo ogni capitolo secondo il punto di vista di un personaggio, altre volte utilizzo un narratore esterno, altre ancora cambio punto di vista all’interno di uno stesso capitolo. Mi sembra che l’abilità del romanziere – e la sua riuscita – sia molto legata alla sua capacità di scegliere l’angolo giusto in ogni momento dell’azione. La domanda è sempre la stessa: per essere efficace, dove piazzare l’obiettivo della macchina?

Il tuo libro è sempre in bilico fra la minaccia di perdere la dignità e il bisogno di lavorare, non solo di guadagnare ma di essere un membro attivo della società. E’ stato difficile costruire questa tensione in pagina? Come ti sei documentato per costruire il personaggio di Alain?

Il dramma della disoccupazione ci priva dei mezzi per vivere, ma soprattutto ci sottrae la nostra dignità. Non siamo giudicati per quello che siamo ma per quello che valiamo, produciamo, spendiamo, siamo degli esseri valutati da numeri. Il problema di Alain è insito in ciò su cui ha costruito la sua vita. Ha creduto nei valori del liberalismo, ma quando il liberalismo non ha più avuto bisogno di lui e l’ha rifiutato, non ha trovato in se stesso le risorse per pensare in maniera diversa. Per quanto riguarda la documentazione, non è stato necessario andare lontano: purtroppo bastava aprire il giornale tutti i giorni.

Come mai apri il libro con una epigrafe del Gattopardo? Avverti nei due periodi storici una tetra contiguità?

Per iniziare il libro volevo una citazione che non traducesse la condizione dello spirito del personaggio, ma quello dell’autore. Scrivendo questo romanzo, mi sono spesso sentito vicino a Fabrizio Salina: terribilmente fin de siècle. A volte mi sembrava che la mia morale non trovi più spazio nel mondo in cui vivo. 

Credi sia possibile che con l’aumentare della disoccupazione e della disperazione, gli addetti alle risorse umane saranno sempre più tentati di agire come deus ex machina, operando selezioni con criteri sempre più crudeli e spietati, proprio come in un folle reality?

Nelle società democratiche, il consenso dei governati è assolutamente indispensabile. E’ addirittura la condizione necessaria alla loro sopravvivenza. Il management, che è uno strumento un pò più performante degli altri, si inscrive totalmente in questa logica: mira a portare i funzionari a fare di loro stessi ciò che le élites hanno definito come auspicabile. Per questo utilizza il registro dell’autenticità (le relazioni cool, spontanee, la confidenza, la simpatia, la vicinanza, il darsi del tu, l’autostima..) e di un insieme di strumenti di una povertà e mediocrità che confondono. E nell’insieme non funziona così male. Questo porta naturalmente il management a delle rivendicazioni sempre più ambiziose anche se era lecito pensare che avesse già acquisito fin troppi diritti sulla nostra sorte economica (iperselezione all’entrata, ipervalutazione che porta all’uscita), sul nostro stato di salute psichico (il mobbing istituzionalizzato che porta i dipendenti al suicidio) e persino sulla nostra vita privata (le agenzie di detective sono sempre di più sollecitate dalle società a sorvegliare i dipendenti). A mio avviso, il fatto di cronaca a cui mi sono ispirato marca un ulteriore gradino: simbolicamente, ci informa che i management, da qui in avanti, rivendicheranno sui salariati un diritto di vita e di morte.

Ma resta un fatto simbolico?

Ne dubito: la presa in ostaggio certo era virtuale, ma la certezza che fosse legittimo organizzarla, era molto reale. Possiamo condannare le persone che hanno organizzato questo gesto ma temo che si confonda il messaggio con il messaggero. Condannare il manager è necessario. Ma temo, purtroppo, che ciò non basterà a dare un segnale abbastanza forte al management aziendale.

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