Da giorni il primo cittadino di Firenze Matteo Renzi, candidato alla segreteria di Largo del Nazareno, avrebbe preso le distanze dalla piattaforma programmatica che lo ha contraddistinto in questi ultimi due anni. Della parola “rottamazione” non c’è più traccia. Anzi. Il “giovanotto di Firenze”, ribattezzato asfaltatore, non ha proferito parola sull’appoggio di Dario Franceschini, né tanto meno di altri nemici storici. Stesso discorso vale per le proposte in materia economica. Come ha scritto stamane su il Messaggero il professore Alessandro Campi, «ha smesso di ispirarsi alle posizioni liberali di un Luigi Zingales o a quelle liberal-riformiste di Pietro Ichino». E se prima ««problema era quello di tagliare la spesa sociale – continua Campi – oggi è quello di ridistribuirla in maniera più equa».
In sostanza il “nuovo” Renzi è distante anni luce dalla Leopolda del 2011, che lo rese celebre per l’impatto “modernista” e la “svolta” riformista che avrebbe potuto insignire nella sinistra italiana. Nulla di tutto ciò si trova nell’agenda del primo cittadino di Firenze, ribattezzata “L’Italia cambia verso”. Per di più si è scoperto socialista europeo proprio oggi che l’Internazionale Socialista sollecita il Pse di guardare ad modello di tipo progressista. Insomma altro che “post ideologico”, come avrebbe gridato un tempo: «Da dirigente politico avrei votato Spd, per senso di appartenenza», spiegava ieri dalle colonne de La Stampa. Del resto Matteo è fortemente preoccupato del ritorno della Balena Bianca. Se si fosse schierato con i popolari europei avrebbe servito un assist a porta vuota ai Franceschini, Letta, Fioroni. «Matteo non è un Dc 2.0», sbotta su L’Unità il fedelissimo fiorentino Dario Nardella. «Lui, come me, appartiene a quella generazione nata politicamente con il grande sogno dell’Ulivo. Di una grande forza di centrosinistra che ottiene la maggioranza dei voti e manda a casa il centrodestra».
Ecco perché la partita si gioca anche sulla legge elettorale. Nell’attesa che si pronunci la Suprema Corte sul Porcellum di calderoliana memoria, il primo cittadino fa il tifo per Roberto Giachetti. Il quale in conferenza stampa a Montecitorio è tornato alla ribalta con il ritorno al vecchio sistema elettorale, il Mattarellum, un sistema elettorale costituito per il 75% da collegi uninominali, che di fatto bipolarizzerebbe il sistema politica italiano. E non è un caso che alla conferenza stampa dell’ex radicale Giachetti abbia anche partecipato, seppur da spettatore, il renziano Ernesto Carbone. Infatti, spiega il solito Nardella, che del sindaco è fra i più stretti collaboratori, «il Parlamento deve muoversi presto e bene per una legge che garantisca il bipolarismo. Perché la Corte Costituzionale a dicembre potrebbe intervenire sul Porcellum cassando il premio di maggioranza e rendendolo di fatto proporzionale».
Ma si nasconde del tatticismo dietro l’atteggiamento renziano di queste ore. Peppino Caldarola, ex direttore de L’Unità, e conoscitore della sinistra italiana come pochi, ritiene che la strategia di Renzi verta su due punti. In primo luogo «lui tranquillizza la sinistra dicendo: “si resta a sinistra al punto che aderisco al Pse”. In questo modo toglie un argomento a Barca e Cuperlo». Dall’altro elimina la concezione dell’one man show e «dice di voler fare una campagna elettorale dal basso». Stando così la strategia, continua Caldarola, «inizia a piacere pure ad uno come Vendola anche perché non avrebbe più argomenti contro». Ecco perché lo stesso governatore della Puglia ha definito in più di un’occasione il sindaco di Firenze «un interlocutore credibile».
Tuttavia ciò potrebbe non bastare. Come rivela in Transatlantico un renziano, «c’è anche un aspetto congressuale. Il congresso si dividerà in due fasi. Quindici giorni prima dell’8 dicembre voteranno soltanto gli iscritti. E se fra gli iscritti Matteo dovesse restare soltanto al 50% sarebbero guai». I fedelissimi scongiurano questo scenario, anche se temono che uno come Gianni Cuperlo “viaggerà fra gli iscritti alla ditta”. Ecco perché soprattutto nella prima fase della campagna elettorale delle primarie, che inizierà sabato da Bari, Renzi si affrancherà come un leader di sinistra, rivolgendosi principalmente al cosiddetto apparato. Che di certo non è mai stato sostenitore del “giovanotto di Firenze”, ma in queste ultime settimane starebbe ricredendosi. E un aiuto, secondo quanto rivelano a Linkiesta, gli giungerà dal “compagno” Vendola. Il quale, come dicevamo sopra, oltre a simpatizzare per Renzi avrebbe aperto un tavolo di trattativa in vista delle primarie congressuale. Non è dato sapere se con un ticket. I più lo escludono. Ma la trattativa, confermano parlamentari di rito renziano, sarebbe in corso.
Eppure la strategia di Renzi mostra delle crepe. Vincerà le primarie a mani bassi, come tutti i sondaggi diffusi riportano. Piacerà sempre più alla cosiddetta “base” del Pd, e anche ad una fetta di sinistra radicale. D’accordo. Ma la storia elettorale della sinistra italiana ricorda che un partito di sinistra, si chiami esso Pci o Pd, vale al massimo il 34%. Il record più recente appartiene alla candidatura di Walter Veltroni del 2008. In sostanza, per dirla con il prof. Campi, «una sinistra moderna e senza condizionamenti ideologici deve essere inclusiva e in grado di parlare alle più diverse fasce sociali, ive comprese quelle per sensibilità e interessi potrebbe sembrare le più lontane della propria storia». Altrimenti, aggiungiamo noi, a nulla sarà valso vincere le primarie. Del resto a contare saranno sempre le “secondarie”.
Twitter: @GiuseppeFalci