Per individuare l’autore – o il mandante – di un omicidio la prima cosa da fare è chiedersi “a chi giova?”. In Iran la trama di intrighi internazionali (e non) è talmente fitta che, di fronte alla scoperta del cadavere di un alto papavero militare del regime in un bosco fuori Teheran, è quasi impossibile stabilire con certezza cosa sia successo.
Mojtaba Ahmadi è stato ucciso, secondo quanto riporta Alborz (il quotidiano vicino ai Pasdaran), con due colpi di pistola al cuore. L’ultima volta che è stato visto vivo era sabato 28 settembre, all’uscita dal lavoro. Il corpo è stato ritrovato il martedì successivo. Le fonti del regime hanno immediatamente svelato il suo ruolo di capo del programma militare cyber dell’Iran, salvo poi invitare chi stava scrivendo messaggi di condoglianze sulla pagina Facebook della struttura cyber a smetterla immediatamente, “per non rivelare dettagli importanti per la sicurezza del Paese”.
Dal 2007 sono stati uccisi diversi scienziati iraniani, cinque legati al programma nucleare e uno a capo del programma balistico. I sospetti per queste morti sono sempre ricaduti su Israele e sul Mossad, anche se non se ne sono mai avute le prove. Ahmadi sarebbe – secondo una prima interpretazione diffusa anche dalla Repubblica Islamica – l’ennesima vittima del programma di eliminazioni mirate che sta portando avanti Tel Aviv.
Ma, seguendo la teoria del cui prodest (a chi giova?), emergono dei dubbi su alcuni elementi di questa prima ricostruzione. «Ci sono due possibilità in questa vicenda» spiega Stefano Mele, coordinatore dell’Osservatorio “InfoWarfare e Tecnologie emergenti” dell’Istituto Italiano di Studi Strategici. «La prima è che Ahmadi effettivamente lavorasse al programma militare cyber. In questo caso sembra assai improbabile che Israele o altre potenze straniere si siano scomodate per ucciderlo. La seconda è che la carica diffusa dalle autorità dopo la sua morte fosse quella “di copertura”, e che in realtà il suo ruolo andasse ben oltre l’ambito cyber e magari fosse coinvolto nel programma nucleare. In questo caso allora sarebbe ipotizzabile un’azione di qualche potenza straniera ostile al regime».
Negli ultimi anni l’Iran ha fatto un enorme balzo in avanti nel cyberspazio, specie dopo aver subito gli effetti devastanti del virus Stuxnet nel 2010. Dal 2011 investe oltre un miliardo di dollari all’anno per incrementare le proprie capacità cibernetiche di difesa e offesa e qualche frutto c’è stato. Molti attacchi cyber a obiettivi occidentali, o di alleati dell’occidente, sono stati ricondotti a Teheran. In particolare il virus Shamoon, che l’anno scorso infettò 30mila computer della Saudi Aramco (la compagnia petrolifera nazionale saudita) si ritiene sia stato sviluppato dalle nuove strutture create e finanziate dal regime degli Ayatollah.
«Ma questo non basta – prosegue Mele – a giustificare l’omicidio. L’Iran è ancora molto lontano dai livelli raggiunti da Stati Uniti, Israele, Cina o Russia. Si sarebbero trovate altre vie meno drastiche e più utili se l’obiettivo fosse stato limitare il potenziale offensivo cibernetico dell’Iran. A meno di non voler immaginare che l’Iran sia molto più avanti di quanto ritengono gli esperti, che c’è qualcosa che non sappiamo e che giustifica l’assassinio. Ma non penso, questa mi sembra la pista meno credibile. Nell’ipotesi in cui Ahmadi avesse davvero solo un ruolo nella struttura cyber secondo me è più probabile che sia stato il governo iraniano stesso a eliminarlo, magari come ritorsione per Stuxnet. Dopo aver fatto passare il giusto tempo – un paio di anni abbondanti – in cui si è calmato il polverone, e magari dopo averlo anche cambiato di posizione all’interno della struttura, lo hanno tolto di mezzo».«Se in quanto complice», conclude Mele «o in quanto colpevole di qualche errore non lo sapremo mai».
Oltre a queste possibilità, legate all’ipotesi che il ruolo dichiarato di Ahmadi e quello effettivamente svolto coincidessero, gli analisti di intelligence considerano molto plausibile anche un incarico sotto copertura. Da quel che traspare, ad ora, sembra che Ahmadi fosse un tecnico, un ingegnere elettronico esperto di robotica. Le sue competenze sarebbero utili tanto nello sviluppo della tecnologia nucleare quanto nei droni senza pilota, un settore in cui l’Iran sta investendo pesantemente. In questo caso non sarebbero solo Israele e gli Stati Uniti ad avere interesse alla sua eliminazione, ma anche tutte le potenze regionali opposte all’Iran – in particolare Arabia Saudita e Qatar – attualmente coinvolte anche nello scenario siriano.
La pista dei gruppi armati interni, che abbiano agito in autonomia, viene ritenuta poco plausibile dalle fonti di intelligence. Al massimo potrebbero essere stati usati come esecutori materiali, ma l’ordine sarebbe comunque partito dall’esterno. «Gruppi come i Mujaheddin – spiega Pejman Abdolmohammadi, docente di storia e istituzioni dei Paesi islamici alla facoltà di Scienze politiche dell’Università di Genova – sono oggi completamente privi di appoggi reali nel Paese. Vengono finanziati dall’Europa, vengono fortemente eterodiretti e hanno perso da anni il contatto con la realtà iraniana. La nuova opposizione, quella giovane che ad esempio si è riversata per le strade nel 2009, non ha carattere militare ma civile. Quindi anche loro sono da escludere».
L’ultima teoria, quella più complottista, vuole che i settori più intransigenti del regime di Teheran abbiano eliminato uno dei loro – uno poco importante – per avvelenare il clima e sabotare così i tentativi di distensione che starebbe portando avanti il presidente Rohani. Idea è ritenuta dagli esperti fantasiosa, considerato che Rohani è stata un’abile mossa del regime degli Ayatollah per cercare di sopravvivere. Non si vede il motivo per cui la guida suprema Khamenei e i Pasdaran dovrebbero affondare la zattera su cui sono saliti.
Twitter: @TommasoCanetta