Perché è giusto distribuire gli utili ai lavoratori

Le vie della crescita/1

Immaginate una delle province più manifatturiere d’Italia, Brescia, collocata nella dorsale pedemontana padana che corre da Biella a Treviso, patria del capitalismo diffuso e delle Pmi che, in tempi crisi, tra moria e ripartenza, stanno tenendo a galla il paese. Nell’immaginario collettivo queste sono state le provincie tipiche del “piccolo è bello”, un tempo vanto e forza irresistibile del made in Italy e oggi, dopo lo tsunami globale, il boom cinese e l’ingresso nella moneta unica, sempe meno al passo coi tempi. Perchè per competere bisogna avere i muscoli, crescere in dimensione e mentalità, aprirsi al capitale e alle competenze esterne, terziarizzare le produzioni, innovare sulla catena logistica-distributiva e di brand. Insomma addio nanismo, dicono economisti e osservatori, quel modello è finito. Nel mondo di oggi serve altro. Vero. Eppure è proprio da questi mondi ex distrettuali che stanno arrivando soluzioni concrete; è da alcune di queste piccole imprese che stanno arrivando segnali di dinamismo e innovazione dal basso. Mai arrendersi, è il grido che si alza da quei mondi troppo spesso bistrattati dalla politica e dai grandi centri del potere economico-finanziario. Quel modello di Pmi non è finito, però va aggiornato su basi nuove. Una di queste ad esempio è la proposta di distribuire gli utili aziendali ai dipendenti, che migliorerebbe la produttività di molte aziende, oltre che riscrivere il patto fiduciario e la comunità di destino che negli anni passati hanno garantito il successo di migliaia di piccole medie imprese, nate da ex dipendenti che si sono fatti padroncini. E dove, di conseguenza, il rapporto tra imprenditore e dipendenti è sempre stato di contiguità/alleanza più che di conflitto (capitale-lavoro). Ad avanzare la proposta è Paride Saleri, numero uno della OMB Saleri Spa, media impresa bresciana con quasi 150 addetti che si occupa di componentistica per la conversione dei motori dalla benzina al gas. Lo abbiamo intervistato.  

Cosa immagina per uscire dalla crisi? «Una norma di legge che permettesse la distribuzione degli utili aziendali ai dipendenti in quanto tali, sarebbe la naturale evoluzione di un processo di miglioramento della produttività che molte aziende italiane di piccola e media dimensione stanno avviando», spiega con passione il signor Paride Saleri, che parlando con Linkiesta propone appunto un modello di organizzazione alternativo al fordismo/taylorismo, «ispirato ai principi della lean manufacturing». 

Cosa intende per lean manufactoring? E’ adattabile ad un paese di Pmi come l’Italia?

Oggi c’è bisogno di strategie industriali che favoriscano la flessibilità, la qualità e l’efficienza dei processi aziendali attraverso la partecipazione “dal basso” delle persone. Ogni attività d’azienda che si uniformi alle nuove tecniche “lean” vive fasi di miglioramento degli indici aziendali tanto più importanti quanto più si coinvolgono i lavoratori. Ciò significa che le competenze tecniche delle persone vengono evidenziate in modo palese in ogni reparto, e sono condivise da tutti. Gli obiettivi di miglioramento di ogni settore vengono definiti senza imposizioni dall’alto: i dati della produzione, della qualità e delle inefficienze sono presentati e gestiti dai gruppi di lavoro. 

Come si traduce questa condivisione delle strategie?

Attraverso una grande trasparenza, condizione imprescindibile per l’efficacia degli interventi. Si intende trasparenza degli indici aziendali, molti gestiti dal basso, degli obiettivi di reparto, condivisi dal gruppo di lavoro e infine dei bilanci, non solo quello finale di fine d’anno, ma pure dei conti mensili. Insomma, si crea un clima di condivisione degli obiettivi, di partecipazione ai processi aziendali senza che nessuno sia escluso, pur nella differenza di funzioni e responsabilità. I risultati di miglioramento diventano quindi il frutto di un lavoro collettivo e, pur all’interno di regole ispirate alla meritocrazia, tutti si sentono parte dell’impegno quotidiano per ” far andar bene la fabbrica”. La condivisione degli utili di fine d’anno è pertanto una condizione che può diventare “normale” nella gestione delle aziende.

Quali modelli ha studiato prima di proporre questa soluzione?

In Germania e Francia esistono già le norme che favoriscono la distribuzione di parte degli utili ai dipendenti, e certamente sono uno dei fattori che favoriscono alti livelli di produttività. Da noi, negli anni passati, si è cercato di introdurre uno strumento per l’avvio di una qualche forma di salario variabile. Questo perché i “premi di risultato” negoziabili a livello aziendale, alla prova dei fatti, si sono dimostrati inefficaci al fine di migliorare la produttività.

Perché?

Perché troppo spesso essi si sono trasformati in salario fisso, attraverso il cosiddetto “consolidamento”, mentre, più frequentemente, l’oggettiva difficoltà ad individuare indici attendibili cui legare i premi hanno condotto a definire parametri cervellotici , obsoleti – si pensi al cottimo! – e in definitiva insoddisfacenti per tutte le parti. 

Quali sono i vantaggi pratici della compartecipazione agli utili?

Ogni miglioramento salariale, fisso o variabile che sia, essendo ancora e sempre gravato dal pesantissimo cuneo fiscale, diventa un puro ed insostenibile incremento di costo per le aziende. La partecipazione agli utili,invece, permette una via d’uscita alla rigidità del rapporto salario/costo aziendale. 

Però anche gli utili sono tassati…

Infatti va stabilita un’unica imposizione fiscale secca del 30% sulla quota di utile ante-imposta distribuita ai dipendenti. La perdita dello Stato sarà irrilevante dato che poche aziende, almeno inizialmente, sono disponibili a distribuire una parte degli utili, mentre altri Istituti come INPS e INAIL non hanno nulla da rivendicare, visto che si sta parlando di profitti e non di salari e stipendi.

E lo Stato accetterà di perdere gettito?

Penso di sì: nel breve periodo, infatti,  la aziende che adotteranno, liberamente, la norma otterranno benefici in termini di produttività, in definitiva di risultati aziendali e quindi di imponibile. A fronte di una irrilevante perdita di entrate, si pongono invece i presupposti per il rilancio di quei settori industriali più innovativi, quelli che anche ora, durante la crisi, guardano al futuro con ottimismo.”  

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