Verdi nelle colonne sonore dei film di tutto il mondo

Da Luchino Visconti a “Pretty Woman”

Sarebbero molte, molte più che cinquanta le sfumature di Verdi al cinema. Il nostro massimo compositore, di cui ricorre in questo ottobre 2013 il bicentenario della nascita, è stato lungamente utilizzato nelle colonne sonore in ogni parte del mondo, in qualsiasi epoca, per qualsiasi genere di film. Ci proviamo a dare un piccolo estratto ragionato, a prevalente vocazione tricolore. Parziale e lacunoso, pescando nella Rete.

SENSO (1954) di Luchino Visconti
Non possiamo non iniziare con un capolavoro assoluto del cinema mondiale che coglie ed esalta al massimo l’anima profondamente politica della musica di Verdi, vero e proprio inno di battaglia che accompagnò il cammino del Risorgimento verso l’Italia unita. Parliamo di Senso di Luchino Visconti, maestro nell’utilizzo del melodramma in chiave sociale, e che ricorrerà di nuovo a Verdi, a un suo inedito valzer riscoperto da Franco Mannino, per la celeberrima sequenza del ballo nell’assai politico Gattopardo. Qui invece siamo nel 1866, al Teatro La Fenice di Venezia, città ancora sotto gli austriaci, ma per poco ancora. La vicenda storica italiana s’intreccia con un malsano amore italo-asburgico: il copione è ispirato all’omonimo racconto di Camillo Boito, fratello di quell’Arrigo che fu librettista di Verdi. In questa sequenza sul palco vibra il coro marziale del Trovatore. I patrioti gridano “Viva l’Italia!”, a Custoza andrà malissimo, per fortuna provvederanno i prussiani a Sadowa.

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VIVA LA LIBERTÀ (2013) di Roberto Andò
E dunque “Viva l’Italia”, che poi per non esporsi troppo era mutata nelle bocche e sopra i muri in “Viva VERDI” e cioè Vittorio Emanuele Re d’Italia. Invocazione che al fondo di tutto voleva dire Viva la libertà, la libertà del popolo. E proprio così, Viva la libertà, si intitola il più recente film di Roberto Andò, certamente miglior pellicola italiana di quest’anno (insieme a Sacro Gra di Gianfranco Rosi). Di nuovo torna la politica: qui si narra del segretario del primo partito della sinistra che ha una crisi e viene sostituito dal suo gemello pazzo. Film lieve e allo stesso tempo irresistibilmente verdiano, per il ruolo che vi gioca la potente sinfonia della “Forza del destino”. Opera iniziata nel 1861, anno dell’unificazione, dal maestro e deputato Verdi: deputato per geniale intuizione di Cavour che ben aveva chiaro che in quel primo Parlamento italiano non poteva simbolicamente non esserci l’italiano più amato.

LA LUNA (1978) di Bernardo Bertolucci
Verdi, così intensamente visceralmente parmigiano, trova inevitabile venerazione nel regista più parmigiano di tutti: Bernardo Bertolucci. Che dissemina di verdismi le sue opere padane: il monumentale Novecento comincia proprio con la notizia della morte di Verdi, il 27 gennaio 1901, giorno i cui nascono i due personaggi principali, Alfredo ed Olmo. La strategia del ragno ha il suo momento principale nell’ultimo atto in un teatro dove si rappresenta il Rigoletto. Ma il film di Bertolucci più intensamente verdiano, e tra i più verdiani della storia del cinema, è La luna, melodramma tossico-incestuoso che ha per tema il rapporto tra una famosa cantante lirica e suo figlio eroinomane. Lei si produce in due opere del maestro, Il Trovatore e Un ballo in maschera. La storia si svolge soprattutto tra Roma e i luoghi simbolo della provincia verdiana: Parma, Busseto, Roncole, Sant’Agata (proprio dinanzi a Villa Verdi, dove Bertolucci fu preso a pistolettate dagli eredi del musicista perché “comunista sporcaccione”: lo si apprende dal bel documentario Bertolucci on Bertolucci di Luca Guadagnino e Walter Fasano).

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OPERA (1987) di Dario Argento
Parma per Parma, soprano per soprano, restiamo a Verdi ma cambiando genere. Il maestro si tinge di nero nelle mani di Dario Argento, che utilizza lo shakespeariano Macbeth per volteggiare sopra la platea del Regio e tra loggioni e i palchi all’inseguimento del corvo nel cui sguardo c’è la chiave del mistero. Opera cupa per eccellenza, Macbeth, di successo al debutto ma inabissata immediatamente anche per via di una sinistra fama, fu recuperata dalla voce del secolo, Maria Callas, che dalla Scala di Milano la impose nei cartelloni di tutto il mondo. Argento l’utilizza mischiandola qua e là con l’heavy metal, tra guardaroba e retropalchi e terrori negli occhi e torture corporali. Sceneggiatura svalvolante, messinscena virtuosistica.

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AMICI MIEI (1974) di Mario Monicelli
«Bella figlia dell’amore…». Qui si miscelano ignobili duchi mantovani a decaduti conti fiorentini. Il quartetto del terzo atto del Rigoletto diventa il quartetto in macchina degli amici diretti all’ennesima zingarata: il Mascetti, il Melandri, il Perozzi e il Necchi. Amici miei è una delle più grandi commedie sulla morte, ultimo copione di un autore immenso e morente come Pietro Germi che la lasciò all’amico Mario Monicelli. Il riso e l’allegria di questa scena sono un esorcismo, l’ennesimo e inutile, verso l’ombra nera del finale. Verdi irrompe nella colonna sonora dettata dalla strepitosa partitura del germiano Carlo Rustichelli. Cinema grande e popolare, come quest’opera verdiana, che avvia la cosiddetta “trilogia popolare”.

LA RAGAZZA CON LA VALIGIA (1960) di Valerio Zurlini
Lei si chiama Aida come la “celeste Aida”, capolavoro dell’ultima maturità del maestro di Busseto. Ma niente esotismi egizi e canali di Suez, siamo nell’originaria verdiana terra emiliana, Parma e campagna, con qualche escursione nella Riviera romagnola. Aida Zepponi ha il volto bruno e fatale di Claudia Cardinale, qui divinità provinciale, bellissima e piuttosto disperata, venuta a incarnare il primo turbamento sentimentale del sedicenne Lorenzo, che ha il viso commovente di un giovanissimo Jacques Perrin. Dirige il più sottovalutato tra i grandi registi italiani, Valerio Zurlini. Pochi film hanno esplorato la sensualità giovanile con tanta grazia ed eleganza come questa Ragazza con la valigia. Verdi occhieggia in questa sequenza di interni altoborghesi, estiva e leggera, meravigliosa.

RIGOLETTO A MANTOVA (2010) di Marco Bellocchio
Di citazioni dalla filmografia verdiana se ne potrebbe fare in quantità. Registi come Carmine Gallone, Raffaello Matarazzo e Renato Castellani hanno raccontato la vita del musicista (in questi giorni si presenta alle Giornate del cinema muto di Pordenone il primo bio-pic sul maestro, “Giuseppe Verdi nella vita e nella gloria”, anno 1913, regia di Giuseppe De Liguoro); altri autori hanno disseminato nelle loro pellicole il suono inconfondibile del maestro: si consideri per esempio il verdismo che attraversa tutta l’opera di un autore totale come Carmelo Bene, che nei suoi non numerosi ma assai significativi esiti cinematografici ricorre alle sue note con grande intelligenza (valga per tutti Nostra signora dei turchi), o alla produzione di Franco Zeffirelli, piena di applicazioni su Verdi. Tra i nostri autori, occorre ricordare Marco Bellocchio che ha seminato Verdi in tutta la sua opera: il finale del suo capolavoro I pugni in tasca sulle note della Traviata, o il Don Carlo in La Cina è vicina, Il Trovatore che fa capolino nella tenera storia delle Sorelle Mai, piccolo gioiellino familiare di non molto successo. Alla Traviata è dedicato un suo fantasioso documentario sulle voci di Violetta e Alfredo e gli altri, Addio del passato. Bellocchio affronta poi Verdi di petto portandone sul piccolo schermo l’immortale storia del buffone col Rigoletto a Mantova (lo spettacolo va in diretta tv il 4 e 5 settembre 2010 su Rai1, secondo una modalità già sperimentata in precedenza da Giuseppe Patroni Griffi con la Tosca di Puccini e La Traviata verdiana). Quest’opera d’ambientazione emiliano-lombarda ben si confà al regista, che in quell’area è nato e cresciuto. Già altri grandi registi si sono misurati con la messinscena cinematografica di un’opera lirica, talora con risultati eccelsi: Francesco Rosi con la Carmen di Bizet a Siviglia, Joseph Losey con il Don Giovanni di Mozart tra le ville palladiane di Vicenza. La realizzazione televisiva bellocchiana è parecchio suggestiva.

BRONSON (2008) di Nicolas Winding Refn
Si tratterebbe poi di aprire il capitolo del cinema straniero alle prese con le opere del maestro, quasi sempre utilizzate come coloritura melodrammatica spesso un po’ telefonata: il brindisi della Traviata accompagna il matrimonio di Michael Corleone in Sicilia; Julia Pretty Woman Roberts va all’opera e ovviamente assiste alla Traviata… Gli esempi da riportare sarebbero ovviamente tantissimi: si distingue per intelligenza l’uso della lirica da parte di Woody Allen in Match Point, forse il suo ultimo capolavoro. Ma abbiamo scelto un film che fa un uso assai più spiazzante della grande melodia italiana (non solo il Verdi del Nabucco, anche Puccini con Madame Butterfly, miscelate eccentricamente con generi musicali di vario tipo ed epoca). Parliamo di Bronson, capolavoro di uno dei nuovi maestri del cinema contemporaneo, Nicolas Winding Refn. Bronson è la storia vera di un criminale inglese che trascorre la maggior parte della sua vita in carcere, in regime di isolamento. Ci sarebbe molto da dire sulla assoluta genialità “teatrale” della messinscena. Valga a stimolare la voglia di vedere o rivedere il film questa breve clip: preziosissima perché in essa si stratificano in contemporanea il genio italiano del musicista Verdi, il genio danese del regista Refn e il genio britannico dell’attore Tom Hardy. Va’, pensiero…
 

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