FRANCOFOBIAAddio grandeur. I campioni nazionali non bastano più

Francia malato d’Europa/3

«La terza rivoluzione industriale si produrrà anche in Francia. Noi faremo nascere le invenzioni di domani, le officine di domani, i prodotti di domani». Noi chi? Ma il governo, le istituzioni pubbliche, l’Etat-patron, ça va sans dire. François Hollande ha lanciato il suo proclama tre mesi fa e nel frattempo sono stati messi sulla carta ben 34 piani destinati a rilanciare l’industria francese. Si va dalla vettura con pilota automatico al tessile “intelligente”, dall’aereo elettrico alla nuova generazione di treni ad alta velocità e via via inventando, investendo, spendendo e spandendo. Con i soldi di chi? La Francia deve ridurre il suo deficit eccessivo (supera il 4%); ha ottenuto due anni di proroga dall’Unione europea, vuole chiederne altri due? Questa nuova ondata di «colbertismo high tech», in realtà, ha l’ambizione di mobilitare, attraverso i grandi progetti pubblici, investimenti privati nazionali e internazionali. Guardando a Georges Pompidou più che a François Mitterrand.

Un programma inattuale? Può darsi, ma di politica industriale parla persino David Cameron per rafforzare la «piccola Inghilterra» in declino (parola dell’Economist) e si fa consigliare dalla nuova star del tardo-statalismo, l’economista italo-americana Mariana Mazzucato, lanciata da Martin Wolf che sul Financial Times chiede il coraggio di pensare l’impensabile (gli italiani l’hanno vista in tv a Otto e mezzo duellare con li liberista Michele Boldrin). Dunque, i francesi, sfrontati e provocatori, annunciano ancora una volta il nuovo spirito dei tempi. Calma, le cose sono molto più complicate perché la Francia sta diventando il nuovo malato d’Europa, malato economico e politico, e cerca di reagire con la ricetta che ha imparato dalla storia: il colbertismo.

Lo spirito del potente ministro delle finanze del Re Sole ha sempre aleggiato sul paese in questi tre secoli e mezzo, anche se pochi ricordano che il capolavoro di Jean-Baptiste Colbert non fu tanto la manifattura e nemmeno il protezionismo (che ha ritardato l’arrivo della rivoluzione industriale), ma il pareggio del bilancio grazie al quale ha salvato Luigi XIV da una sicura bancarotta. C’è colbertismo e colbertismo, dunque, e Hollande sembra avere in mente solo quello espansivo e interventista, saltando su due piedi quello fiscale. Eppure, senza rimettere in sesto un bilancio squilibrato dal lato della spesa, sarà difficile acchiappare la terza rivoluzione industriale persino per la coda.

Anche l’idea di campioni nazionali pubblici è cambiata molte volte nel corso dei tempi. Per il generale de Gaulle era sia un modo per far pulizia dei collaborazionisti (infatti nazionalizzò la Renault e non la Peugeot), sia lo strumento per ricostruire un paese arrivato alla vigilia della Seconda guerra mondiale con un apparato industriale molto più arretrato rispetto alla Germania o all’Inghilterra: il crollo davanti alle Panzerdivisionen era stato anche un crollo produttivo. Il suo pupillo Pompidou, che si era fatto le ossa come banchiere dai Rothschild, voleva rispondere con un ruolo attivo dello stato alla sfida americana. «La défi americaine» si chiamava un libro di successo scritto da Jean Jacques Servan-Schreiber, direttore dell’Express, che ispirò in particolare Valéry Giscard d’Estaing, presidente della Repubblica dopo Pompidou. Il nucleare, da force de frappe militare diventa la fonte energetica principale. Nasce la rete ferroviaria veloce. Arriva il futuristico Concorde e l’Airbus concorrente di Boeing. Compie un balzo la telefonia (non c’era ancora la teleselezione in tutto il paese a differenza dall’Italia che allora era molto più avanti). Poi l’elettronica. Senza trascurare le banche strumento chiave per veicolare i risparmi verso i grandi progetti.

Mitterrand, a capo della coalizione di sinistra, porta all’estremo questa strategia con nazionalizzazioni a tappeto, investendo anche i santuari della finanza. Un fallimento economico che spinge il tecnocrate Edouard Balladur a privatizzare, ma usando l’escamotage dei «noccioli duri» nei quali lo stato, le grandi banche e le assicurazioni garantiscono il controllo. Quando, con la fusione tra la Elf, il gruppo petrolifero di stato, la Total e la Petrofina, si crea un colosso energetico privato, il potere resta nel club degli amici. La difesa della proprietà nazionale, del resto, ha fatto fallire il progetto di un’alleanza paritaria tra la Elf e l’Eni. Anche nel sistema bancario, da Crédit Agricole espressione del mondo agricolo protetto e super sussidiato, a Bnp-Paribas che nasce nell’alta finanza, la «francesità» resta un punto fermo di qualsiasi governo, di destra o di sinistra.

Non tutte le grandi operazioni vanno per il meglio, nemmeno le più audaci. Basti pensare al Concorde, un gioiello tecnologico che non è stato mai economico. O al Minitel precursore di internet, ma sistema chiuso, riservato solo ai francesi, senza un linguaggio informatico universale. Parigi affronta la «mondialisation» specializzandosi in tecnostrutture ampie e ben organizzate, anche se non particolarmente innovative. Quasi tutto arriva dal mondo anglo-americano, ma i francesi inseguono facendo ricorso al primo «colbertismo high tech», termine coniato negli anni ’90 dall’economista Elie Cohen. Nel nucleare civile la Francia raggiunge l’eccellenza. E non c’è «No nuke» che tenga: l’atomo resta non solo un campione, ma un valore nazionale. Nei treni se la batte con il Giappone. Un altro punto forte è la bancassurance che ha in Axa un pilastro sia pur peculiare (una delle prime compagnie mondiali di assicurazioni resta ancor oggi mutualistica come un secolo fa). I privati danno il meglio nella distribuzione (Carrefour, Auchan) e negli alberghi (Accor è il primo gruppo europeo). Le grandi scuole d’amministrazione sfornano eccellenti tecnocrati; la classe dirigente francese è composta di ingegneri più che di imprenditori. Lo stesso Bernard Arnault ha messo in piedi Lvmh, il colosso del lusso, grazie alla sua capacità organizzativa e al sostegno amichevole delle banche e della haute finance (a cominciare da Lazard), non per le sue abilità nel taglio, nel cucito o il suo naso per i profumi.

Se prendiamo le principali società francesi, vediamo che lo stato è presente in Gdf-Suez (energia) con il 36%, possiede le ferrovie Sncf e Edf (elettricità), controlla Orange (ex France Télécom), è il maggior azionista in Renault e attraverso il suo braccio finanziario, la Cdc (Caisse des dépots et consignations), ha quote significative in Veolia (ambiente), Vivendi (comunicazione), Accor e St.Gobain la società dello vetro fondata da Colbert nel 1665. Bisogna poi ricordare che il ministero delle finanze possiede il 22% di Eads (Airbus) attraverso la Sogeade e il 90% di Areva capofila del nucleare. L’industria militare è in mano in parte a privati come Dassault e Lagardère, i quali operano per così dire su licenza (anche politica) dei governi.

Il capitalismo francese nell’ultimo quarto di secolo ha visto dimezzarsi la proprietà familiare (era il 43% nel 1981 tra le 40 prima società quotate, è scesa al 20) a favore soprattutto di grandi gruppi con proprietà diffusa e nuclei di azionisti forti privati e/o pubblici. Molti dei grands patrons sono usciti dai ranghi dello stato e della politica, creando così quel che Pierre Bourdieu ha chiamato un “campo di potere”; tuttavia è cresciuto in questi anni il numero di manager che vengono direttamente dal privato. E quel campo oggi è sottoposto “non solo a una ricomposizione, ma a una trasformazione radicale”, come scrivono François-Xavier Dudouet e Eric Grémont in un saggio pubblicato su Sociétés Contemporaines.

Non si può negare che sia in corso una significativa modernizzazione. Ma la struttura economica è squilibrata verso l’alto così come, al contrario, quella italiana lo è diventata verso il basso. Dietro i campioni nazionali pubblici manca quel tessuto forte e diffuso di imprese medio-piccole che fanno la forza manifatturiera della Germania (il Mittelstand) e dell’Italia (il quarto capitalismo). Ciò espone ancor più il paese all’offensiva delle nuove fabbriche mondiali che incalzano dall’Asia, dal Sud America, dai paesi in via di sviluppoE, nonostante gli audaci proclami, anche in Francia, dalla crisi del 2008 in poi, l’intervento pubblico è fatto soprattutto di salvataggi. Senza grandi successi. Multinazionali come Goodyear se ne vanno. Colossi dell’acciaio come Usinor-Arcelor finiscono agli indiani di Mittal. Le acquisizioni estere, quelle che in Italia hanno suscitato ondate anti-francesi (da Parmalat a Edison fino alle grandi firme del lusso) non compensano certo il tourbillon che travolge le imprese nazionali. I sostegni pubblici, del resto, non sono serviti granché a Peugeot che ha rifiutato anni fa un matrimonio con la Fiat. Alla fine, sarà lo stato a dover acquisire un pacchetto azionario significativo, anche per stoppare il gruppo cinese Donfeng.

«Il trauma della crisi e il successo del modello cinese, hanno ridato tono al colbertismo. In pratica, ciò condurrà a creare nuovi sistemi di sovvenzioni senza far nascere una Google francese», sostiene l’economista David Thesmar professore a Tolosa. «Dirigismo, sprechi, dispersione di risorse sono i limiti del modello che il governo conosce bene», scrive Le Monde. Le rigidità sindacali, i privilegi o le conquiste (come le 35 ore settimanali) alle quali nessuno vuole rinunciare, gettano benzina sul fuoco. L’idea ora è di mettere insieme diverse competenze, coinvolgendo patron privati, manager pubblici, i sindacati stessi. «Potremmo chiamarlo colbertismo partecipativo», dice Jean-Louis Beffa, ex gran capo di Saint-Gobain molto ascoltato da Arnaud Montebourg il ministro dell’industria alfiere del sempreverde statalismo transalpino. I francesi sono bravi a trovare acronimi e definizioni. Ma spesso la forma elegante, razionale, cartesiana non esprime quella sostanza caotica e corporale che si chiama crescita economica.

Il passo dell’economia è lento, con una crescita da zero virgola. La borsa resta indietro rispetto a quella di Francoforte (non parliamo di Londra). Anche Parigi non sfugge al destino di Roma e delle più belle città italiane: ci si va per il glamour non per fare affari. E la Francia non è più solo Parigi. C’è un nord est che soffre, una Bretagna che rifiuta le tasse, una Marsiglia sempre più magrebina, una campagna in cui i contadini proprietari cedono il passo ai grandi redditieri o agli chateaux per i turisti. Persino il vino è insidiato dagli italiani che hanno imparato a farlo comme il faut, da americani del nord e del sud, australiani, neozelandesi. Mentre anche qui già si prepara la sfida asiatica.

Il modello francese, insomma, è arrivato al punto limite. Non solo per la scarsità di risorse pubbliche, ma perché diventa sempre più difficile far fronte alla concorrenza dei paesi in via di sviluppo. Mentre perde colpi “il motore franco-tedesco” che aveva generato la moneta unica, un progetto sempre meno amato. In parte è colpa di una rinazionalizzazione dell’Unione europea e di una Germania troppo potente e allo stesso tempo solipsistica. Fatto sta che tutto questo mélange genera forte tensioni protezionistiche e un crescente rifiuto della mondialisation che diventa resistenza a cedere sovranità nazionale anche per costruire una vera Unione europea. È uno stato d’animo diffuso, interpretato benissimo dal Front National che con Marine Le Pen si scrolla di dosso l’odore stantio (tra colonialismo, razzismo, filo-fascismo) del padre Jean-Marie; ma taglia in modo trasversale la società e gli stessi partiti. Il referendum contro la costituzione europea nel 2004 venne promosso dal socialista Laurent Fabius, attuale ministro degli Esteri. I comunisti sono da sempre anti-euro, ancor più la galassia gauchiste che conta su un dieci per cento di elettori. Se nel maggio prossimo il Fn avesse un risultato forte, verrebbero scossi gli equilibri anche tra i tardo-gollisti e nello stesso Partito socialista, con conseguenze a catena difficili da calcolare. È il fattore politico che rischia di trasformare la Francia nell’anello debole dell’Eurolandia, se non proprio nella grande minaccia del 2014.