In Basilicata c’è l’altro Pittella, fratello del Gianni candidato alla segreteria del Pd. Ma c’è pure l’altro Grillo, un tale Franco che con Beppe condivide solo il cognome e alle regionali presenta una lista civetta osteggiata dai Cinque Stelle. L’altra Italia, quella lontana da Roma e snobbata dai giornali, è in Lucania. Qui si torna a votare dopo le dimissioni del governatore Vito De Filippo a seguito dello scandalo rimborsi che aveva travolto alcuni assessori. Marcello Pittella, capofila del centrosinistra, è il favorito mentre il centrodestra gioca la carta del laboratorio politico. Il senatore di Scelta Civica Salvatore Tito Di Maggio corre infatti con l’appoggio di Pdl, Mir, Udc, Fratelli d’Italia e Grande Sud. Il ruolo del terzo incomodo spetta al Movimento 5 Stelle che spinge su Piernicola Pedicini dopo l’esclusione del vincitore delle primarie web Giuseppe Di Bello. I grillini ostentano ottimismo e il senatore materano Vito Petrocelli è sicuro: «Faremo almeno il 20%, se va male pareggeremo i dati delle scorse politiche».
Di un problema la politica non potrà lavarsi le mani: il crollo demografico. Negli ultimi cinquant’anni la Basilicata ha perso 68.000 persone, praticamente ogni 365 giorni sparisce un centro abitato. I numeri dicono che nell’ultima decade si è passati da 597.768 residenti a 578.036 unità, con un calo di popolazione che interessa l’86,3% dei comuni della regione, 113 su 131 totali. Aumenta invece l’invecchiamento di chi resta, con un incremento di quasi due anni medi negli ultimi cinque. Salgono del 97,5% gli uomini e le donne di 95-99 anni e ne esce triplicato pure il numero dei centenari (+218%). La Basilicata si conferma tra le regioni più povere d’Italia con un reddito medio pro capite che in alcuni comuni rurali tocca i 4.000 euro. E se i dati del 2011 registravano 19.000 famiglie in stato di povertà assoluta, nel 2012 la quota è salita a 23.000.
Negli ultimi dieci anni la Lucania ha visto i suoi abitanti ridursi del 3,5%, rispetto al +4,3% della media italiana dove la crescita è dovuta all’immigrazione. Niente da fare, in Basilicata non arrivano nemmeno gli stranieri: secondo l’Istat sono 21 ogni 1000 abitanti, a fronte della media nazionale di 65. In cinquant’anni molti centri abitati della regione si sono svuotati arrivando a perdere un terzo se non la metà della popolazione. Gli esempi più eclatanti sono Maschito (da 3.000 a 1.700 abitanti), Forenza (da 4.900 a 2.100) e Ginestra (da 1636 a 729 anime), per dirne alcuni. Se nel resto d’Italia cala fisiologicamente la popolazione dei paesi che sorgono oltre i seicento metri d’altitudine, in Basilicata perde abitanti anche la collina. Il fuggi fuggi generale non contempla differenze di paesaggio: quattromila persone all’anno partono dalla terra di Rocco Papaleo e cercano fortuna altrove.
Nel frattempo aumentano le case sfitte e le imprese chiuse. Tra acqua, campi coltivati e allevamenti, il territorio potrebbe essere il miglior alleato e invece, denunciano gli abitanti, è stato sfruttato male. I dati diffusi dall’annuario statistico nazionale sono impietosi. La Basilicata è bagnata da due mari, Tirreno e Jonio, ma la pesca è pressoché inesistente. Alla voce produzione ittica non c’è bisogno di scomodare le calcolatrici perché di pesci non se ne dichiarano: niente alici nè tonni, nemmeno molluschi o crostacei, solo 295 quintali provenienti da laghi e bacini artificiali. Un’inezia anche in confronto all’Umbria che, pur non avendo sbocchi sul mare, vanta una produzione annua di 5321 quintali. Deludono anche i risultati sul versante della macellazione di bestiame. Per suini e bovini la regione è scavalcata dal piccolo Molise, ma «sui caprini vinciamo noi grazie a tutti quelli che siedono in Regione», confida a microfoni spenti un attivista locale.
Al centro resta il lavoro, con Pittella che accetta di ragionare nell’ottica di un reddito sociale: «Possiamo pensare ad una sorta di contratto di inserimento che accompagni nel mondo del lavoro, ma serve disponibilità economica». Intanto si riparte dal turismo: tra agriturismi, musei e siti archeologici c’è pure Matera, già patrimonio dell’umanità dell’UNESCO, che si candida a Capitale europea della cultura per il 2019. Scorgendo l’elenco delle attività economiche da valorizzare svettano l’agricoltura e l’acquedotto lucano, abbeveratoio che serve anche la Puglia. Eppure nel passato hanno tenuto banco le grandi cattedrali dell’industria come la Fiat di Melfi o il polo chimico di Scandicci il cui rapporto tra investimenti e occupazione, secondo alcuni, è troppo basso. Il tutto mentre si allarga il deserto lasciato dalle pmi.
Ultimo, ma non per importanza, c’è il petrolio. Per chi ancora non lo sapesse, nella terra dei Sassi e del cibo genuino sorge un ricco serbatoio naturale di idrocarburi. Le prime attività sono partite negli anni Cinquanta con Enrico Mattei in persona, qui le multinazionali hanno scoperto una miniera d’oro nero che oggi produce l’80% del petrolio estratto in Italia. I sogni e le illusioni della Basilicata sono passati dai pozzi, con le promesse di piani di sviluppo per quello che sarebbe dovuto diventare il Texas d’Italia, tra nuova occupazione e denaro dalle royalties per assicurare le infrastrutture attese. Invece qualcosa è andato diversamente.
La parte più importante spetta al cane a sei zampe di Eni, ma sul territorio operano anche Total, Shell e Mitsui. La Val d’Agri è l’epicentro della Lucania Saudita, il più grande giacimento d’Europa su terraferma con ventisei pozzi attivi e il centro olio di Viggiano dove avviene la prima raffinazione. Nel resto della regione ci sono il centro olio di Pisticci, le zone di Gorgoglione e Serra San Bernardo, la centrale gas di Ferrandina, gli stabilimenti di Tempa Rossa nella valle del Sauro, una trentina di pozzi per l’estrazione di gas nel Metapontino e via dicendo. La strada è tracciata e in futuro arriveranno le trivelle nel mar Jonio nonchè un centro olio e uno gpl a Corleto Perticara. Sono decine i comuni interessati, disposti su una cartina geografica che sembra un campo minato. L’impatto occupazionale? Non eclatante. Eni parla di 354 dipendenti (201 dei quali lucani) con un indotto di 2.000 persone, che però sconta condizioni stagionali.
Il sistema delle royalties fa sì che un’aliquota del 10% delle produzioni resti sul territorio, divisa tra Regione e comuni. Il meccanismo è sottoposto alla condizione della franchigia: i pozzi che producono fino a 20.000 tonnellate annuali non danno diritto a royalties. «Così le aziende hanno aumentato il numero di pozzi per poter aggirare l’ostacolo», denunciano gli ambientalisti lucani. Anche per il gas c’è una trafila simile: il territorio ha diritto al suo assegno per la quota eccedente i primi venti milioni di metri cubi secondo quanto stabilito dal dlgs 625/1996. Poi succede che la zona del Metapontino produca 150 milioni di metri cubi annui ma, in virtù dell’alto numero di pozzi e concessioni, non è stata superata la soglia e non arriva un centesimo di royalty.
I soldi del petrolio entrano nella disponibilità dell’ente beneficiario senza vincoli di destinazione e dovrebbero essere utilizzati per implementare strategie volte allo sviluppo locale. Eppure, a sentire i lucani, la storia è la più italiana possibile. Oltre alla creazione di una carta bonus idrocarburi concessa ai patentati e ricaricata dallo Stato con i versamenti delle società che estraggono gas e petrolio, «i quattrini finiscono per pagare la sanità, ripianare i debiti, rifare strade e marciapiedi, insomma per la manutenzione ordinaria». Poi c’è anche chi si leva qualche sfizio. Come il Comune di Viggiano, cuore delle attività petrolifere e beneficiario della fetta più grossa di royalties, che ad agosto ha sborsato 150.000 euro per portare il concerto dei Pooh a chiusura della festa della Madonna.
Eppure i timori di cittadini e comitati si concentrano su ambiente e salute. Tralasciando i casi di campi agricoli danneggiati e allevamenti decimati, in prima battuta grava la complessità geologica della Basilicata con bacini idrici sotterranei di diversa profondità e con un maggior rischio di inquinamento delle falde. Spiega a Linkiesta il senatore Petrocelli, di professione geologo: «Manca una carta idrogeolica che dia l’idea di come si sviluppi l’acquifera in profondità, la carta regionale è in corso di produzione dal 1999 e finora sono stati mappati solo cento chilometri quadrati su milleduecento». Senza una pianificazione i controlli rischiano di ridursi a interventi spot. Come quelli alla diga del lago Pertusillo, in piena val d’Agri e a ridosso del centro Olio Eni. In questo invaso, che rifornisce di acqua potabile 3,5 milioni di cittadini tra Puglia e Basilicata, sono stati trovati residui di idrocarburi, benzene e bario. Sul fronte salute spiccano i report della Fondazione Mario Negri Sud secondo i quali nell’area di Viggiano le patologie cardiorespiratorie sono raddoppiate in tre anni rispetto alla media regionale. O ancora lo studio dell’Istituto Nazionale Tumori: dal 1990 al 2010 la curva tumorale è in costante ascesa con un andamento doppio rispetto alla media nazionale. D’altronde le trivelle non passano inosservate e i cittadini sono pronti a stilare gli esempi, come quello del pozzo situato a un chilometro dall’ospedale di Villa d’Agri e a trecento metri dalle prime case, mentre a Marconia sorge un pozzo di metano (di proprietà di Gas Plus) in pieno centro abitato.
Alla sua attività in Basilicata Eni ha dedicato un sito internet, oltre ad un piano di interventi compensativi sul territorio che dal 1998 ad oggi ha registrato investimenti per 113 milioni di euro. Qui il colosso di San Donato Milanese ha promosso anche una scuola di formazione professionale rivolta alle aziende dell’indotto, ma Petrocelli attacca: «Eni in Basilicata ha la stessa logica predatoria che ha in Nigeria, vuole tutto e subito, il sospetto è che voglia sfruttare rapidamente i giacimenti lucani prosciugandone le riserve per poi dare i pozzi in mano gli speculatori per lo stoccaggio di gas». Incalza ancora il senatore: «La microeconomia è morente, bisogna ripopolare il territorio, senza giovani vengono meno le forze combattive che contrastano il malaffare e l’inquinamento». Dagli ambientalisti locali al Movimento 5 Stelle si alza il muro dell’intransigenza con la richiesta di sospendere ogni nuova autorizzazione, fermare le trivellazioni e avviare indagini di enti terzi sull’eventuale inquinamento delle falde acquifere.
C’è poi chi pensa che il petrolio in Basilicata sia stato sfruttato solo a metà. «Vale la pena di immaginare la creazione di un indotto importante in una regione povera come la Basilicata perché oggi, royalty a parte, una parte importante finisce fuori regione», così ad agosto un corsivo de Il Sole 24 Ore. Infatti la Basilicata assiste solo all’estrazione e alla prima raffinazione, dopodiché l’oro nero imbocca l’oleodotto per Taranto perché le ulteriori lavorazioni e la trasformazione dei prodotti avvengono altrove. Spiega Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia: «A fronte di enormi investimenti in Basilicata, l’impatto occupazionale che si genera è lontano dai luoghi di produzione. Gran parte andrebbe fuori ma spetta a Regione e imprenditori locali far sì che i ritorni si abbiano in Basilicata». All’orizzonte si stagliano nuovi investimenti delle multinazionali per aumentare la produzione nel campo degli idrocarburi, il tutto mentre il presidente di Confindustria Basilicata, Michele Somma, annuncia: «Il futuro della regione per i prossimi trent’anni sarà legato a doppio filo alle vicende del petrolio». Resta da capire se ci saranno ancora gli abitanti.