“Grandi banche fallite senza un centesimo di perdite in mutui subprime”. Con una sola frase, in un albergo di Singapore, Eli Remolona, un economista della BIRS, dava la migliore descrizione della crisi che stiamo ancora vivendo. Era il 2010, e i numeri con cui la spiegava erano allucinanti. Le perdite dovute ai mutui subprime, i famosi mutui di cattiva qualità del mercato americano che avevano scatenato la crisi, erano 500 miliardi di dollari; le perdite di valore di titoli erano 4mila miliardi, ed erano soprattutto queste ultime che avevano strangolato gran parte delle banche. Era la definizione di quelli che oggi chiamiamo i titoli tossici: i funghi velenosi cresciuti al tempo della crisi, i residui radioattivi da bonificare dopo la grande Cernobil finanziaria. E insieme ai crediti dubbi, i titoli tossici sono la strana malattia che gli ispettori BCE ricercheranno nelle viscere delle grandi banche europee nell’asset quality review, nella ricerca dei non-morti, le banche “zombie”, nella definizione di Mario Draghi.
Ripercorrere la storia della parola ci fa comprendere la ragione di fondo della crisi, e della sua diffusione, e ci fa notare che quella ragione è ancora lì: è la non trasparenza, e un sistema contabile che non ha tenuto il passo con l’innovazione finanziaria. La parola nasce nel mondo delle cartolarizzazioni, dove però era destinata a indicare titoli diversi da quelli che oggi sono “tossici”. Cos’è una cartolarizzazione? E’ una procedura che trasforma qualcosa in “carta”, titoli da vendere sul mercato (securities, per il termine inglese “securitization”). La procedura è semplice: si costruisce una nuova entità, un “veicolo”, e gli facciamo mangiare quello che vogliamo trasformare in carta, e lui emette la carta necessaria ad acquistarlo. Questo è quello che sanno tutti.
Quello che non si dice mai è che non tutta la carta che viene emessa è uguale: c’è carta più o meno rischiosa. Ecco un esempio. Vogliamo cartolarizzare 100 milioni di mutui. Creiamo un veicolo, il veicolo li compra e li paga dopo aver raccolto sul mercato soldi vendendo diversi tipi di titoli, chiamati tranche, costruite in modo da distinguersi tra loro per una gerarchia di rischio. Per semplicità, limitiamoci a un caso a due tranche. Con il primo tipo di titoli il veicolo tira su 30 milioni, con la clausola che su questi titoli si scaricheranno i primi eventuali 30 milioni di perdite sui mutui. Con la seconda tranche tira su i restanti 70 milioni, e chi sottoscrive questi titoli sopporterà le perdite sui mutui oltre il limite dei 30 milioni. Quale tranche sarà più rischiosa? La prima, ovviamente, ed è proprio quella che il mercato aveva battezzato “toxic waste”, rifiuto tossico. Con la crisi l’aggettivo “tossico” è stato però attribuito anche ai titoli che non hanno virtualmente nessuna probabilità di riportare perdite.
Titoli tossici non coincide quindi più con titoli rischiosi. Se il massimo delle perdite sui mutui che si sia visto nel mondo è del 25%, una tranche senior come quella descritta sopra, che si prende le perdite sopra il 30% è praticamente un titolo sicuro. Eppure è tossico, ed è uno di quelli che hanno fatto fallire “major banks without a penny of loss in mortgages”, secondo Remolona. Perché? Qui c’è il rischio di cui non si parla mai, che ha rappresentato il motore della crisi, e che è ancora lì, intatto: il sistema contabile al fair value senza sapere cosa sia il fair value.
Il fatto che le autorità contabili non riescano a distinguere uno scambio al fair value (il valore di mercato, ndr) da uno fatto da una banca alla canna del gas ha avuto nella crisi l’effetto di un asciugacapelli acceso fatto cadere nella in una vasca da bagno. Ecco il nuovo significato dei titoli tossici. Anche il titolo senior, che è praticamente immune da possibili perdite, e innocuo come un rivolo d’acqua in una vasca da bagno, può diventare un letale se una banca alla canna del gas lo vende a 50 centesimi. E’ letale perché automaticamente varrà 50 nei bilanci di tutte le banche che riceveranno così la scossa elettrica della stessa perdita e la trasmetteranno alle altre, amplificando il problema locale e trasformandolo in rischio sistemico. Il sistema contabile si è dimostrato un perfetto conduttore della scarica elettrica della crisi, e la crisi, almeno nella sua prima fase, ha rallentato quando l’asciugacapelli è stato spento. E non solo: l’amministrazione Obama capì il meccanismo e disegnò un piano di salvataggio delle banche tramite l’acquisto di titoli tossici, (il TARP), e questi titoli, che in maggioranza non avevano rischio di credito, oggi vanno a buon fine e ripagano il taxpayer americano.
C’è da dire che le banche se la sono cercata. O meglio: il torto non sta mai da una parte sola. All’altro estremo del fair value, e prima di esso, il sistema contabile soffriva di una mancanza di trasparenza ancora più diffusa e grave, anche se con danni meno evidenti. Chiunque abbia lavorato in una banca nel secolo scorso può citare aneddoti di volatilità rimaste ferme per settimane per non scoprire perdite su portafogli di opzioni, e storie simili. L’“accounting management”, come si chiama l’arte di vestire a festa i bilanci, è stato un male che ha richiamato come contrappasso il suo opposto: il fair value ad ogni costo, anche quando il mercato esprime prezzi senza senso.
Oggi i titoli tossici nei bilanci li trovate stipati nel “livello 3”. Nel livello 1 trovate i titoli per i quali c’è un prezzo di mercato significativo. Nel secondo livello ci sono titoli il cui valore può essere calcolato a partire da informazioni ricavabili da mercati liquidi: l’esempio è quello prima ricordato della volatilità per calcolare il valore delle opzioni. E al “livello 3” ci sono i tossici, i titoli di cui non sappiamo il prezzo e non sappiamo il contenuto. Ma non è l’inferno dantesco, e insieme ai veri “rifiuti tossici” delle vecchie cartolarizzazioni, nella terza bolgia ne trovate alcuni che arriveranno alla scadenza senza sorprese, a meno che non succeda la fine del mondo: come la tranche senior discussa sopra che subirà perdite soltanto se il paniere dei mutui cui è legata raggiungerà un livello di insolvenze mai visto. A chi è incuriosito e ne vuol sapere di più sotto il profilo tecnico regaleremo un tutorial con Excel sul nostro blog.
La classificazione dei titoli tra i tre livelli è molto meno facile di quanto sembri a prima vista, e ha occupato il lavoro di risorse umane del mondo bancario per diverso tempo. Anche perché il concetto di mercato e significatività del prezzo è quanto mai sfuggente. Quando possiamo dire che c’è un mercato? Quanti scambi definiscono un mercato? E’ come il paradosso del “sorite” nella filosofia greca: quanti granelli di sabbia definiscono un mucchio? E così potremmo avere BTP benchmark (o “on the run”, come si dice in America) che sono di livello 1 e BTP “seasoned” (stagionati) che non fanno registrare prezzo per giorni e che, pur avendo lo stesso rischio dei primi, finiscono nel girone dei tossici.
Tossici quindi si può anche diventare. Per scherzo, o per gusto dell’orrore, pensate a questo incubo. Declassano il debito pubblico italiano sotto l’investment grade. Nonostante la buona volontà delle autorità e la moral suasion la Repubblica italiana perde l’accesso al mercato. Come uscirne? Con una mossa greca o argentina, con la sostituzione del debito. E il debito vecchio residuo, non presentato nello scambio, diventerà tossico. O forse una via di uscita nuova, e vecchia allo stesso tempo: la strada di Poincaré nella Francia del primo dopoguerra. Emettere titoli nuovi con un diritto di precedenza sugli altri: e quelli che oggi chiamiamo BTP saranno un’enorme sacca di titoli tossici dentro la pancia delle banche. Ma è solo un brutto sogno, per ora.
Oggi, l’EBA sta richiedendo alle banche la “valutazione prudente” del fair value dei titoli, e richiederà l’accantonamento di capitale per l’incertezza sul valore dei titoli. La consultazione è già stata fatta e si stanno facendo le valutazioni di impatto. Avere in pancia titoli per cui il valore di prezzo può assumere valori in un intervallo più largo costerà capitale. Il costo più grosso sarà per le banche piene di titoli tossici. Una previsione sulle dimensioni del fenomeno fa ritenere che stavolta stiano peggio all’estero. Le sorprese possono forse venire dalle banche più piccole tra quelle che compongono la squadra nazionale. Tipicamente le banche di medie dimensioni vengono ingrassate dai grandi carnivori stranieri, che le usano come terreno di caccia per le loro banche di investimento. Certe volte le prede possono anche essere esemplari di grandi dimensioni, se vecchi e malati (MPS docet).
Al di là degli aspetti da “notte prima degli esami”, il problema dei titoli tossici resta una questione aperta per l’avviamento al lavoro del sistema bancario europeo dopo gli esami di maturità. E non è solo una questione regolamentare. Ricordo di aver approvato in passato per la pubblicazione su una rivista internazionale uno studio sulle cartolarizzazioni in Italia che trovava nel funding, cioè nel bisogno di liquidità, la ragione del loro boom. Questo conferma la convinzione che la ripresa (eventuale) dell’economia sarà accompagnata, come condizione necessaria, dalla ripresa delle cartolarizzazioni, con la conseguente diffusione di titoli di “livello 3”. Rispetto al passato, le cartolarizzazioni che torneranno sotto forma di titoli nel sistema bancario di standing europeo avranno un prezzo in termini di capitale. Sulla base di questo, possiamo pensare a due scenari possibili.
Nel primo, i titoli tossici verranno espulsi dalle banche in vigilanza BCE e piazzati presso altri investitori istituzionali, comprese le banche locali che restano fuori dal perimetro di vigilanza europea. Nel secondo scenario, i regolatori locali, o gli stati, potrebbero intraprendere un lavoro di bonifica dei titoli tossici. Per questo sarebbe sufficiente creare un’entità che “faccia il mercato”: un market-maker che assicuri la trasparenza dei prezzi anche a questi titoli. Potrebbero farlo le banche centrali locali, potrebbero farlo i veicoli detenuti dai governi per l’intervento nell’economia (come la nostra CDP), potrebbero farlo le banche stesse. Seguire la strada della bonifica non significherebbe solo un risparmio di capitale. Non sarebbe solo un atto di “compliance”. Sarebbe un intervento di gestione del rischio che aggredisce uno degli aspetti di rischio sistemico principali della crisi dei subprime, che abbiamo raccontato qui: il contagio da regole contabili.
Insomma, meglio prevenire che curare: sarebbe meglio comprare e vendere i titoli tossici prima di un’eventuale crisi, in un mercato ordinato, che non comprarli dopo a prezzi di saldo, come ha fatto Obama per salvare le banche.