La calata dei tedeschi a caccia delle Pmi padane

Opportunità o depauperamento?

Per gli imprenditori, piegati dalla crisi, ora c’è un nuovo spettro che si aggira per (il Nord) d’Italia: il forte, competitivo, agguerrito, concorrente tedesco. Che, grazie a un robusto sistema industriale, rileva piccole e medie aziende, sull’orlo del fallimento o in difficoltà. Clienti, fornitori, concorrenti, che stanno diventando, a seconda delle prospettive, angeli o sterminatori.

Il dibattito ancora sommerso, perciò tabù, ruota intorno a due scuole di pensiero: ci sono quelli (salvati), che giudicano l’iniezione di capitali tedeschi un’opportunità per le aziende, anche se le proprietà, dopo diverse generazioni di gestione familiare, passano di mano, e quelli (sommersi), che invece temono di vedere spezzate altre vertebre della spina dorsale dell’economia italiana, le Pmi, in modo irreversibile.

Per ora si tratta ancora di un numero limitato di casi, che però per molti Piccoli rappresentano un segnale allarmante. Soprattutto nel mercato che più fa gola ai tedeschi: la produzione di macchine per il settore della plastica made in Italy, che vale 4 miliardi di euro annui (in Germania ne vale 6). E interessa molto ai tedeschi, privi di un indotto di piccole, a volte piccolissime aziende, flessibili, che si adeguano più facilmente alle richieste del mercato. E dotate di un know–how, che permette agli imprenditori italiani di avere prezzi più competitivi.

Aziende quasi tutte nate e cresciute in Brianza, che hanno come primo mercato di esportazione quello tedesco. Ecco perché a un’assemblea di artigiani, una voce distaccata dal coro, ha denunciato pubblicamente una concorrenza sleale da parte dei tedeschi. Raimondo Santoro, paroncino della Sanplast di Busto Arsizio, durante una recente assemblea–confronto–scontro con il ministro dello Sviluppo Economico, Flavio Zanonato, ha strepitato: «I miei concorrenti mi hanno offerto 7 milioni di euro per cedere la mia azienda e il governo pensa solo a salvare l’Alitalia. Cosa farete quando noi non ci saremo più?».

Interpellato da Linkiesta, Santoro, che produce macchinari per la lavorazione delle materie plastiche, spiega di essere furioso per via dei suoi due brevetti, copiati dal suo principale concorrente tedesco. La controversia legale è ancora in corso, ma lui racconta di aver ricevuto un’offerta di tre milioni di euro per risolvere il qui pro quo. E riporta anche il disagio di molti artigiani, che accettano di svendere le loro piccole, piccolissime aziende, che hanno un mercato di nicchia di altissima qualità ma anche molti debiti, senza fare troppo rumore. Anche se secondo Mario Maggiani, direttore di Assocomaplast, l’associazione di categoria della Confindustria, si tratta di un settore solido, con un indice di crescita di export molto rassicurante. «Non escludo, però, che fra i piccoli subfornitori, possano esserci casi simili, considerato che il nostro primo mercato (e concorrente) è in Germania. Se qualcuno è in difficoltà, i tedeschi ne approfitteranno per saltare un passaggio nella filiera».

Nessuno (o quasi) infatti ha notato, nel giugno scorso, la cessione di una piccola azienda la Nuova Protex, a conduzione familiare per 30 anni, a una grande multinazionale: Reifenhauser, che è il principale competitor dei gruppi italiani. Sul passaggio di proprietà circola in rete, nelle riviste di settore, solo un laconico comunicato stampa sull’acquisizione di quella piccola azienda di Cusirago che progetta e costruisce macchine bobinatrici per la raccolta di filato sintetico. La nuova Protex ora si chiama Remoitec Winding Technology, uno dei gruppi della Reifenhauser. L’ex proprietario, Giuseppino Manieri è stato nominato amministratore delegato e, interpellato, tradisce solo il tono cupo e pieno di rammarico per aver dovuto cedere la sua azienda, dopo trent’anni, a quello che prima era un suo cliente e risolvere così le difficoltà in cui si trovava a causa dei noti e nefasti “mancati pagamenti”, che spesso asfissiano i Piccoli.

D’accordo, un caso, per quanto emblematico, non può essere usato per rispolverare toni patriottici o per parlare di saccheggio imprenditoriale, come fanno alcuni artigiani, angosciati, ma è sufficiente forse per ipotizzare un tentativo di accerchiamento, condotto in modo discreto, di una filiera di qualità, che fa gola ai tedeschi, che vengono in Brianza per comprare le macchine. E infatti non si può ignorare un’altra cessione che oggi, forse, va vista da un’altra prospettiva: il ramo meccano–plastico della Pomini (del gruppo Technint) di Castellanza avvenuta cinque anni fa, quando il settore plastico stava vacillando. Acquisita dal gruppo Possehl di Lubecca, è diventata la Pomini Rubber & Plastics, e poi ha trasferito la sua produzione, di un valore oggi di 33 milioni di euro, in Germania.

Perché poi è questo il vero incubo di artigiani e piccoli imprenditori: la dissoluzione del know–how italiano. Come potrebbe succedere a Crespellaro, in provincia di Bologna, dove la Sima Group, che una volta produceva macchine tessili, e ora assembla macchine per il mercato della plastica, dopo il concordato preventivo, ha affittato un ramo d’azienda, quello dell’unità produttiva, alla TTT (Technical Texile Tecnology Gmbh di Monaco) con il prevedibile finale della vendita dell’intera azienda. «Vedremo come andrà a finire nel marzo del 2014», spiega a Linkiesta il delegato sindacale della Fiom, Gianni Vitali, «ma per ora con l’affitto di un ramo di azienda e l’impegno di acquisirla, i tedeschi l’hanno scomprata, come diciamo noi in gergo. E non solo per colpa della crisi, ma anche per la mancata staffetta generazionale delle imprese familiari, che favoriscono le svendite». Quindi se i tedeschi avanzano, la colpa non è della recessione o del cuneo fiscale, non solo almeno, ma è anche responsabilità della classe imprenditoriale, che non ha una visione e non ha saputo investire sulle proprie risorse umane. Così è successo anche a Mornago, dove la CB Ferrari, produttrice di fresatrici, 160 dipendenti, un anno fa è finita nelle mani di una società pubblica cinese, Jincheng Holding Europe, che ha la sua sede europea in Germania. E ora viene gestita da un manager tedesco, Hubert Becker, presidente del Cda. Anche se il proprietario italiano, Renato Bianchi, paron di un’azienda familiare in crisi, prima di farsi da parte, come una diva che cerca l’ultimo applauso prima di ritirarsi dalle scene, ha regalato un bonus di un milione di euro ai dipendenti.

tedeschi premono in modo discreto ogni porta che si apre o che cede. Nel settore dell’automotive la multinazionale Stahlgruber ha fatto il suo primo ingresso nel mercato italiano dalla porta principale, comprando un concessionario di ricambi di Cinisello Balsamo, Sparecare, dove si baciano i gomiti perché, grazie agli investimenti tedeschi, una piccola impresa nata nel terzo millennio ha triplicato il suo fatturato. Anche se si può leggere in maniera diversa il destino della Rivolta Tip Top, azienda milanese familiare di Augusto Rivolta, 8 milioni di euro di fatturato, che ha venduto la maggioranza delle sue quote alla Stahlgruber, attraverso una controllata della multinazionale tedesca. Troppo esposto verso quello che prima era il suo fornitore tedesco, Augusto Rivolta ha ceduto il 90% delle proprie azioni. E ora il fondatore, socio di minoranza, in pratica ha perso la sua azienda.

Morale: la Germania fa paura. E molti si chiedono fino a che punto si spingerà l’offensiva tedesca. E se guardare sempre solo al dito del salvataggio immediato di un’azienda non impedisca di vedere la luna dello smembramento graduale delle Pmi. Ipotesi verosimile o azzardata? Parliamone. 

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