Francesco Piccolo ha 49 anni e scrive da quando ne ha 16: «Ma quelli erano libri bruttissimi». Tra quei libri bruttissimi e oggi ci sono molte cose. C’è Caserta, la città dove è nato e che gli ha dato l’occhio da provinciale con cui misura il mondo; il Pci e un padre di destra; l’università e i lavori per mantenersi da solo; le prime cronache per una rivista di basket (e gli allenamenti e le partite da professionista); il trasferimento a Roma e la fondazione di minimum fax; il primo libro per la casa editrice romana (Scrivere è un tic: i segreti degli scrittori); i romanzi Feltrinelli e Einaudi (Storie di primogeniti e figli unici; Allegro occidentale; eccetera); le prime collaborazioni importanti (da l’Unità al Venerdì di Repubblica); le sceneggiature per Soldini, Virzì, Moretti; i testi per Vieni via con me, Quello che (non) ho e i Sanremo di Fabio Fazio. Ci sono molte altre cose, c’è il rigetto totale di ogni purezza ideologica, il rifiuto di ogni paura e pudore nel parlare di sé e nel fare i conti con la propria vita. Molte di queste cose me le ha raccontate un sabato mattina nel suo studio vicino Piramide, a Roma: una cucina, un divano, un tavolo, un Mac, libri ammonticchiati a terra nel corridoio d’ingresso, molti taccuini non ancora scartati sulla scrivania. Abbiamo parlato per un’ora. Trascrivendo le sue risposte ho realizzato che non abbiamo mai nominato Berlusconi, nonostante l’ex premier sia una figura centrale del suo ultimo libro, Il desiderio di essere come tutti. Gli mando una mail per dirglielo, mi risponde così: «Secondo me – secondo me – è perché tu non mi hai fatto una domanda su Berlusconi». Sospetto – sospetto – che sia per quello: e anche un po’ perché nel tempo l’intervista-con-giudizio-su-berlusconi a scrittori/cantanti/chef/registi, per me, è diventato un format frusto. Quindi questa è un’intervista allo sceneggiatore del Caimano, senza il caimano.
Partiamo dall’inizio. Quando hai cominciato a scrivere?
Ho cominciato a scrivere intorno ai sedici anni. E davvero per lenire un dolore, come racconto nel Desiderio di essere come tutti (il dolore è quello per Elena, una compagna ubriaca di extraparlamentarismo che lo liquida quando lui si presenta con un regalo di San Valentino in carta rosa, ndr). Però davvero pensavo che fosse roba che facesse semplicemente schifo.
È strano avere questa consapevolezza a 16 anni.
Ecco, non lo so, ma credo di averla sempre avuta. Perché è vero che ho cominciato a scrivere a 16 anni, ma ho dato le mie prime cose da leggere verso i 28 anni. In quegli anni ho fatto una cosa abbastanza strana. Quando ho cominciato l’università, e nel frattempo a lavorare, ho deciso veramente di smettere di scrivere perché mi sembrava di dover ricominciare da un altro punto. Per un po’ di tempo non ho scritto, poi ho cominciato a riempire taccuini per ritrovare una scrittura. E da lì mi è sembrato che il cammino fosse un po’ più sensato. Ho scritto racconti, racconti lontanissimi da me, e poi pian piano sono tornato a scrivere cose vicinissime a me.
Buttare quelle prime cose ti ha aiutato?
A posteriori devo dire che forse, se ho una qualità, è quella di avere un senso critico verso me stesso. Non voglio dire preciso, perché quello non si può avere, però che vale, che ha valore. Una cosa simile a quella degli inizi mi è successa anche dopo. Tra Allegro occidentale e L’Italia spensierata avevo già detto a Einaudi che gli avrei dato un libro, ma quel libro non gliel’ho mai consegnato. Ho scritto un romanzo e non gliel’ho mai dato. Non l’ho proprio fatto leggere a nessuno. Salvo successivamente a qualche amico che mi ha poi confermato la mia impressione: che era buono ma che non mi facesse fare dei passi in avanti. E sopratutto è stato il romanzo che mi ha fatto capire definitivamente che la figura dello scrittore che deve scrivere un libro dopo l’altro, anche libri che non lo toccano da vicinissimo è una cosa che non mi interessava tanto.
Dopo le prime prove, quando hai capito che quello che avevi scritto valeva qualcosa?
Ognuno ha la sua idea della provincia. A me sembrava di venire dall’ultimo luogo del mondo, di stare in fondo al nulla. Quando ho iniziato a scrivere non ho mai neanche lontanamente immaginato di fare lo scrittore. Tra me che stavo a Caserta e Moravia, o Tondelli, Lodoli, Del Giudice, De Carlo, che erano i nomi che erano venuti fuori quando ho iniziato a scrivere, pensavo che ci fossero delle ere geologiche. Però ho pensato due cose molto precise. La prima è che quella cosa che facevo mi piaceva tantissimo, che la volevo fare sempre, per sempre. Quindi significava che avrei fatto qualsiasi cosa nella vita, pur di tenermi quest’altra cosa accanto. Tanto che a un certo punto sono andato a vivere da solo, mi sembrava necessario. Lavorando mi ero reso autonomo dai miei. Niente di eroico, ma necessario per me. La seconda è che avrei voluto fare un lavoro che o ci entrasse con la scrittura oppure che mi permettesse di avere il tempo di scrivere. Ma non per diventare uno che pubblicava. Al limite pensavo che avrei potuto scrivere su qualche giornale.
Erano un problema i soldi?
Erano un problema perché io per varie vicissitudini familiari e per un rapporto difficile con mio padre ho cominciato subito a lavorare e a fare l’università lavorando.
Cosa facevi?
Ho fatto molte cose, in vari posti. Ho lavorato a Napoli, ragazzo tuttofare in un ufficio. Poi ho lavorato in una concessionaria di auto a Caserta. E poi per un bel po’ di anni ho lavorato nel basket. Giocando, facendo l’allenatore, e poi scrivendone. Sono venuto a Roma grazie agli articoli sul basket. E poi ho fondato minimum fax con Marco Cassini e Daniele Di Gennaro. Non sono mai entrato nella società, ma facevo il redattore, l’editor.
Con loro hai fatto Scrivere è un tic, catalogando i tic degli scrittori. Tu ne hai?
All’inizio ne avevo. Cioè mi dicevo: scrivo la mattina, in quel determinato posto. Però poi la scrittura è diventata talmente invasiva che tutte queste cose sono saltate. Io in pratica scrivo quanto più possibile in qualsiasi posto. Da quando ho questo studio preferisco farlo qui, e la mia vita quando sto a Roma si è un po’ più ordinata.
Leggi quando scrivi?
Prima lo facevo meno, per paura di essere permeabile. Ora credo di aver definito bene, almeno per me, lo scarto tra quello che scrivo e quello che leggo, non ho paura di essere influenzato, al massimo le cose che leggo finiscono direttamente dentro i libri. Un’altra cosa che è cambiata molto è lo spostamento netto delle mie letture verso la saggistica. Prima era preponderante la narrativa, anche se cerco di non perderla mai di vista. Credo per esempio che la narrativa italiana sia molto viva, e questa è una cosa che non si dice mai abbastanza. Mi sembra che ci siano molte cose nuove, stimolanti. E questo lo penso anche se so di essere diventato più insofferente. Oggi finisco molti meno libri rispetto a prima, mollo anche quelli degli amici. Sopratutto quando sento che un autore sta scrivendo un libro perché è ora che ne scriva un altro, per un meccanismo di mercato o di routine: si sente subito che non è interessato, e allora perché dovrei esserlo io.
Qual è una giornata lavorativa buona per te?
Un po’ la misuro in ore lavorative. Non tanto in pagine, quanto in cose che mi piacciono. E questo vale sia per le sceneggiature che per la letteratura. In questo non faccio molte differenze. La tensione è uguale sia per le sceneggiature che per i libri che per gli articoli. Non faccio differenze gerarchiche. Una cosa che faccio è che mi do un sacco di scadenze, obbiettivi.
Ti fai venire l’ansia.
Gioco a farmi venire l’ansia, sì. E devo dire che funziona perché riesco quasi sempre a vincere queste battaglie.
Quando scrivi rileggi, lo fai ad alta voce, ti fermi, prosegui verso la fine?
Faccio tutte queste cose. E mai in maniera ordinata. Forse solo all’inizio ho scritto qualcosa in maniera ordinata. Io scrivo in maniera disordinatissima. E questo disordine fa in modo che ci sia dentro tutto. Scrivo cose varie per tanto tempo, riempendo dei file di libri possibili. E poi a un certo uno di questi libri possibili diventa naturalmente il libro. Inizio a prendere sempre più appunti su quella roba e a un certo punto capisco di aver fatto la mia scelta. Per esempio Piccoli momenti di trascurabile felicità è stato scritto davvero negli anni.
Questo lavoro sugli appunti funziona anche per i romanzi? Ne prendi, come lavori sulla trama?
La parola trama per me è una parola grossa. È proprio l’ultima cosa a cui penso. Penso più a raccontare delle cose, tenendo dentro tutto, dagli appunti ai racconti, dai libri che ho letto ai film che ho visto. E in questo Il desiderio di essere come tutti è un punto di arrivo. Si può dire che ci lavoro da decenni. La storia di Jürgen Sparwasser, per dire, l’ho pubblicata tantissimo tempo fa su Diario. Anche se poi il lavoro vero e proprio si è concentrato negli ultimi 5 anni. Ma anche La separazione del maschio è stato un enorme accumulo di appunti, che oltretutto hanno ammazzato il romanzo di cui ti parlavo prima. Arrivo in fase di scrittura a volte con centinaia di pagine di appunti, di materiale da lavorare. E da lì mi comincio a muovere secondo quello che mi piacere.
Quando inizi non sai dove vai a parare o non lo vuoi proprio sapere?
No. Diciamo che so cosa voglio dire, cosa voglio raccontare. Come farlo lo trovo scrivendo. Diciamo che negli anni ho trovato un mio modo, anche, che è quello di giocare la partita in prima persona, di essere toccato dai temi di cui sto scrivendo.
Uno di questi temi è il sesso.
Scrivere di sesso per me è un bel mezzo per riuscire a esprimere il modo in cui io faccio letteratura: e cioè un modo disarmante e disarmato. Cioè senza barriere.
Autodiffamazione pura. Cioè, dentro Il desiderio di essere come tutti la chiami “sincerità autodiffamatoria”. Quale significato gli attribuisci di preciso?
Io credo molto al fatto che se ci si mette a fare la letteratura attraverso un “io narrante” che ti somigli il più possibile allora lo devi fare non per difenderti ma per attaccarti. Non per guardare gli altri con uno sguardo superiore ma per guardare te stesso e i tuoi simili con uno sguardo critico, polemico. E questo oltretutto è anche un modo per generare spesso comicità, ironia.
Pensavo a un cortocircuito. Scrivi tirandoti dentro le cose che racconti. L’ironia però può creare distanza. Foster Wallace e Carrère mettono in guardia dall’uso dell’ironia come manierismo e indifferenza. Come risolvi questa frizione?
Guarda, se io dovessi pensare di mettermi a scrivere con l’intenzione di scrivere una cosa ironica, sono sicuro che non ci riuscirei. L’ironia, meglio ancora il comico, viene fuori in maniera naturale. C’entra una certa ossessività del mio sguardo, e l’ossessione genera essa stessa il comico. Oppure avendo uno sguardo sulle cose che a furia di scandagliarne i dettagli a volte dietro maschere e croste trovano realtà comiche. L’ironia di cui parlano Carrère e Wallace è il punto di vista di chi vuole raccontare le cose in maniera divertente, e per farlo se ne tira fuori. Quello è un tipo di comicità che non approvo neanche io. Che poi è la comicità televisiva o degli scrittori degli anni 80.
O di certa satira.
Esatto. Quel tipo di comicità, di satira, per me è deresponsabilizzante. È l’idea del compagno di classe simpatico, che prende per il culo tutti. Questo compagno di classe era un’attrazione, ma mi faceva anche vergognare, perché quel tipo di comicità era violenta. La comicità secondo me non deve essere violenza, se non verso se stessi.
Ritorna il concetto di audiffamazione, in qualche modo. Non hai mai paura che questo gioco su/contro se stessi possa essere rischioso?
Ma, sai, io penso che uno scrittore che ha paura non è uno scrittore. Cioè, uno scrittore che fa differenze tra scrivere di sesso o scrivere di calcio e quindi usa metodi e livelli di pudore diversi, secondo me non è uno scrittore. Ovviamente la paura è un istinto. La prima cosa problematica che ho scritto, problematica per gli altri è quando in Allegro occidentale ho scritto un capitolo dove l’io narrante andava con una prostituta nigeriana. Quando l’ho scritto, l’ho scritto come ho scritto le altre cose. Poi è stato l’impatto degli altri che mi ha colpito. Ma il mio giudizio non è cambiato. Quando scrivo c’è una fase in cui non penso proprio a niente, mi sembra che il mondo non esista: non penso al lettore, non penso al libro in edicola. Queste cose vengono quando il libro è ormai bello che finito.
Non ti interessano neanche le reazioni della critica?
Nel tempo ho imparato a avere un rapporto con le recensioni, belle o brutte che siano, ma anche con gli attacchi personali, molto temperato. Mi capita spesso di citare Luigi Cagni, allenatore del Piacenza, che diceva di detestare i propri giocatori quando esultavano scompostamente, perché erano gli stessi che quando subivano un gol si avvilivano. Allora io né mi avvilisco né esulto. Non è che pensi che questa roba non sia importante, anzi è importantissima nella vita di uno scrittore. Non ritengo trascurabili le recensioni o i pensieri degli altri sulle mie cose. Però ho imparato a riconoscere le cose sensate da quelle insensate. Quando andai per la prima volta da Feltrinelli a firmare le copie di Storie di primogeniti e figli unici c’era Stefano Benni, che aveva letto il libro e gli era piaciuto molto. E mi disse: «Vedrai che pian piano tutte queste cose saranno meno importanti, conterà quello che scrivi, il giudizio che ne hai tu e i lettori». Questa cosa qua è abbastanza vera – abbastanza dico perché a me continua a importare anche di tutto il resto, delle recensioni eccetera. Ma anche il sapere di essere terzo in classifica con Il desiderio di essere come tutti è un piacere che dura un istante. Credo che a questa abitudine mi abbiano portato il cinema e la televisione, che hanno moltiplicato l’esposizione, e mi hanno portato dei giudizi che oscillavano tra il genio e il cretino: e allora capisci che non sei né l’uno né l’altro, e che le cose le devi prendere per come arrivano.
E quando si tratta di raccontare le vite degli altri, disponendo comunque di un potere su di loro, della possibilità di fare male, come lavori in quei casi?
Prima di tutto ritengo di prendere delle persone vere, e di farne comunque letteratura. Io poi quelle persone me le dimentico, ne faccio altro, ne faccio il personaggio dentro quel determinato libro. Ma questa non è una giustificazione. Il fatto è che come non si può avere paura di farsi del male, non si può avere neanche paura di fare del male. Lo dico con cinismo: ma secondo me non ci sono altre strade. Io ho avvertito delle persone che sarebbero state dentro Il desiderio di essere come tutti, per esempio, ma dopo aver scritto. Anzi dopo aver consegnato il libro all’editore. A parte che penso anche di fare le cose in maniera che rientrino in una sfera di possibile dolore accettabile. Accettabile nel senso che spero che al centro ci sia una verità, anche un modo affettuoso di raccontare le cose. Poi io sono fermamente convinto che l’autobiografia letteraria e la vita privata sono due cose diverse. E su questo io baso anche la libertà di fare autobiografismo perché non lo confondo con il mio privato.
A proposito di vita e scrittura. Per Martin Amis lo scrittore non vive mai la propria vita veramente, si chiede sempre come la renderebbe sulla pagina. Capita anche a te?
Assolutamente sì. Anzi Amis è fin troppo lucido nel definire questo processo. Non so se ci sono delle caratteristiche naturali innate, o qualcosa che si introietta. Ma senz’altro è un modo di stare al mondo. La mancanza di completezza è per me un fatto oggettivo di chi scrive.