RingMasterpiece, il talent degli scrittori

Ring - il duello

Andrea Coccia (AC): Quando io e Jacopo Cirillo (JC) abbiamo deciso di cominciare una nuova rubrica senza cadenza per dibattere di argomenti culturali che ci stavano a cuore e che, una volta tanto, ci mettevano uno contro l’altro, per qualche istante siamo stati incerti tra due immagini. La prima sa di cantina, di birra e di sudore: è uno scantinato di New York dei primi anni del Novecento, uno scantinato pieno di immigrati irlandesi urlanti e un po’ sbronzi, riuniti a far cerchio intorno a due uomini con le mani fasciate, che si guardano gli occhi tenendo la guardia alzata. La seconda invece sa di polvere da sparo, di sabbia e di whisky: è la strada polverosa davanti a un saloon sperduto nel West e nella seconda metà dell’Ottocento, in mezzo alla strada, uno davanti all’altro, due uomini si fissano e si portano la mano al cinturone.

Al di là di queste due immagini e dei miei eccessi di lirismo, questa rubrica nasce per essere quel ring, o quella strada polverosa. Solo che a fissarsi negli occhi, con la guardia alzata o con la mano destra all’altezza della colt, sono due opinioni. Ah, e c’è anche un’altra differenza: qui non ci sono regole, né colpi vietati. Si può colpire a tradimento, alle spalle, sotto la cinta, l’importante è restare in piedi o, al massimo, cadere per secondi. 

La sfida: Masterpiece

AC: Per inaugurare questa rubrica abbiamo scelto di prendere posizione su Masterpiece, il nuovo format televisivo che verrà messo in onda a partire da domenica su Raitre. Per chi non sapesse ancora che cos’è: Masterpiece è un talent show dedicato agli scrittori esordienti che si sfideranno per conquistare la pubblicazione del loro romanzo nel cassetto da Bompiani. È un format che ha già creato due tifoserie contrapposte e molto agguerrite e, come avrete già capito, anche io e Jacopo Cirillo non la pensiamo nello stesso modo. Per far fare a botte le nostre opinioni contrapposte abbiamo deciso di partire da una questione che mi era già capitato di trattare, in un discorso epistolare con una collega sul «Perché non mandare il proprio manoscritto a Masterpiece». Lei il manoscritto l’aveva mandato.

Ok, è il momento di partire con il confronto. Visto che per ora ho scritto solo io, lascio la parola prima a Jacopo e al suo «Perché mandare il proprio manoscritto a Masterpiece»

Perché mandare il proprio manoscritto a Masterpiece

JC: Qui stiamo tutti un po’ esagerando, e lo dico senza avere nessun romanzo nel cassetto e senza aver patito nessuna frustrazione editoriale. La critica principale alla quale tutti i detrattori si aggrappano, il fatto cioè che Masterpiece sia il solito reality tipo Isola dei Famosi che, poffare, spettacolarizza una pratica sacra e solitaria come quella della scrittura, è malposta. Intanto, parlare di libri è sempre meglio che non parlarne affatto e qualsiasi occasione in più per farlo è bene accetta. 

Tuttavia, non volendoci addentrare nei meccanismi del format, limitiamoci a valutare la sua legittimità e la sua apparente iconoclastìa.

Una persona diventa uno scrittore quando pubblica qualcosa e percepisce denaro dalla sua opera di talento. Punto. Se tengo un diario non sono uno scrittore. Se mi autopubblico e i miei amici scaricano gratis il pdf non sono uno scrittore. Se mi lamento perché le grandi case editrici, quel coacervo di malafede e incompetenza, rimandano indietro i miei eccellenti manoscritti non sono uno scrittore. 

Scrittore è chi libro pubblica, come direbbe Boskov se fosse un editor di Einaudi. 

Posto questo, i metodi di pubblicazione e le vie per arrivarci sono molteplici e stare qui a criticarne la liceità e la “giustizia” è un esercizio masturbatorio che, caso strano, viene ribattuto particolarmente da chi vorrebbe ma non riesce. 

Il libro è un prodotto culturale, certo, e il suo essere culturale lo rende diverso da un pacco di pasta o dalla birra analcolica. Ma sempre un prodotto è. Un oggetto che ha una forma, una dimensione, un peso (anche quando elettronico) e la capacità di arrivare a un certo numero di persone profilate secondo target più o meno specifici. Le case editrici servono a selezionarli, correggerli, migliorarli, inserirli nella loro linea editoriale e proporli al loro pubblico nel miglior modo possibile, secondo strategie e ragionamenti culturali e di marketing. E non c’è niente di male. Criticare la qualità del lavoro editoriale e la lungimiranza degli operatori del settore è legittimo, per carità, ma è un altro bel paio di maniche. Il processo produttivo è questo e, seppur migliorabile nelle sue componenti, questo rimane. 

Dunque, nella pratica di creazione di un libro, l’idea iniziale e la sua stesura entrano in una dinamica più ampia che comprende l’editing, la messa in pagina, la rilegatura, la copertina, il prezzo, la promozione e la posizione sullo scaffale della libreria. Non si può separare la scrittura da tutto il resto perché è proprio tutto il resto che lo differenzia dal romanzo nel cassetto di cui parlavamo prima. Il libro, fino a prova contraria, è un lavoro di gruppo.

Barthes a un certo punto ha detto: “non si può perorare contro la struttura”. Come dire: per essere uno scrittore, questo è l’iter da seguire (e, a parere di chi scrive, mi sembra il migliore degli iter possibili) e dunque, invece di lamentarsi, la cosa più intelligente da fare è sfruttarlo a proprio favore. Bisogna essere bravi a mettere le parole in fila, a inventare storie acchiappanti, ma anche proporlo alla casa editrice giusta, parlare con editor e addetti ai lavori, capire come funziona tutto il cucuzzaro. L’immagine dello scrittore chiuso nel suo abbaino che lavora a lume di candela rovinandosi gli occhi  mi sembra francamente improponibile. 

E allora, dico io, se c’è una possibilità alternativa, anche un reality show, in cui proporre i propri lavori, imparare nuove cose e, se ti va bene, pubblicare un miliardo di copie per Bompiani, per quale motivo non si dovrebbe sfruttare? 

Forse per paura di essere trattati come dei casi umani? O per evitare la spettacolarizzazione della propria personalità? Ognuno qui decida per sé, magari ne vale la pena. 

Dice: così è troppo facile! Non mi sembra, visto che gli aspiranti erano cinquemila e alla fine ne vince solo uno. 

Dice: ma entra solo chi ha le conoscenze giuste! Non lo so, non lo posso sapere, ma anche se fosse, quale sarebbe la novità? Questa è una critica sempreverde che si può fare, e purtroppo spesso si fa, in qualunque ambito. 

La scrittura non è un atto romantico; la lettura lo è. Dopo che tutta questa filiera si trasforma in un oggetto (o in un file) che ti compri o che ti regalano per Natale, allora conta solo il lettore e ciò che fa il lettore con quel libro – parlando di regali di Natale, tra l’altro, un bel tomo di Vespa è perfetto per la vecchia scrivania del nonno che traballa. Ma i modi in cui un libro viene concepito, scritto, scelto e confezionato non hanno nulla di sacro o di intoccabile. Sono un lavoro come un altro. Possono diventare uno spettacolo e non succede nulla di male. Anzi, magari è divertente e pure istruttivo. E questo vale anche se Masterpiece si confermerà la cagata che tutti stanno aspettando al varco. 

La magia sta nello sfogliare, non nello stampare. I lettori continueranno a fare ciò che vogliono dei libri fregandosene delle logiche editoriali soggiacenti e molti di noi, anche se la maggior parte non lo ammetterà mai, si divertirà a passare la domenica sera a guardare Masterpiece, prendere per il culo i concorrenti e accarezzare i fogli A4 non ancora rilegati della nostra, adorata opera prima. L’unico masterpiece che ci interessa davvero.

Perché NON mandare il proprio manoscritto a Masterpiece

AC: Io non manderei il mio manoscritto a Masterpiece, e non solo perché non ho alcun manoscritto nel cassetto. Io non manderei il mio manoscritto a Masterpiece perché Masterpiece è un format televisivo, e proprio per questa sua natura, non si pone come obiettivo il contribuire al panorama letterario (che è la cosa che mi interessa, in generale), ma mira al semplice esercizio di spettacolarizzazione dell’atto della scrittura, usando il naturale narcisismo di chi scrive (un narcisismo, intendiamoci, che accompagna da sempre l’atto di produzione creativa, di qualsiasi produzione creativa, e non ha nulla di male, in sé) per inventare e far vivere personaggi nel mondo non scritto della Televisione, per fare pubblico e per vendere questo pubblico ai propri investitori pubblicitari (cosa che è naturale per il mezzo televisivo). Non lo reputo cattivo, lo reputo solo inconciliabile, in questi termini, con il mezzo letterario. A me interessa infatti, e dannatamente, il libro, ben prima dell’autore. Anzi, esagerando un pochino ciò che penso, direi che a me, dell’autore, non interessa nulla, perché quel conta è l’opera, nient’altro. Badate bene, questa é un’iperbole, quindi non è vera fino in fondo.

Proseguiamo: chi manda il proprio manoscritto a Masterpiece adduce come motivazione, o come una delle motivazioni, il fatto che Masterpiece funga da vetrina, e, visto che chi scrive solitamente vuole essere letto (ci mancherebbe altro) e anche da più gente possibile. Non ci vedo nulla di strano, mi sembra l’aspirazione più naturale del mondo per chi scrive e la condivido in pieno. Solo non capisco come possa rappresentare una vetrina una trasmissione televisiva, un talent tra l’altro, non il Circolo Pickwick o Per un pugno di libri. Un talent, ovvero una di quelle cose à la Isola dei famosi, o Fattoria. Una di quelle robe che vive di personaggi che il pubblico deve tifare, come in un anfiteatro romano si tifavano i gladiatori (che, nota bene, erano schiavi, quasi sempre, non professionisti). E a me non piace l’dea della gente che si infila in un’arena in balia del giudizio di un pubblico di tifosi – a meno che in mezzo non ci sia un pallone, tondo o ovale non importa, ma che ci sia.

La questione della ricerca di un personaggio, e non di un’opera, mi fa pensare a una storiella, un esempio probabilmente un po’ idiota su come mi immagino le selezioni, probabilmente sbagliando, ma tant’è. Allora: mettiamo caso che uno dei 5000 aspiranti partecipanti a Masterpiece abiti in una città di provincia del centro Italia, che sia un ragazzo un po’ solitario, che passi la sua vita davanti al computer, leggendo in 7 lingue tutto ciò che c’è da studiare e da leggere e che, soprattutto, abbia nel cassetto una raccolta di racconti visionaria e potentissima. Poniamo che il suo titolo sia Le operette morali e il nome del suo autore Giacomo Leopardi. 

Bene, stando così le cose, Giacomo , che, come il suo illustre e omonimo predecessore ha una voglia matta di pubblicare qualcosa e di uscire dalla sua vita di merda nel buco del culo dell’Italia – una volta inviato il suo manoscritto e una volta ricevuta la notizia di aver passato la prima selezione, andrebbe a Torino, o dove si svolgono le selezioni, a fare una audizione. Lì, ponendo che Giacomino sia sul serio un Giacomino, si troverebbe davanti due possibilità: 

A. lo prendono, ma come negli zoo prendono gli animali assurdi, per farli indicare dai bambini cinici à la Nelson dei Simpson. Risultato: la sua vita, di uomo prima che di scrittore, già non esattamente facile, rischierebbe di essere un po’ compromessa. 

B. lo rimandano indietro nel suo buco di culo di mondo, perché hanno bisogno di gente che riesce a guardare in camera, mica dei casi umani ipersensibili e giganerd. Risultato: capirebbe che poteva risparmiarsi l’invio del manoscritto.

Magari questa storia di Giacomino è un po’ esagerata. E sì, lo confesso, forse mi è venuta in mente per cercare di non tornare sul punto della questione. Perché chi ha letto bene fin qui l’avrà già capito che è roba delicata, di quelle che rischia di farmi guadagnare a mani basse l’etichetta di snob. Però che devo fare? Confermo, me la guadagnerei facilmente. Ma non perché alla volontà di trasformare la letteratura rispondo aristocraticamente «Ovvove». No, al di là del fatto che io la erre moscia ce l’ho avuta in eredità da mio padre che l’ha avuto in eredità da mio nonno, io sono realmente convinto che la letteratura si debba trasfomare, e sono anche convinto che sia un bene se si trasforma anche grazie e con i linguaggi pop. Io, però, se quella trasformazione deve passare per un talent show televisivo rispondo «No, grazie». 

Sono uno snob, probabilmente, ma mi sento prima di tutto di dover essere onesto, e a qualcuno che ha un romanzo del cassetto, che ha una pazza voglia di pubblicare e di essere letto direi quanto segue.

Se hai scritto qualcosa che credi valga, lavoraci duro, poi sottoponilo a un editore. Sceglilo bene, l’editore, informati su cosa pubblica, non mandare un libri di ricette a chi si occupa di storia del risorgimento italiano. A questo punto, se convinci lui e se lui se la sente di investirci dei soldi pagando la tua legittimazione ai miei occhi di lettore, ben venga, ti leggerò volentieri e deciderò, nel mio piccolo, se quell’editore ha avuto ragione o no e se tu hai scritto un bel libro o meno. Ma se per essere pubblicato sei pronto a metterti in vetrina, e a metterci probabilmente la tua vita, i tuoi amici, i tuoi genitori che chiamerebbero da casa emozionati a vedere il loro figliolo in diretta televisiva, magari pure tua nonna e il tuo gatto. Beh, in quel caso a me non interessa. Senza alcuna critica personale, intendiamoci, ognuno è liberissimo di fare quel che vuole della sua vita. E sono libero di pensare che non ho intenzione di usare il mio tempo in quel modo, che preferisco bermi un paio di birrette con gi amici e posso restare convinto che la migliore cosa che può fare un aspirante scrittore sia leggere, famelicamente, e pensare a quel che scrive, quando si sente in grado di farlo. Nello stesso modo anche tu, aspirante scrittore, sei libero di scegliere: se vuoi fare la fila insieme ad altri aspiranti scrittori per finire sotto i riflettori in uno studio televisivo, fallo. Se no ricordati che puoi sempre andare in biblioteca, chiedere Martin Eden, di Jack London, e leggerlo di un fiato. Qualche consiglio sulla scrittura e una testimonianza della frustrazione della non pubblicazione, quel geniaccio di Sailor Jack te lo dà eccome.

I risultati della votazione

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