L’ultimo colpo dovrebbe essere la vendita dello stabile di via Solferino, la storica sede del Corriere della Sera, al fondo americano Blackstone. Direzione e redazione resteranno in affitto, nonostante esista un palazzone nuovo di zecca, considerato troppo periferico. Segrate sì, via Rizzoli no? Ma i giornalisti del Corriere hanno fatto fuoco e fiamme. E hanno ottenuto qualcosa, mica come quelli del Times di Londra che in una notte sono stati sbattuti dalla mitica Fleet Street nei vecchi dock lungo il Tamigi. Piccole resistenze a parte, un altro pezzo di Milano se ne va, un altro angolo di storia, e che storia. Come la pasticceria Cova di via Montenapoleone acquistata da Bernard Arnault (LVMH), solo che questa volta non si tratta di cioccolatini. L’elenco della Milano sparita non è più un nostalgico ricordo di luoghi perduti, ma la Spoon River dell’altra capitale, quella che fin dai tempi di Diocleziano e Costanzo Cloro (il padre di Costantino), doveva rivaleggiare con una Roma diventata ormai periferica per un impero sempre più europeo.
Nell’ultimo secolo, Milano è stata la capitale dell’industria (Edison, Feltrinelli, Pirelli, la Montecatini), poi delle banche a cominciare dalla Commerciale, poi della politica con i fasci di combattimento e Benito Mussolini; è stata la capitale della ricostruzione (anche se non proprio della Resistenza) e del miracolo economico. Non è mai stata davvero la “capitale morale” nonostante il luogo comune, perché da sempre potere e affari sotto la Madonnina hanno rappresentato una matassa di intrighi ai limiti del lecito. Il catalogo degli scandali non ha nulla da invidiare alla Roma “marcia e corrotta” rappresentata dall’iconografia settentrionalista. Tanto meno dopo Mani pulite. Eppure è stata proprio quell’inchiesta della magistratura, è stata Tangetopoli a segnare il punto di svolta negativo. Perché questa città che è se stessa e molto altro insieme, che ha mutato volto con lo scoccare dei decenni, si è ritrovata per la prima volta nuda e senza più energie.
Lo choc è stato immenso. Chi (come me) ha vissuto a Milano negli anni ’80 e poi c’è tornato proprio da quel 1992 dopo una parentesi newyorchese, lo ha percepito ancor più di chi, meneghino fino al midollo, aveva esaurito persino le ceneri con le quali cospargersi il capo. L’intera città, dai “mariuoli” che l’avevano risucchiata alle vittime che si erano fatte spolpare, era immersa nella vergogna frutto talvolta di sincero pentimento, ma soprattutto di orrore per la brutta figura. E da allora non s’è più realmente ripresa. Ci ha provato con Silvio Berlusconi, ma, a differenza da Craxi, direttamente da Roma. Si dice che la crisi del Cavaliere cominci nella primavera del 2011 con la perdita di Milano, e così è stata percepita da Berlusconi stesso, che da allora ha commesso una catena di errori. Contava, però, il valore simbolico della roccaforte caduta, non l’esaurirsi della fonte del potere che, in fondo fin dagli anni ’80, si era già trasferita nel Palazzo dove si decidono le sorti della televisione e della politica.
Via Solferino, Cova, o l’Inter lasciata con le lacrime agli occhi da Massimo Moratti, e poi i licenziamenti di Telecom Italia, lo spegnersi del ruolo guida di Mediobanca nella finanza milanese (e italiana), le difficoltà in cui si dibattono le banche, Unicredit, Intesa, la Popolare, diventate il fulcro del potere dopo la fine della grande industria pubblica e privata, e adesso attraversate dalla crisi e dalla rivoluzione tecnologica e organizzativa, tutto ciò lancia un nuovo allarme. Si levano lamenti nostalgici, s’intonano giaculatorie al declino, ultimo feticcio di un paese che da troppo tempo si piange addosso. Può Milano, elaborato fino in fondo il lutto, rinascere? E come? I grattacieli che trasformano lo skyline, sono l’inizio di un nuovo assalto al cielo o saranno le torri dove rinchiudere le illusioni?
Citylife, progettata nove anni fa con la nuova Fiera, va avanti grazie alle Generali che, nonostante la crisi immobiliare, si sono impegnate a portare avanti il progetto. Porta Nuova si completa grazie al fondo d’investimenti del Qatar, lo stesso ha ha rilevato i resort della Costa Smeralda, insieme a Hines, gruppo texano che ha deciso di puntare su Milano. Santa Giulia è passata da Zunino ai suoi finanziatori, a cominciare da Unicredit per finire in Idea Fimit, il fondo immobiliare del gruppo De Agostini. I tre progetti pilota destinati a cambiare il volto della città ancor più di quel che non fece il Pirellone al culmine del miracolo economico, sono una grande scommessa e un grande rischio. Ma senza scommessa e senza rischio non c’è sviluppo, non c’è progresso (con tutto quel che di intrinsecamente contraddittorio sviluppo e progresso possano covare in grembo). Gli investimenti italiani e stranieri (anglo-americani, arabi, russi, cinesi) possono far pensare che non c’è solo una Milano che se ne va, che viene (s)venduta, c’è una Milano che arriva, un’altra Milano. Quale?
E’ del tutto svanita l’idea (per la verità assai balzana) di una sorta di autosufficienza. Ancor più lontana nel tempo quella separatista, che vedeva Milano vertice di un triangolo virtuoso con Monaco di Baviera e Zurigo. Era il progetto del quale Gianfranco Miglio, l’ideologo della Lega, andava a discutere con Theo Waigel leader dei cristiano-sociali bavaresi, ministro della finanze di Helmut Kohl, l’uomo che voleva tenere l’Italia fuori dall’euro. Acqua passata. Adesso i tedeschi non sono interessati, gli svizzeri non lo sono mai stati. Del resto, dopo la bisboccia romana, anche i legisti ridimensionano i loro sogni al Cantone Cisalpino che sembra una caricatura da orologi a cucù. Dunque, a Milano non resta che guardare all’Italia pensando all’Europa.
Finita è anche qualsiasi illusione manifatturiera. Non perché sia in corso una de-industrializzazione massiccia (tutti i dati dicono che non è così, nonostante quel che scrivono i giornaloni e i loro guru à la carte). Ma perché la manifattura è un’altra cosa e la terza rivoluzione industriale richiede un intreccio pressoché continuo di innovazione, tecnologia, servizi, ma non ha più bisogno di capannoni, linee di montaggio, officine fumose (per lo meno non nei paesi avanzati). L’idea che Milano si trasformi in una piazza finanziaria di rilievo, da rivaleggiare con Londra, è sempre stata velleitaria, ma ormai è fuori tempo massimo anche perché piazza Affari è stata inglobata nella City, ma come appendice minore. E allora, cosa vuol essere Milano e cosa sarà?
Non c’è nessun piano che possa rispondere ex ante. La Milano di un tempo è stata fatta da uomini che hanno creato imprese (non solo mercantili, ma anche intellettuali) non agendo nel vuoto pneumatico, ma rispondendo a bisogni nuovi quanto concreti. Aiutati dallo stato soprattutto con scuole efficienti e leggi efficaci. I quattrini sono arrivati dopo, quanto l’intervento pubblico s’è fatto assistenzialismo, clientelismo, corruzione. Si fa presto a inventare formule, definizioni, slogan (anche se “Milano da bere” è stata geniale e resta ineguagliata per la sua capacità evocativa). C’è bisogno di ricreare l’intero amalgama virtuoso. Non è facile, ma le idee aiutano. E molte idee oggi ruotano attorno a Expo 15.
Naturalmente c’è anche il movimento No Expo; Beppe Grillo batte la grancassa, ma l’Italia dei no non s’esaurisce mai. E ci sono modelli alternativi. I più evidenti sono due: il primo che può essere condotto all’universo slow (con ricadute nel decrescita più o meno felice), l’altro che si riconosce nel paradigma tecnologico (più o meno alto). C’è anche un terzo filone che in qualche modo prende un po’ dall’uno e un po’ dall’altro. Potremmo chiamarlo quello delle nicchie d’eccellenza, perché desume dal mondo slow l’idea di presidiare il mestiere, la qualità, il radicamento nella cultura locale, ma vuole misurarsi con i livelli più alti della produzione, del consumo, dell’innovazione. Possono incontrarsi sull’Expo o la lotta tra loro rischia di mandare tutto in frantumi? Il conflitto tra Oscar Farinetti e Umberto Veronesi su Ogm no e Ogm sì, promette tempesta. Il mondo di Eataly, brillante operazione non solo commerciale, e quello dell’oncologo star, fanno intravedere uno scontro non solo di interessi, ma di cultura. Ma per rispondere dobbiamo guardare dentro la tenzone. Ed è quel che faremo in un prossimo articolo.