Pubblicare è semplice, è trovare lettori il difficile

Selfpublishing

Hugh Howey è uno dei casi editoriali americani più interessanti degli ultimi anni. Il suo Wool, un romanzo distopico talmente potente da essere stato opzionato da Ridley Scott per trarne una versine cinematografica, ha conquistato milioni di lettori. Nato da un racconto di una cinquantina di pagine, pubblicato su Amazon, Wool è diventato una triologia grazie al successo tra i lettori e al passaparola. Ha sfondato, come si dice in gergo, tanto che gli editori di tutto il mondo si sono scannati per averlo nel proprio catalogo. In Italia l’ha spuntata Fabbri, che l’ha pubblicato a ottobre. Ma Hugh Howey è soprattutto un ragazzotto americano sui quaranta. Ha la faccia pulita, lo sguardo deciso e sorride, quasi sempre. Ma questo, prima di intervistarlo, ancora non lo sapevo.

Era una delle giornate di Bookcity, la mia sveglia non aveva suonato e mi ero dovuto fare tre chilometri in bici di corsa, sudando, nonostante il freddo. Howey mi stava aspettando  in uno stanzino al piano terra di un hotel di Milano che si affaccia sui giardini di porta Venezia. Intanto, nella hall, avevano appena finito di realizzare un’intervista video a Luis Sepulveda e io, che avevo altro per la testa, gli sono passato a fianco senza accorgermi che è lui, a passo svelto, controllando l’ora compulsivamente e maledicendo la sveglia non sentita una mezz’oretta prima. Poi, dopo ancora qualche passo svelto e un po’ di sudore freddo – ché la stanzina non era così facile da trovare – ci sono arrivato. Una volta entrato, Giulia dell’ufficio stampa di Fabbri, sempre gentile, ha fatto le presentazioni e ha mi ha versato un bel bicchierone di frizzante. Poi abbiamo cominciato, e quello che ci siamo detti lo trovate qua sotto.

Cominciamo da una domanda facile: perché scrivi?

Scrivo perché sono innamorato della scrittura. Come quando un bambino guarda una partita di calcio alla televisione e vede giocare Messi e, anche se non potrà mai diventare un giocatore professionista, appena la partita è finita corre lo stesso a comprare un pallone e inizia a giocare. Diventare campione del mondo è il sogno di tutti i bambini che amano il calcio. Bene, quando ero piccolo la mia passione erano i libri. Li leggevo e mi perdevo nei mondi creati dall’autore. E pensavo che anch’io volevo creare quei mondi, che anch’io volevo saperlo fare, e diventare un creatore, uno scrittore di professione. È una passione che mi porto dietro da quando ero bambino, e ora, dopo più di vent’anni, ci sono.

E, per curiosità, chi era il tuo Messi?

Da ragazzo i miei preferiti erano Orson Scott Card e Douglas Adams, in particolare quel libro spettacolare che è la Guida intergalattica per autostoppisti. Leggevo loro due e non a caso il primo libro che ho scritto voleva somigliare a entrambi. Come il bambino che guarda Messi, anch’io che volevo tentare di somigliare ai miei eroi. 

Come sei arrivato a pubblicare?

Ho seguito un percorso simile ad altri. A un certo punto ho lavorato come recensore per un sito, per il quale scrivevo recensioni di libri gialli, di crime fiction. Andavo alle conferenze e ai festival a intervistare gli autori, e ogni volta tornavo a casa ispiratissimo: volevo scrivere anch’io un libro. Poi, quando ne ho scritto uno veramente e l’ho pubblicato su un blog, mi sembrava molto meglio di altre cose che avevo letto in libreria. L’ho fatto leggere a persone di cui mi fido, come mia moglie e mia madre e l’ho fatto girare un po’, l’ho spedito a qualche piccola casa editrice e dopo poche settimane qualcuno mi ha risposto. Una piccola casa editrice, in particolare, aveva apprezzato il mio libro. Ci credevano, e mi avevano fatto un’offerta, anche se bassa. Ero contento che lo avessero apprezzato, pensavo di non poter ricevere un’offerta superiore e decisi di pubblicarlo con loro. 

Quando cercai di pubblicare il secondo romanzo avevo capito che tutti gli strumenti che erano a disposizione di un piccola casa editrice, potevano essere anche a mia disposizione e decisi di fare da solo. Quindi, quando mi fecero l’offerta per l’anticipo del secondo libro, risposi loro che era stato bello pubblicare con loro, che avevo imparato molte cose e che li ringraziavo, ma che quella volta volevo pensarci da solo.

E hai fatto veramente tutto da solo?

No, certamente no. Mi sono fatto aiutare e consigliare dai migliori editor che avevo a disposizione e di cui mi fidavo ciecamente: mia madre e mia moglie. Quando finii di scrivere le bozze del manoscritto mi ritrovai a leggerlo e correggerlo una decina di volte, avevo fatto ricerche sulla lingua, sulle strutture, mi misi a leggere un sacco perché volevo che il romanzo fosse perfetto prima di farlo leggere ad altri. Mia moglie dopo averlo letto mi disse che non era ancora perfetto, e la stessa cosa me la disse mia madre. E così pagai un editor professionista per leggerlo, analizzarlo e correggerlo fin nei più piccoli particolari, poi lo feci rileggere da altri lettori. Insomma, non ho fatto tutto da solo, anzi, mi sono fatto aiutare da più gente possibile.

Qual è la cosa più difficile quando cerchi di pubblicare un libro?

Personalmente, la mia maggiore difficoltà è stata la pazienza, i tener duro nei momenti più difficili. E non è stato per niente facile, visto che io sono assolutamente impaziente. Ma quando lavori con una casa editrice devi mettere in conto che, anche dal momento in cui accettano il tuo manoscritto, devi aspettare un anno almeno per vederlo pubblicato. In generale, per pubblicare, ma anche per scrivere, la pazienza è fondamentale: il saper aspettare, ma anche il saper coltivare la propria storia, rileggere e riscrivere il proprio libro, fino a quando lo si ritiene perfetto. Per farlo bisogna essere pazienti. Pubblicare di questi tempi è diventato semplice, è trovare i lettori la cosa più difficile.

Tornando alla metafora del calcio che hai usato prima, perché se in molti vogliono diventare dei calciatori, quasi nessuno si interessa veramente di calcio?

Eh eh, sì, ma usciamo dalla metafora: forse non è vero che la gente non legge più. La gente non legge libri, legge altro: blog, siti, Facebook, twitter. Alla luce di tutto direi che siamo nel periodo storico in cui la gente scrive e legge di più. Ci sono più lettori e scrittori adesso che in qualsiasi altro momento della storia.

A ogni presentazione in cui mi ritrovo a parlare, la metà degli spettatori vuole scrivere un libro, ma non l’ha mai fatto. In generale, tutti vogliono scrivere un libro nella loro vita, l’unica cosa che impedisce loro di farlo sono proprio loro stessi. E così era anche per me, fino a quando uno scrittore mi disse che per lui l’unica cosa che impedisce di diventare uno scrittore e il non sedersi ogni giorno almeno 4 ore alla scrivania per scrivere. È come imparare a suonare la chitarra, per molto tempo suona malissimo, ma poi, a un certo punto, tutto ha senso. Così anche nelle storie, ti trovi fino a un certo punto con un pezzo di storia e ti sembra che non funzioni, che non riuscirai mai a portarla fino in fondo. Ma devi tenere duro e crederci, tornare indietro, rimetterci le mani e renderla sempre migliore. E non è facile. 

Siamo abituati a mettere poche frasi su Facebook e a ricevere qualche decina di like. Quindi, per riuscire a scrivere per tre ore senza poter far leggere subito nulla a nessuno bisogna aver ben presente perché si scrive, e non si scrive per i complimenti su Facebook, si scrive perché si crede nella storia, perché ci si diverte nel farlo, ma forse per la maggior parte delle persone che vogliono scrivere non è così.

Ok, ma tornando alla metafora, è come dire che ora c’è molta più gente del solito che gioca con una palla, ma non molta gente gioca a calcio. Ma se vuoi fare il calciatore devi…

Devi farlo…

Sì, per giocare a calcio devi allenarti a giocare a calcio, mica a cricket o a baseball o a pingpong…

È vero, ma forse se le persone non leggono è anche colpa di chi scrive. Io credo che faccia parte del ruolo dello scrittore il creare storie per coinvolgere sempre più lettori e portarli a leggere, sempre di più. Per questo amo molto il fenomeno delle fanfiction, perché è il modo in cui molti lettori provano a mettersi nei panni dello scrittore e si accorgono di quanto è divertente creare storie. Credo che si debba essere molto aperti di questi tempi, anche a scuola. Gli insegnanti non dovrebbero obbligare i propri studenti a leggere i classici, o qualunque altro libro, bisogna insegnare a scegliersi i propri libri. Nessuno può obbligarti a leggere un libro, sei tu che devi scegliere.

Hai sentito parlare di Masterpiece? Ne ha parlato anche il New York Times.

No, di cosa si tratta? Non ne ho sentito parlare, ma l’idea potrebbe essere buona.

Si tratta di un talent show in cui aspiranti scrittori passano davanti a una giuria di tre scrittori e lottano per farsi pubblicare… 

Ah, mi viene in mente Harlan Ellison, che una volta si mise a scrivere in mezzo alla strada, davanti al pubblico. Ma il problema per questo genere di operazioni è che il processo creativo della scrittura richiede molto tempo, diciamo che dal punto di vista televisivo è molto noioso. La sfida però è interessante, per far sì che molta gente torni a leggere bisogna dimostrare che leggere è una cosa cool, ma bisogna trovare il modo di riuscirci. Come facciamo a dimostare ai giovani che leggere e scrivere sono cose divertenti e cool? Questa è la domanda a cui rispondere.

Quale è il futuro dello scrittore, quale quello del lettore e quale quello dell’editore?

Il futuro degli scrittori è avere più opzioni, più scelte. Non c’è più soltanto una strada, bensì molte, e sempre più efficaci di guadagnarsi visibilità con la propria scrittura. Se hai un blog, per esempio, o addirittura un profilo twitter molto popolare puoi pensare di scrivere un libro. MI sembra più semplice di prima, e in fondo credo che le storie si venderanno sempre, e questo è una grandissimo vantaggio.

Anche per i lettori ci saranno molte più scelte: libri di carta, ebook, siti. E anche per questo, forse, i prezzi stanno scendendo. Credo che ci saranno più possibilità anche per loro. Per quanto riguarda gli editori, allo stato attuale sembrano quelli che rischiano di più. Ma se guardiamo i dati degli ultimi anni, almeno negli Stati uniti, vediamo che ci sono degli editori che stanno puntando molto sul digitale e quest’anno – che per tutti o quasi è stato di crisi – hanno stabilito utili da record, con aumenti anche del 30-40% del fatturato. Io credo che la vera sfida per gli editori si giocherà in realtà contro le serie tv, i videogiochi o i social network, che occupano molto del tempo libero della gente, tempo che prima poteva essere utilizzato per leggere.

Credi che l’industria editoriale abbia paura del self publishing?

No, credo che l’industria editoriale abbia paura del cambiamento. Se gli editori terranno a mente il pubblico nelle loro decisioni, ovvero cosa vuole leggere, in che formato vuole leggerlo e a che prezzo vuole leggerlo, allora ci sono buone probabilità che ne esca bene.

Qual è la differenza tra self publishing e vanity press?

Nel selfpublishing tu mantieni tutti i diritti su ciò che scrivi, decidi tutto del tuo libro, puoi pagare qualcuno che ti aiuti per la cover, per l’editing, per l’ufficio stampa e per tutto il resto: il prodotto è tuo. Al contrario, per quanto riguarda la vanity press, ovvero per il mondo delle case editrici a pagamento, alla fine tutto si risolve con l’autore che compra un sacco di copie e con l’editore che fa i soldi così, senza lavorare al libro, senza promuoverlo, semplicemente stampandolo e vendendolo all’autore. Ora è possibile stampare una copia esattamente quando il lettore la ordina, senza riempirsi il garage, e senza spendere un penny. E poi gli editori a pagamento non rischiano nulla, vivono alle spalle dell’autore. Il self publishing è un’altra cosa, insomma, non sono per niente lo stesso campo da gioco.

Cosa diresti a chi vuole diventare uno scrittore?

Se vuoi diventare uno scrittore devi scrivere, scrivere tanto. Torniamo alla metafora del calcio, che funziona sempre: pensa a quante volte un calciatore deve tirare in porta per riuscire a imparare a tirarla all’incrocio dei pali. È la stessa cosa. Per scrivere serve esercizio costante, pazienza, dedizione. Serve dirsi che scrivere è quello che si vuole fare per il resto della propria vita, e farlo. La mia prima storia non potrà mai essere la mia storia migliore, il mio goal è continuare a migliorare, giorno dopo giorno. Voler fare lo scrittore significa questo, se non si è pronti a lavorare sul lungo termine e a fare fatica, allora forse si deve fare altro.

X