Molto è già stato scritto, e detto, sul caso Ligresti-Cancellieri. Poco quindi resta da aggiungere, ma con tutto il rispetto dovuto ad Annamaria Cancellieri, servitrice leale dello Stato, una cosa va pur detta.
Si può anche essere amici di qualcuno senza sapere che costui delinque; quando però lo scopre, un cittadino qualunque ha la scelta fra restare in amicizia o interrompere i rapporti; a me pare che la seconda sia la scelta giusta, ma la cosa può ancora essere opinabile.
Altra cosa è se si ricopre un importante incarico istituzionale, addirittura quello di ministro della Giustizia: può costare, ma è doveroso, alzare il telefono e dire: “Mi dispiace, ma dopo queste notizie i nostri rapporti devono interrompersi”. E ciò non per ragioni di opportunità, ma per dovere istituzionale.
Chi fossero i Ligresti e il loro clan, chiunque lo voglia sapere lo sa, in Italia, da almeno cinque anni, volendo essere buoni. A scusante di Cancellieri sta il fatto che tutta l’Italia che conta ha fatto lo stesso, ma chi di lei s’è fatto un’idea diversa non può che stupirsi e rammaricarsi.
Ciò anche per un fatto che, nei molti commenti, non tutti equanimi, mi pare sia sfuggito: fra le ragioni per cui le carceri sono un inferno c’è anche il favoritismo degli agenti verso certi detenuti, e il suo rovescio, il sopruso. Se Cancellieri si adopera tanto per un’amica, anche l’agente penserà di poter fare lo stesso, magari spingendosi un po’ più in là di lei nell’aiuto, e già questo è male. C’è di più, tuttavia e di peggio: nella logica perversa del carcere, ciò autorizza anche il contrario, il sopruso verso il nemico, proprio o dei propri amici, che siano liberi cittadini o magari detenuti.
Le persone vanno giudicate nel loro complesso, questo è vero; ma nel bilancio di Annamaria Cancellieri questi fatti sono al passivo, e pesano.
L’intevento integrale del ministro Anna Maria Cancellieri al Senato della Repubblica (5 novembre 2013)
Gentile Presidente, onorevoli senatori, mi accingo a riferire a quest’Aula appena rientrata dal mio impegno a Strasburgo, dove ho illustrato, ricevendone ampio apprezzamento, le iniziative del Governo per superare l’emergenza carceraria e in esecuzione della nota sentenza di condanna sul caso Torreggiani.
In questi giorni sono stati posti diversi interrogativi in relazione al mio operato come Ministro della giustizia, cui se ne sono aggiunti altri che riguardano il mio percorso personale e professionale. Nel rispetto del Parlamento, credo sia essenziale offrire innanzitutto una ricostruzione completa dei fatti, che possa consentire il formarsi di un’opinione obiettiva sui miei comportamenti.
Sempre per l’assoluta considerazione che riservo a quest’Aula e ai suoi rappresentanti, prima ancora che mi venisse concessa l’opportunità di intervenire in questa sede, ho ritenuto doveroso scrivere, in data 31 ottobre, una lettera ai Capigruppo, nella stesse ore in cui i media iniziavano ad occuparsi della vicenda di cui riferirò tra poco, manifestando la mia totale disponibilità a ricostruire nel dettaglio l’accaduto. Mi permetto solo di anticipare che, come avrete modo di constatare, a differenza di quanto è stato riportato da alcuni mezzi di informazione, non ho mai sollecitato nei confronti degli organi competenti la scarcerazione della signora Giulia Ligresti, né ho indotto nessun altro ad assumere iniziative in tal senso.
Veniamo ai fatti. Il 17 luglio 2013 viene eseguita una misura cautelare nei confronti di Salvatore Ligresti e delle figlie Jonella e Giulia, ed è riferita a questo episodio una mia telefonata privata che è stata resa nota in questi giorni e della quale parlerò più ampiamente in seguito. Con riferimento invece alla specifica vicenda giudiziaria e penitenziaria che ha riguardato Giulia Ligresti, ne riassumo la scansione temporale, come riferita dalla stessa procura di Torino. Il 2 agosto è stata depositata da Giulia Ligresti istanza di cosiddetto patteggiamento; nella stessa data, la procura di Torino ha espresso parere favorevole su tale richiesta, nonché sull’ulteriore istanza volta ad ottenerne gli arresti domiciliari. Il 7 agosto il gip respinge l’istanza di applicazione degli arresti domiciliari in sostituzione della custodia cautelare in carcere. Il 14 agosto la direttrice del carcere di Vercelli riceve una relazione della psicologa di quel carcere e la trasmette agli uffici giudiziari di Torino. Il 19 agosto il procuratore Vittorio Nessi – lo stesso magistrato da cui poi sono stata ascoltata il 22 agosto come persona informata dei fatti – affida al medico legale il compito di visitare Giulia Ligresti. Il 27 agosto il medico incaricato dalla procura conclude i suoi accertamenti, affermando che, sebbene non risulti una condizione di perentoria incompatibilità, la permanenza in carcere costituisce un concreto danno per la salute del soggetto. Sempre il 27 agosto, alla luce della predetta consulenza, viene depositata una nuova istanza volta a ottenere gli arresti domiciliari, concessi il giorno dopo dal gip.
La ricostruzione dei fatti mette in evidenza un aspetto che dovrebbe risultare dirimente, secondo ogni onesta coscienza, a fondare una valutazione seria e pacata sulla correttezza della mia condotta, sia dal punto di vista amministrativo che politico, e, cioè, che la scarcerazione di Giulia Ligresti non è avvenuta a seguito o per effetto di una mia pressione o per una mia ingerenza – che mai vi è stata, né è stata mai semplicemente concepita – ma per un’indipendente decisione della magistratura torinese, la quale più volte, per bocca del suo vertice, ha chiarito in maniera limpida e inequivocabile come la concessione degli arresti domiciliari alla Ligresti sia stata frutto di un’autonoma valutazione della procura, scevra da influenze e condizionamenti; in altre parole, senza che mai vi sia stato da parte di nessuno il benché minimo tentativo di indirizzare l’esito di quell’importante decisione. Esito che è risultato favorevole all’imputata solo perché – lo ribadisco – l’applicazione libera e coscienziosa delle regole così ha voluto.
Si è molto ironizzato sulla mia affermazione riguardo al carattere umanitario delle preoccupazioni che mi hanno spinto a chiedere notizie sul fatto che il trattamento carcerario di Giulia Ligresti tenesse conto delle sue delicate condizioni di salute. Mi sia consentita tuttavia una precisazione, solo apparentemente di carattere personale. Per mia formazione culturale e per un mio orientamento libertario, ho sempre ritenuto che la questione della pena, del carcere e della sua umanizzazione fosse il pilastro su cui edificare il sistema espiativo in una Nazione degna di essere considerata civile. La nostra Costituzione naturalmente ci richiama a questo obbligo fondamentale, e sento sulla mia pelle, fin dal momento in cui mi è stato riservato l’onore di rivestire l’incarico di Ministro della giustizia, il dovere di tener fede a un proposito di giustizia sostanziale, valido chiunque, donna e uomo, il cui accidentato percorso di vita porti, almeno una volta, a incrociare il carcere. Si dirà: ma non tutti hanno la possibilità di bussare alle porte del Ministro della giustizia; a non tutti è data la facoltà di farsi ascoltare, di poter esprimere un disagio autentico, nella speranza che qualcuno lo raccolga e se ne faccia interprete. È vero, non tutti hanno la possibilità di diretto contatto, e nessuno più di me ne ha l’acuta e desolante percezione, e posso garantire sul mio onore che nessuno più di me avverte questa disparità di situazioni in tutta la sua dolorosa ingiustizia. Di fronte ad una popolazione carceraria di più di 64.000 persone, di cui ben il 25 per cento è in custodia cautelare, è difficile essere vicini a tutti, come si vorrebbe; però non è vero che il destino delle singole persone viene a dipendere da circostanze fortuite occasionali: non posso far correre l’idea che il sistema penitenziario italiano non sia invece già strutturato per rispondere, pur nelle innegabili e oggettive difficoltà, in maniera puntuale e seria a segnalazioni che, in qualunque modo, facciano emergere l’esistenza di situazioni particolarmente critiche per il detenuto. Quando dico «in qualunque modo» voglio proprio dire che le segnalazioni possono provenire sia dall’interno della struttura carceraria, che si attiva in relazione a fatti precisi o a indicatori d’allarme, sia dall’esterno del carcere o dell’amministrazione penitenziaria, in virtù del prodigarsi di familiari o di persone vicine al detenuto o, ancora, per iniziative di associazioni di volontariato sociale, di organismi di garanzia o anche di singoli parlamentari.
È opportuno sapere che di queste segnalazioni spesso mi faccio carico personalmente, in un colloquio quasi quotidiano con i vertici dell’Amministrazione penitenziaria, divenuto una consuetudine della mia giornata di lavoro. È altrettanto importante sapere che all’interno del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria opera da qualche anno un’apposita struttura, alle dipendenze e sotto la diretta responsabilità di uno dei due vice capo dipartimento, cui è attribuito il compito di vigilare sull’integrità psicofisica del detenuto e sulla sua incolumità, stimolando e controllando l’attività dei singoli istituti carcerari. Risponde a un dato di realtà che, da quando è stata messa in campo una rete più strutturata di vero e proprio monitoraggio sistematico delle situazioni più difficili, si è registrata una sensibile flessione degli eventi critici in generale e dei suicidi in particolare, fenomeno che resta tuttavia inaccettabilmente alto. Come ho già detto, ogni vita che si spegne nel corso della detenzione è una sconfitta per lo Stato e per il sistema penitenziario; io ne sento tutto il peso. Proprio per questo, come molti ormai sanno, ho dedicato una parte rilevante del mio impegno di Guardasigilli al problema carceri, inteso soprattutto come miglioramento delle condizioni di vita del detenuto, in quello spirito di umanizzazione e di adeguamento del sistema penitenziario alle previsioni costituzionali e a quelle europee basate sulla finalità rieducativa della pena. Il recente messaggio alle Camere del presidente Napolitano, incentrato proprio sull’emergenza carceraria, è stato la conferma più autorevole dell’importanza del tema e costituisce per me uno stimolo fondamentale per continuare sulla strada intrapresa.
Ieri e oggi a Strasburgo questa linea del Governo ha riscosso, come ho anticipato in apertura, ampia condivisione, sia da parte del Consiglio d’Europa che della Corte europea dei diritti dell’uomo, che hanno riconosciuto la serietà dell’impegno del nostro Paese, delle misure già adottate e di quelle programmate.
Quando pervengono al sistema penitenziario le comunicazioni alle quali ho fatto cenno, nessuno si chiede se dietro di esse ci sia un nome importante o influente: è importante più di tutto e prima di ogni altra cosa accertare la fondatezza della segnalazione. Questo è avvenuto anche nella vicenda della signora Ligresti.
Le sue condizioni critiche, come in seguito ho appreso, erano infatti note al Dipartimento prima ancora che io ne facessi cenno ai vice capi dipartimento, e il carcere di Vercelli aveva già autonomamente approntato tutte le misure finalizzate ad assicurare la salute e l’incolumità della detenuta. Corrisponde, dunque, a una distorta visione dei fatti dire che la vicenda di Giulia Ligresti abbia avuto un trattamento differenziato e privilegiato, diverso da quello che sarebbe naturalmente spettato ad un qualunque altro detenuto.
Sento però l’esigenza di tornare su un tema già accennato, che è tra i più delicati perché offende più di ogni altro il mio onore, adombrando opacità di comportamenti o, peggio, vere e proprie distorsioni e deviazioni dai canoni di imparzialità e di correttezza istituzionale. In altre parole, sarei venuta meno ai miei doveri di ufficio.
Non è mio costume difendermi utilizzando le parole di altri, ma non posso non ricordare – ancora una volta – le ripetute affermazioni del procuratore di Torino, Giancarlo Caselli, secondo il quale, testualmente, «tutte le risultanze del fascicolo (del procedimento relativo a Giulia Ligresti) testimoniano in modo univoco e incontrovertibile che la concessione degli arresti domiciliari è avvenuta esclusivamente in base alla convergenza di decisive circostanze obiettive: le condizioni di salute verificate con consulenza medico-legale e l’intervenuta richiesta di patteggiamento da parte dell’imputata, risalente al 2 agosto e perciò di molto antecedente le conversazioni telefoniche oggetto delle notizie. Ne deriva» – cito sempre le parole del procuratore Caselli – «che sarebbe arbitraria e del tutto destituita di fondamento ogni illazione che ricolleghi la concessione degli arresti domiciliari a circostanze esterne di qualunque natura». A riprova di questo intendo ribadire che il medico dell’istituto di Vercelli, già il 12 agosto, segnalò al direttore la gravità delle condizioni di salute di Giulia Ligresti. Il direttore, in data 14 agosto, trasmise la relazione all’autorità giudiziaria di Torino. Le mie conversazioni con i due vice capi del DAP sono del 19 agosto, cioè di cinque giorni successive rispetto all’iniziativa intrapresa dai medici del carcere di Vercelli.
Questa semplice scansione temporale degli eventi dimostra come nessun collegamento, a differenza di quanto da taluni ipotizzato, vi possa essere tra il mio comportamento e l’iniziativa assunta dal carcere. Peraltro, la mia comunicazione con i vertici del DAP si è limitata esclusivamente alla trasmissione di un’informazione relativa alle condizioni critiche di salute di una detenuta che si trovava in custodia cautelare.
Non voglio eludere, certamente, un tema su cui sento di dover dare delle spiegazioni, ed è precisamente quello dei miei rapporti con la famiglia Ligresti, che, secondo alcune illazioni, sarebbero stati la causa vera del mio intervento.
Sono stata e sono amica di Antonino Ligresti, conoscenza maturata durante la mia lunga permanenza a Milano, per ragioni del tutto estranee alla mia attività professionale. In nessun modo la mia carriera è stata mai influenzata né da questi né da altri rapporti personali.
È questa la ragione per la quale voglio oggi assicurare che sono e desidero essere considerata come una persona libera, che non ha contratto debiti di riconoscenza a cui non sarebbe in condizione di sottrarsi.
Anche mio figlio, Piergiorgio Peluso, è stato indebitamente trascinato in questa vicenda e, per quanto sia sgradevole toccare un argomento su cui non posso non sentirmi emotivamente coinvolta, avverto anche qui di dover dare un chiarimento ineludibile. Il suo incarico nell’ambito della società Fonsai è frutto esclusivamente della pregressa esperienza nel mondo bancario e finanziario. Tengo anche a sottolineare che mio figlio riceve l’offerta di lavoro da Fonsai il 25 maggio 2011 e, nel successivo mese di giugno, inizia il suo rapporto di lavoro con la stessa società. In quello stesso periodo avevo già cessato le funzioni di commissario straordinario presso il Comune di Bologna ed ero una tranquilla signora in pensione, che mai avrebbe pensato di poter diventare Ministro dell’interno nel successivo novembre. Quanto alla valutazione del suo lavoro in Fonsai, rinvio alla lettura degli atti del processo in corso presso l’autorità giudiziaria di Torino.
Vengo ora alla famosa telefonata del 17 luglio. Con quella telefonata alla signora Gabriella Fragni intendevo manifestare un sentimento di umana vicinanza a una persona che si era venuta a trovare in una situazione di eccezionale impatto emotivo per l’arresto di tutti i familiari. Le espressioni da me usate in quel contesto erano, dunque, finalizzate a creare empatia con una persona profondamente prostrata per l’accaduto. Mi rendo conto che alcune espressioni usate in quella telefonata possano aver ingenerato dei dubbi sul senso delle mie parole. Mi dispiace che sia stato così e mi rammarico di aver fatto prevalere i sentimenti sul doveroso distacco che il ruolo di Ministro avrebbe forse dovuto imporre, ma l’unico modo che ho per dimostrare che il senso di quelle parole fu realmente quello che vi ho ora descritto è invitarvi ad analizzare il mio comportamento successivo a quella telefonata. Dopo quel contatto non ho assunto e non avrei assunto alcuna mia iniziativa se non fossi stata raggiunta dalle informazioni, con le modalità che ho già richiamato, dell’aggravarsi delle condizioni di salute di Giulia Ligresti. Posso serenamente affermare di aver agito, sia pure d’istinto, senza mai derogare dai miei doveri di Ministro e senza che la conoscenza di alcuni componenti della famiglia Ligresti condizionasse il mio operato. Ho agito esattamente nello stesso modo in cui mi sono comportata in molti altri casi. Non ho bisogno di farne l’elenco, sono tanti ed anonimi, più di cento solo negli ultimi mesi; sono tutti agli atti degli uffici a disposizione per chi li volesse visionare.
Infine, anche oggi sulla stampa sono apparse notizie relative ad ulteriori, presunti, favoritismi per il trasferimento della detenuta Jonella Ligresti. Preciso che, dalle verifiche condotte presso il DAP, emerge con chiarezza l’assoluta linearità delle procedure seguite, ivi compreso il nulla osta dell’autorità giudiziaria competente. Mai – dico mai – sono intervenuta su questo caso.
Sono grata a questa Aula di avermi concesso l’opportunità di poter finalmente offrire una versione completa dell’intera vicenda. Da questi miei chiarimenti spero che emerga l’uniformità e la coerenza della mia condotta. Non ho artificiosamente distinto, né ho tentato di farlo, il Ministro dalla persona. Sono stata me stessa in ogni momento.
Non posso nascondere di essere addolorata dall’uso che si è fatto di questa storia e di essere sinceramente rammaricata per il clamore che ne è scaturito, determinando, anche per un fattore emotivo, una situazione della quale mai avrei voluto essere causa.
Considero la fiducia del Parlamento decisiva per la prosecuzione del mio incarico di Ministro. Il Governo ha, infatti, in cantiere, diversi ed importanti provvedimenti sul fronte della giustizia, tutti molto delicati e complessi, che richiedono una forte intesa tra l’Esecutivo e il Parlamento per essere portati a termine.
Non voglio essere di intralcio a questo percorso e, pertanto, non esiterò a fare un passo indietro se dal confronto di oggi dovessi avvertire che è venuta meno o si è incrinata la stima istituzionale su cui ritengo che debbano poggiarsi le basi di ogni mandato ministeriale.