«Un giornalismo con le mani in tasca»

Graphic journalism

Guy Delisle e il graphic journalism

Il graphic journalism, o comics journalism, è una sintesi tra il lavoro del giornalista e quello del disegnatore. Non è esattamente una di quelle cose che si inventa, il graphic journalism è una cosa che si scopre, come tutto ciò che è frutto di un sincretismo: si prendono due elementi della realtà che già esistono, li si fa reagire insieme e ci si ritrova per le mani un elemento che prima non c’era.

Personalmente, se mi chiedessero di indicare una data decisiva per le sorti del giornalismo a fumetti, sceglierei un giorno del 1988: il giorno in cui il maltese Joe Sacco asseconda la sua passione per i viaggi, lascia gli Stati Uniti – dove lavorava per The Comic Journal – e inizia a girare tra l’Europa e il Medioriente. Tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992, in particolare, resta per circa due mesi in Palestina, un’esperienza decisiva per quel che accadrà dopo. È proprio a partire da quell’esperienza in Palestina, infatti, che Joe Sacco, che per formazione è un giornalista e per passione un disegnatore, produce nove storie a fumetti che, qualche anno dopo, nel 2001, vengono raccolte per la prima volta nel volume Palestine, forse la prima, e sicuramente una delle migliori prove di graphic journalism di sempre.

Siamo all’inizio degli anni Duemila, è il momento per introdurre, in questo sintetico e parziale abbozzo di storia del graphic journalism (a proposito, qui c’è una storia a fumetti del giornalismo a fumetti)il disegnatore canadese Guy Delisle, che proprio nel 2000 pubblica la prima edizione di Shenzen. La pubblica per la casa editrice francese L’Association, fondata, tra gli altri, da disegnatori del calibro di Jean-Christophe Menu, David B. e Lewis Trondheim, e la cosa funziona. Del reportage di Delisle, quel che il pubblico apprezza molto, oltre alla semplicità e alla freschezza del tratto, è il punto di vista, un po’ ironico e un po’ naif. Un punto di vista che, paradossalmente, rappresenta il dettaglio che potrebbe mettere in discussione l’appartenenza di Delisle al mondo del giornalismo a fumetti.

Nei dieci anni successivi alla pubblicazione di Shenzen, Guy Delisle pubblica altri tre libri del genere: Pyongyang, Cronache birmane e Cronache di Gerusalemme. Il punto di vista rimane lo stesso, e il pubblico continua ad apprezzare. Grazie a quel tono ironico, a quello sgaurdo naif e – non da ultimo – alla sua presenza direttamente in scena come personaggio, il lettore viene quasi accompagnato per mano per le strade delle città in cui si muove l’autore. Ed è proprio questa familiarità, questa intimità tra autore e lettore l’elemento che conquista. Un’intimità che manca normalmente in un reportage. Sì, perché Delisle non è un reporter. Delisle non va nei paesi di cui poi racconta per mandato di un giornale, di una rivista o di qualsivoglia contenitore di informazione. Delisle si sposta per lavoro, per un altro lavoro, o per motivi familiari, a seguire sua moglie, funzionaria di MSF.

Da poco più di un mese Delisle ha pubblicato un nuovo libro in Italia, molto diverso dai tre di cui vi ho appena parlato. Si chiama Diario di un cattivo papà, l’ha pubblicato Rizzoli Lizard a settembre ed è stato presentato dall’autore durante l’ultima edizione, appena terminata, del Lucca Comics and Games. E proprio a Lucca ci siamo incontrati, tra le pile di fumetti dello stand di Rizzoli Lizard, 15 minuti rubati tra una coda per per le dediche e l’altra. Ci siamo seduti su due sedie un po’ defilate e abbiamo fatto due chiacchiere. Quello che segue è ciò che è ne venuto fuori. L’unica cosa che è abbiamo tagliato sono state le presentazioni iniziali e un’impacciata richiesta finale per farsi fare un disegnino dedicato a Linkiesta (lo vedrete, se arriverete in fondo).

L’intervista

Il tuo sguardo ironico sul mondo che descrivi nei tuoi reportage è spesso legato a una presa di distanza e a una sorta di ingenuità. È un gesto istintivo o è il frutto di una ricerca e di una scelta?
No, lo sguardo non credo sia qualcosa che si può calcolare, fa parte della personalità dell’autore. Quando mi dicono che sono ironico, o naif, penso che in realtà non ho l’impressione di esserlo. Mentre disegno ho semplicemente l’impressione di essere me stesso. Non mi sono mai trovato nella situazione di impormi un tono, mi viene così. L’umorismo, poi, aiuta a sopportare situazioni complesse, difficili, ma anche drammatiche. Non è il mio caso personale, certo, ma è quello di molte persone che ho incontrato nei miei viaggi. Penso alla Corea del Nord, o alla Palestina, dove ho incontrato persone che vivono realtà spesso difficili, e che nonostante ciò hanno moltissimo senso dell’umorismo. Io ne faccio uso perché è solo così che riesco a raccontare ciò che vedo. Spesso poi unisco al tono ironico una finalità in qualche modo pedagogica. Sono convinto che sia possibile leggere un albo a fumetti, anche un reportage, divertendosi e contemporaneamente imparando qualcosa.

Si può ridere di tutto?
In realtà non credo di essermi mai posto la questione, ma penso di sì. In ogni caso io ho l’impressione di essere molto rispettoso, e anche se rido di tutto, non lo faccio mai in modo crudele, al contrario, lo faccio con leggerezza e rispetto. Credo sia molto importante il rispetto della sensibilità di ognuno e fare attenzione a non offenderla. Il mio obiettivo non è mai offendere qualcuno, e la cosa mi viene naturale, credo sia una questione di educazione.

La leggerezza è un’arma in più per parlare di realtà politiche e sociali complesse?
Io racconto con leggerezza quel che vedo, parlo della vita quotidiana. Non faccio esattamente reportage sulle situazioni tese dei paesi che visito, e non visito paesi in guerra. Al contrario, visito sempre paesi la cui situazione politica è piuttosto calma, anche se complicata. Io racconto, per esempio, quel che vedo quando passeggio per il mio quartiere a Gerusalemme, e questo mi basta, perché mi piace partire dai piccoli dettagli che noto in giro, dalla vita quotidiana mia e della gente che incontro per strada. È questa la mia leggerezza, una specie di giornalismo con le mani in tasca, in giro per le strade, per il quartiere, per la città in cui di volta in volta mi trovo.

Come prende forma un tuo libro?
Quando sono andato a Gerusalemme non sono partito dicendo «Bene, ora ci faccio un libro». Ho semplicemente iniziato a prendere appunti e a disegnare schizzi, come fanno molti viaggiatori, per ricordarmi di quel che vedevo e delle mie impressioni a caldo. Una volta tornato a casa rileggo i miei appunti, valuto se vale la pena dedicarmi a raccontare la mia esperienza in un libro. Ogni tanto mi dico di sì, ogni tanto di no. 
Poi, quando mi ci metto, lo faccio da casa, rileggo per l’ennesima volta i miei appunti, riguardo gli schizzi, mi ricordo delle sensazioni, dei dettagli, e a quel punto mi metto a ridisegnare. 

Come è stata la tua prima esperienza con il reportage a fumetti?
La prima volta fu a Shenzen, ero in Cina. Realizzai una storia breve per una rivista, non un libro. Ma mi sono divertito a farla, mi è piaciuto mettere anche me stesso in pagina e raccontare quel che vedevo in giro. Poi ne feci un’altra, e alla gente piacque, così mi sono detto che poteva venirne fuori un libro e ho iniziato a lavorarci.

E qual è il tuo metodo di lavoro?
Di solito faccio una tavola al giorno. Il mattino scrivo i testi, preparo la tavola, poi al pomeriggi la disegno. E vado avanti così, facendo più o meno cinque pagine alla settimana. O
rmai ho fatto diversi albi e ho imparato a sapere più o meno dove voglio arrivare. La mattina devo lavorare sul testo, so che devo scrivere quel che voglio che appaia in pagina e che una tavola non può contenerne molto, perché credo che una buona tavola debba essere, per così dire, areata. Senza metodo non riuscirei a fare una pagina al giorno, che non è poco…

A proposito del tuo ruolo: perché hai deciso di mettere te stesso dentro il fumetto?
In realtà non è una cosa originale, non sono certo il primo ad averlo fatto. Già lo facevano attorno a me, in Francia, autori come Lewis Trondheim, David B. o Jean Cristoph Menu, per esempio, ed eravamo insieme a Lapin. Vedendo quel che facevano mi è venuta voglia di provare anch’io l’approccio autobiografico. E quindi, tornando dalla Cina, dopo aver riguardato appunti e schizzi mi sono detto che potevo cominicare da lì, dal raccontare il mio viaggio e mettermici dentro. L’avevpo visto fare proprio da Jean Cristoph Menu, che aveva raccontato il suo viaggio in Norvegia. Mi era parso molto interessante e ho voluto provarci.

Che ruolo avrà il fumetto nel giornalismo del futuro?
Se lo avrà non lo so. So però che qualcuno ci sta già provando, ci sono delle realtà che già li integrano, penso per esempio a Revue21 in Francia. E mi pare una cosa decisamente interessante. C’è anche un altro bell’esempio che si chiama La Revue Dessinée e che si basa proprio sul fumetto per fare informazione. Poi, i
o in realtà non mi sento esattamente un giornalista. Certo posso fare un reportage, per esempio su questi giorni di Lucca, ma non ho molto materiale da usare oltre alle mie impressioni personali. Per quanto riguarda il ruolo del fumetto nel futuro del giornalismo, io posso solo ipotizzarlo: credo che andrà a mischiare, un po’ come fa Revue21. La strada è aperta, e i giornali tradizionali, per così dire “seriosi”, potrebbero usare il fumetto per arricchire le proprie proposte con qualcosa che non è testo semplice e non è foto. Il fumetto, tra l’altro, offre molti vantaggii: prima di tutto mi sembra che dia più “calore” al racconto e poi – e non è affatto un dettaglio – permette di raccontare delle realtà inaccessibili se hai una macchina fotografica. Per quanto riguarda la mia personale esperienza, per esempio, in Corea del Nord essere un disegnatore mi ha reso tutto molto più semplice, con una macchina fotografica sarebbe stato impossibile. In generale è un territorio che offre molte prospettive. Anche in molte riviste umoristiche o per ragazzi si usa il fumetto, ma non si pubblicano reportage. Perl si potrebbe fare, credo che funzionerebbe molto bene. Potremmo pensare a dei reportage su argomenti che interessano i bambini e i ragazzi e sono sicuro che funzionerebbe molto bene. Anzi, ora che ci penso è proprio una buona idea questa!

Raccontare realtà difficili a fumetti rende le cose più facili?
Non credo che sia più facile parlare dei problemi sotto forma di fumetto, credo però che si riesca a raggiungere un pubblico diverso e nuovo. Per esempio, ci sono ragazzi che hanno letto Cronache da Gerusalemme (Rizzoli Lizard) molto giovani, a 16, 15 addirittura 14 anni e dopo averlo letto si sono interessati alla viceda. Sono quasi sicuro che non l’avrebbero letto se fosse stato un saggio o un reportage classico sul conflitto israelopalestinese. Con il fumetto si può arrivare a un pubblico più giovane, che conosce meno questi argomenti, ragazzi che poi, una volta interessati, magari vanno anche a cercarsi altro, dei giornali, o dei saggi.

E per quanto riguarda il web?
In Francia si sta provando a fare molte cose su web, tutti provano a fare qualcosa, ciascuno per quel che gli compete, si provano un sacco di cose ma non è così facile. La Revue Dessiné, per esempio, era partita come rivista esclusivamente per tablet, e ora è arrivata anche su carta. Sono riusciti a fare entrambe le cose. Trovare una soluzione per lavorare esclusivamente su internet credo che sia molto complicato per chi lavora con il fumetto, anche perché questo genere di lavori funzionano dannatamente bene su carta. Il web resta uno strumento importante. N
el mio caso particolare, almeno, il web mi è stato molto utile. Penso al mio blog e alla mia esperienza con Diario del cattivo papà (Rizzoli Lizard), che all’inizio è nato proprio su web, come divertimento personale che ho pubblicato sul mio blog. Ho iniziato con una vignetta, poi ne ho fatta una seconda, ho visto che la cosa piaceva e ho pensato di farci un libro.

Un’ultima domanda, pensi spesso al lettore quando lavori alle tue storie?
Sì, assolutamente, quando disegno ho veramente l’impressione di avere il lettore al mio fianco, di camminare con lui. E ogni tanto è come se gli dicessi «Quel tipo è interessante, devo presentartelo», oppure «C’è un posto a Gerusalemme che non è molto conosciuto, quasi quasi ti ci porto». Ogni volta che mi metto a lavorare su un libro ho l’impressione di rivivere con il lettore l’anno che mi sono lasciato alle spalle. È un rapporto importante, che si è creato con Shenzen, e ormai è diventato una sorta di complicità, e funziona molto bene. Tanto che ora, se andassi in qualsiasi parte del mondo, credo che il lettore mi seguirebbe volentieri, che continuerebbe a seguirmi lungo il cammino. Ed è una complicità che mi piace molto. Mi piace sia da lettore, nei libri e nei fumetti che leggo, sia da autore.

Posso chiederti un disegnino per Linkiesta?
Certo… 

“Censura a gogò”: un estratto da Cronache Birmane

X