L’Ucraina sembra aver dunque sterzato verso la Russia, abbandonando il cammino dell’integrazione europea. Anche se gli equilibri a Kiev cambieranno, più o meno rapidamente, più o meno radicalmente, e certe decisioni potranno essere riviste, è comunque certo che i rapporti con Mosca saranno comunque imprescindibili. Così è stato nel passato lontano e recente, sotto la presidenza di Leonid Kuchma e di Victor Yushchenko. Ora sotto Victor Yanukovich le cose non sono cambiate. Se dal 2015 (o forse prima, dovessero essere indette elezioni anticipate) ci sarà un altro inquilino in via Bankova, anche questo dovrà fare i conti con quello del Cremlino.
Vladimir Putin, presidente russo sino al 2018, ha iniziato da qualche anno a occuparsi più da vicino di quello che succede nelle repubbliche ex sovietiche. Durante il primo e secondo mandato (2000-2008) aveva dovuto incassare duri colpi dal punto di vista geopolitico con le cosiddette rivoluzioni colorate in Georgia (2003), Ucraina (2004) e Kirghizistan (2005), dove regimi filorussi erano stati sostituiti con altrettanti filoccidentali. Ma dal 2008 ha cambiato strategia.
La linea rossa tracciata in Georgia dopo il breve conflitto che ha condotto all’indipendenza delle repubbliche separatiste di Abcasia e Ossezia del Sud (oggi riconosciute solo da Mosca e da un pugno di staterelli) ha segnato il punto di partenza verso un progetto di riallineamento di molte ex repubbliche dell’Urss, dal Caucaso all’Asia centrale, passando ovviamente per l’Europa orientale. Di fronte ai programmi di integrazione europei e americani avviati per incastonare pezzi piccoli e grandi del vecchio impero sovietico nelle strutture occidentali, la Russia ha rilanciato vecchie e nuove idee. E così, per fare fronte al Partenariato orientale europeo e all’agenda espansiva della Nato, il Cremlino ha elaborato le proprie piattaforme.
Carta di Laura Canali, pubblicata da Limes nel 2007
Due sono state sostanzialmente le direttrici per contrastare la crescente influenza occidentale nello spazio ex Urss. La prima è stata ed è condotta a fianco della Cina: attraverso la Sco, l’Organizzazione per la cooperazione di Shangai (il nome deriva dal luogo della fondazione, avvenuta nel 1996), Mosca e Pechino si sono date l’obbiettivo di coagulare i paesi dell’Asia centrale in funzione non solo di una collaborazione economica, ma anche politica e militare (guardando al contenimento delle istanze separatiste e del radicalismo islamico). Alla Sco appartengono Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan, altri potenze regionali come l’India e il Pakistan hanno lo status di osservatori.
Mentre l’Organizzazione di Shangai è nata sotto la presidenza di Boris Eltsin, il suo successore Vladimir Putin ha spinto sull’acceleratore lungo la seconda direttrice, quella che ha coinvolto in primo luogo Bielorussia e Kazakistan nella costituzione di un’Unione doganale postsovietica, battezzata nel 2010. Il collante in questo caso è quello economico e commerciale. Lo scorso anno il Cremlino ha poi annunciato la fondazione dell’Unione Euroasiatica (Eua), che prenderà formalmente il via all’inizio del 2015. Il modello è quello dell’Unione Europea, che, ritornando indietro di qualche decennio, ha avviato il suo corso di integrazione partendo dai fattori economici (basta ricordare la Ceca, Comunità europea del carbone e dell’acciaio, la Cee, Comunità economica europea). La Russia con l’Eua vuole fare lo stesso, usando come collante il gas.
In realtà il progetto putiniano più che essere di integrazione è di re-integrazione, dato che coinvolge stati che sino a vent’anni fa facevano parte di un’unica nazione. Teoricamente, quindi, visto che la base storica, politica ed economica di interdipendenza è ampia, le difficoltà di riunire sotto un unico ombrello diversi Paesi dovrebbero essere inferiori a quelle incontrate nel caso dell’Unione Europea. Se non fosse che il ruolo egemone di Mosca mette sulla difensiva gli altri partner (a guardare bene un po’ quello che fa la Germania nella Ue), come nel caso dell’Ucraina.
A Kiev, ma anche in altre capitali che il Cremlino vorrebbe fagocitare, da Chisinau a Tbilisi, le resistenze passate e presenti sono molto forti. Per ora hanno assicurato la loro entrata accanto alla Russia nell’Unione Euroasiatica la Bielorussia, il Kazakistan e tre repubbliche che non fanno ancora parte dell’Unione doganale, ossia Armenia, Kirghizistan e Tagikistan. A ben vedere, escluso il Kazakistan ricco di gas e petrolio, una banda di poveracci. L’anello fondamentale, non tanto per le sue ricchezze, quando per il fatto di essere un ampio mercato già interconnesso con gli stati dell’ex Urss, è l’Ucraina, senza la quale il sogno di Putin sarebbe realizzato a metà. Questo spiega le pressioni russe per evitare che Kiev firmasse l’Accordo di associazione con l’Ue a Vilnius, che avrebbe precluso l’ingresso nell’Unione euroasiatica. La partita, però, non è ancora definitivamente conclusa.