I miti infranti nel rogo di Prato

La tragedia al Macrolotto

Guardare le immagini di Prato di questi giorni, dopo il rogo maledetto che ha spento la vita di sette operai–schiavi cinesi, produce un senso forte di ipocrisia. Chi ha frequentato la cittadina toscana in passato, chi c’è stato per lavoro giornalistico come mi è capitato, sa bene che un disastro del genere  sarebbe potuto succedere in qualsiasi momento. Nonostante l’impenetrabilità della comunità cinese tutti sapevano in città. Tutti sapevano che quel modello vive(va) sulle spalle di una quota non indifferente di abusi, illegalità, violazioni e connivenze. Solo che a molti ha fatto comodo chiudere gli occhi sullo schiavismo nel cortile di casa, spesso in capannoni svenduti o dismessi dagli stessi imprenditori italiani in ritirata.

Basta vedere cos’è avvenuto in via Pistoiese: i tessitori pratesi da queste parti non ci sono più da un pezzo. In vent’anni Chinatown si è presa tutto il vialone fino ad arrivare alle spalle di piazza del Comune. Ti guardi intorno e vedi solo tavole calde, ristoranti, market, bar, centri massaggi, parrucchieri, oreficerie, foto video e money transfer. Non c’è più nulla di italiano, nemmeno mezza scritta sui muri. Te lo raccontavano tutti che in questi capannoni riusati i clandestini lavorano e dormono dietro le macchine per cucire, in cellette improvvisate. Dov’è la notizia? Anche l’indotto del territorio in questi anni è stato generoso, molta crisi del mercato interno è stata tamponata dai soldi cinesi. Le concessionarie auto che vendono i Suv ai ricchi imprenditori del dragone; le agenzie immobiliari che fanno/facevano affari; i ristoranti pieni; le boutique e i mall delle griffe del made in Italy fino al consumatore che può comprarsi per pochi euro jeans, magliette e camicette del pronto moda. 

Se c’è una cosa che il tragico rogo può insegnare, andando oltre l’ipocrisia, è sfatare due grandi miti di questi anni: la crisi del distretto del tessile di Prato causata dall’invasione illegale cinese; la comunità cinese come monolite inscalfibile e immutabile

Sul primo punto val la pena ripercorrere la genesi dei due distretti paralleli. Produttori di tessuto italiani contro confezionisti dagli occhi a mandorla. Qui riporto quel che scrissi su La Stampa un paio di anni fa. «I cinesi a Prato sbarcano 20 anni fa in un settore maglieria che sta morendo per gli alti costi di manodopera. Il nostro capitalismo porta fuori Italia le produzioni (comincia l’epopea di Timisoara, Italia), così sono loro a tenere in vita il comparto prima di buttarsi nel ricco business del Pronto moda, all’inizio dei Novanta. Sarà l’intuizione giusta: i mercati mondiali chiedono il prodotto finito. A Prato ci arrivano da San Donnino, periferia di Firenze, dove assemblano borse e pelletteria. Troppo care le donne toscane nel taglia e cuci a domicilio: i maglifici, in quell’embrione di globalizzazione, sono costretti a far lavorare manodopera cinese. È il primo gradino. Poi risaliranno tutta la filiera fino alle confezioni. Nel frattempo, a metà anni ’80 Prato attraversa una crisi profonda: in un anno vanno in fumo 15mila posti di lavoro. I cambiamenti negli stili di vita, il passaggio dal cappotto alla giacca a vento, spiazzano il settore laniero. L’avvento dello sport system impone un riposizionamento produttivo: il distretto si espande all’intera gamma delle fibre tessili: dalla filatura alla nobilitazione dei tessuti. Il sistema riparte alla grande». 

Esplode il benessere come non si era mai visto. Tutti diventano imprenditori, ramo filatura. Mentre gli operai pratesi sono i più ricchi d’Italia. Le due manifatture, italiana e cinese, tessuti e confezioni, corrono insomma parallele per anni, finché la congiuntura tira. L’anno spartiacque è il 2001. Le torri gemelle, l’ingresso della Cina nel Wto e poi, nel 2003, la fine dell’accordo multifibre che ammazza le produzioni europee. La crisi del tessile pratese comincia allora e si trascina fino ad oggi. Le aziende che quasi si dimezzano, l’export pure. I 10mila posti di lavoro bruciati e Prato che precipita nella qualità della vita delle province italiane. È in questo frangente che attecchisce la grande crisi. Da un lato una comunità cinese paludata con la tendenza a vivere di regole impenetrabili, dall’altro l’emorragia di un distretto ormai lontano dai fasti che ne fecero uno dei miti fondativi della Terza Italia. Ma un conto sono i cinesi di Prato, un altro i cinesi di Cina. La difficoltà del nostro tessile non è dovuta alla presenza cinese in città. Confondere i piani serve solo da alibi per coprire un sistema industriale spesso incapace di tenere il passo dell’innovazione. Dal distretto non sono mai emersi gli emuli di Benetton, Tod’s o Zegna, ossia brand capaci di imporsi sui mercati con propri prodotti. Un gran lavoro per il mondo della moda ma poco distintivo e riconosciuto. Questo è un punto importante, troppo spesso nascosto sotto l’alibi dell’invasione cinese.

Sul secondo punto (la comunità cinese non è più un monolite) vorrei raccontare una breve storia. Wang Li Ping, 55 anni, da 23 in Italia, proprietario di un’azienda di filati, è vicepresidente della Cna di Prato dallo scorso anno. È la prima volta di un imprenditore cinese. Piccola cosa, si dirà. Ma la scelta degli artigiani pratesi non è uno spot etnico. «Serve ad avviare un percorso di emersione», come racconta Wang. Ovviamente le 4mila imprese cinesi non si salveranno tutte, però si offre loro un percorso di regolarizzazione. Solo così capiranno che pagare le tasse e rispettare la legalità è il modo migliore per valorizzare il talento imprenditoriale. Qualche piccolo risultato, certo nascosto da tragedie come quelle di domenica e illegalità persistenti, comincia a vedersi. Alcuni imprenditori iniziano a comprare il filato dai pratesi, altri chiedono di partecipare al piano di riqualificazione al Macrolotto, il quartier generale dei Pronto moda dove spuntano strutture più nuove e funzionali.

E ancora. Claudio Bettazzi, attuale presidente della Cna di Prato, è titolare di un laboratorio per filati da guglieria e lavora gomito a gomito con Wang. Sua moglie è impiegata proprio in un’azienda cinese. Anche suo figlio ha amici cinesi così come alle feste di paese, intorno a Prato, spuntano le prime coppie miste. Certo preoccupano gli abusi e la criminalità interna alla comunità, ma c’è un pezzo di seconda generazione che si sta integrando. Nel frattempo cominciano a intuirsi i vantaggi commerciali di una presenza così radicata. A Prato arrivano parenti cinesi facoltosi che comprano agli Outlet, gustano il buon vino, alloggiano negli alberghi della zona. Nessuno fa il francescano ma solo così si sviluppano occasioni di business. La stessa veglia funebre dell’altra sera, con mille cinesi che hanno reso omaggio ai loro caduti, è un fatto nuovo e sintomatico che va consolidato. È come fossero usciti all’improvviso dall’ombra dei laboratori, si sono fatti visibili alla comunità locale, dicendo di voler rispettare le leggi italiane. Siamo solo all’inizio di un lungo percorso, ma se si riusciranno a fare passi avanti sulla trasparenza, le regole, l’integrazione e le vere ragioni di una crisi di sistema del nostro tessile, senza accampare facili scuse, forse il rogo non sarà successo invano.

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