Mentre Silvio Berlusconi continua a ricordare che in Italia ci sono stati «quattro colpi stato», tra i leader dei Forconi in questi giorni nelle piazze, tra nostalgici del fascismo, esponenti della criminalità organizzata, autotrasportatori, vari imprenditori, sindacalisti e ultras, c’è chi in passato ha già ricevuto l’appellativo di «golpista». Stiamo parlando di Antonio Pappalardo, fondatore del Cocer, ex colonnello e generale dei Carabinieri che nella primavera del 2000 divise la politica per un documento in cui ipotizzava di «rifondare lo Stato». Pappalardo lo conoscono tutti nel Palazzo, a destra e a sinistra, dall’ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi che lo ebbe come sottosegretario al Tesoro nel ’93, a Berlusconi che all’inizio del nuovo millennio lo difese, fino a Massimo D’Alema, che ne chiese le dimissioni. Reso celebre da Tangentopoli, quando da militare dell’Arma si batteva per convincere i cittadini a condannare la corruzione, Pappalardo è sempre stato un carabiniere con il fascino del potere e della politica.
L’ex Capo di Stato Francesco Cossiga, quando venne fuori il documento per sovvertire lo stato e dove si ipotizzava un’alleanza tra carabinieri e popolo contro il parlamento (vedi schema sotto ndr), disse che Pappalardo era andato «oltre le righe». Eppure, a guardar bene, a tredici anni di distanza, il progetto politico di Pappalardo sembra realizzarsi, in particolare dopo alcune sporadiche dimostrazioni di solidarietà espresse dalle forze dell’ordine in piazza (il togliersi il casco ndr), nonostante il ministro dell’Interno Angelino Alfano le abbia smentite, ma tutte raccolte su siti vicini ai sindacati di polizia, carabinieri e guardia di finanza. Lo stesso Pappalardo auspica la rivoluzione in Italia, come si legge in una nota dell’11 dicembre su Sicurezza e Legalità: «La vera Rivoluzione l’hanno fatta i Carabinieri, Poliziotti e Finanzieri, che si sono tolti il casco e, in barba ai loro vertici, venduti a questo infame regime politico, hanno dato prova di avere gli attributi».
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Lo schema di Antonio Pappalardo
Sul sito del 9 dicembre c’è pure il banner del Sindacato di Polizia che ricorda la solidarietà espressa ai Forconi nelle manifestazioni dei giorni scorsi. Ma oltre alle forze dell’ordine tra i manifestanti ci sono diversi esponenti di destra e persino militari. Un mix esplosivo controbilanciato da forze di sinistra come Askatasuna a Torino. Dietro quello slogan “Tutti a casa” è innegabile, insomma, che ci sia un’organizzazione di persone e di strutture non certo iniziato ieri. Tanto capillare è la ramificazione della protesta quanto poco sembra spontanea la mobilitazione. Una mobilitazione che sta raggiungendo l’apice in questi giorni, e che ha visto monopolizzare la comunicazione a nome dei partecipanti da parte dei noti coordinatori del “coordinamento nazionale 9 dicembre 2013”.
Non è un mistero che questa protesta abbia attirato la gola della criminalità organizzata, che può inserirsi, dicono i ben informati, anche in un quadro partito tempo fa «anche dietro lo spunto di parte dei servizi segreti, a cui, vista la risposta della gente nelle ultime settimane, sembra essere sfuggita di mano la situazione». Arturo Esposito, direttore dell’Aisi, l’agenzia informazioni e sicurezza interna dei Servizi segreti italiani dice: «Quello dei Forconi è un movimento senza una regia unica e presenta una preoccupante saldatura tra soggetti diversi animati dai sentimenti di contrapposizione nei confronti dello Stato e delle istituzioni”. Un quadro che ricorda in parte i “Sistemi Criminali” analizzati dalla DIA di Palermo all’inizio degli anni ’90, che si snodavano attraverso mafia, massoneria, affari e politica per dividere l’Italia in tre macroregioni. Un contesto quello di allora in cui si puntava a fomentare la rivolta sociale e la pratica stragista per mano delle organizzazioni criminali e mafiose.
Si legge in un passaggio dell’inchiesta riguardante il ruolo di Licio Gelli, venerabile della loggia P2, nell’inchiesta:
D’altronde, l’indirizzo e le finalità dell’attivismo politico di Gelli vennero da lui personalmente esplicitate in un’intervista, rilasciata nel settembre del 1992, nell’ambito della quale egli indicò Bossi come l’unica speranza; espresse il proprio disprezzo per i vertici politici del tempo (“la teppaglia che ci sta rapinando”); auspicò un colpo di stato per eliminare tali vertici; lamentò che non vi erano più veri militari per realizzare tale colpo di stato, del quale – a suo dire – vi sarebbero state pure le condizioni; indicò in Bossi e quindi nella Lega Nord l’unica via di uscita, manifestando la propria adesione allo sciopero fiscale, prodromo della secessione.
E in alcune interviste successive Gelli rilanciò la protesta antipartitica qualificando la classe politica come corrotta e iniqua e ribadendo che tale classe doveva essere eliminata.
La Lega delle Leghe del gruppo gelliano, dunque, non si presentava come movimento antagonistico della Lega del Nord ma, anzi, ne faceva proprio il programma e i contenuti ideologici, presentandosi come l’attore politico in grado di pilotare al Sud il programma di divisione dell’Italia in macroregioni
[…] Ed è ben comprensibile che tale progetto facesse gola anche alle organizzazioni criminali. La frammentazione del paese in stati federali avrebbe consegnato il Sud all’egemonia del sistema criminale, e ciò anche grazie anche alla regionalizzazione del voto e all’introduzione del sistema uninominale che esaltavano le potenzialità di condizionamento delle votazioni da parte delle organizzazioni mafiose e delle lobbies criminali.
La procura della Repubblica di Palermo però nel 2001 archiviò l’inchiesta della DIA, preferendo portare a processo alcuni anni dopo il teorema della cosiddetta “Trattativa” Stato-Mafia. Nell’inchiesta inoltre facevano capolino gli stretti contatti tra la ‘ndrangheta calabrese e l’eversione nera. D’altronde il cuore del clan dei De Stefano, trai i più potenti in Calabria e con diramazioni in tutta Italia, ha sempre battuto a destra.
Quindi sorprendono fino a un certo punto le esternazioni di uno dei leader del Movimento dei Forconi, tra i protagonisti del “coordinamento 9 dicembre”, Mariano Ferro, dello scorso anno «Qui siamo apolitici. Qualche anno fa il nemico numero era la mafia, ora il nemico è lo Stato, che opprime i cittadini» Frase che si è sentita anche nei giorni scorsi tra alcuni manifestanti in piazza, che hanno ribadito «siamo a favore della mafia, quella vera, non la mafia di Stato».
E già nel blocco dei Forconi dello scorso anno la presenza di soggetti legati alla criminalità organizzata era venuta a galla, per esempio nell’arrestodi Carmelo Gagliano, 45 anni, autotrasportatore di Marsala, tra gli organizzatori dei blocchi stradali nella sua provincia e accusato nell’inchiesta della squadra mobile di Caserta di aver prestato i propri mezzi ai fratelli Sfraga, referenti imprenditoriali delle famiglie mafiose Riina e Messina Denaro. Quando l’allora presidente di Confindustria Sicilia Ivan Lo Bello parlò di “infiltrazioni della mafia nella protesta”, apriti cielo.
(Foto Flickr, Mirko Isaia)
D’altronde non è un mistero che a Savona per esempio, uno dei principali protagonisti della protesta in queste ore sia Davide Mannarà, figlio di Lillo Mannarà coinvolto nella sparatoria di un regolamento di conti in pieno centro a Savona una ventina di anni fa, giovane imprenditore dei compro oro, già pizzicato dalle indagini degli inquirenti in passato per droga e riciclaggio. Così come non sono casuali minacce e insulti nei confronti dei negozianti che hanno tenuto aperti i propri esercizi commerciali.
Come riporta anche La Casa della Legalità di Genova: “gruppi di pregiudicati con contiguità agli ambienti della criminalità organizzata che, con piccoli gruppi a loro facenti capo, giravano per minacciare, e in alcuni casi, aggredire chi, come commercianti e non, non si aggregava alla “loro” mobilitazione. Ciò lo si è visto, ad esempio, a Torino, a Imperia come a Ventimiglia, aSavona come altrove”. A Ventimiglia il 12 dicembre scorso è stata anche bloccata la frontiera. E proprio lì si è fatto rivedere anche l’ex sindaco di Ventimiglia Gaetano Scullino, ex sindaco della città ligure sciolta per mafia nell’aprile 2012, provvedimento contro cui lo stesso Scullino ha fatto ricorso al Tar.
Il fantasma, ma neanche poi così invisibile, dell’eversione sembra farsi strada dentro alla protesta, che sta portando in piazza tante persone in buona fede. Persone in buona fede che si stanno ritrovando a condividere la piazza tra chi chiede, dopo le dimissioni del governo “un periodo transitorio in cui lo Stato sarebbe stato guidato da una commissione retta dalle forze dell’ordine, trascorso il quale si procederà a nuove votazioni”, tra una spruzzata di antisemitismo e una minaccia.
(Foto Flickr, Mirko Isaia)
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