Il vecchio Napolitano era un uomo austero e burbero, e anche la sera di Natale non aveva mancato di fare un sonoro rimbrotto al giovane scrivano Letta, per la chiusura dei conti prima delle festività. La legge di stabilità più che un attacco alla diligenza aveva subito la sorte del settimo cavalleria a Little Big Horn. Persino l’attacco della banda delle “slot machine”! “Ma come?”, aveva detto il vecchio Napolitano al giovane scrivano Letta, “ci presentiamo al semestre europeo come quelli che vivono di gioco d’azzardo?” . Il giovane scrivano Letta andò a casa a testa bassa. Il negozio del vecchio Napolitano era malvisto dai vicini e da gran parte della popolazione, perché da anni continuava a esigere pagamenti senza consegnare i prodotti e servizi che prometteva.
Anche il vecchio Napolitano rimase quella sera di Natale nel suo studio, a testa bassa, di fronte alle carte del giovane scrivano Letta. Le carte avevano il torto di essere solo carte, e in fondo il giovane Letta faceva il suo lavoro di scrivano, che altro gli si poteva chiedere o rimproverare? Mentre nella testa gli scorrevano questi pensieri, il collo cominciò a inclinarsi in avanti mentre le palpebre si chiudevano, per poi riaprirsi di scatto e risollevare il collo. La sua testa ondeggiava proprio come in quelle figure di cartapesta che lo rappresentavano sui carri del carnevale di Viareggio. Ben presto decise di arrendersi, e lasciò che il sonno gli piegasse la testa in modo definitivo. L’ultima cosa che pensò fu di non pensare: in fondo era la notte di Natale.
Lo studio si allungò in un salone di una conferenza. In prima fila, Napolitano riconobbe colleghi della vita politica passata, Craxi, Andreotti e Forlani (il CAF), e un relatore, un economista, disse dal palco: “Diamo il nostro benvenuto a Giorgio Napolitano, futuro presidente della Repubblica. Benvenuto, caro Giorgio, nel fantasma dei Natali passati, i Natali della lira”. Napolitano si accomodò in prima fila, e il relatore continuò il suo intervento. Parlava della questione della crescita “drogata” e della relazione tra svalutazione e crescita. Il problema dell’economia italiana al tempo della lira era la spirale tra svalutazione e inflazione. L’impresa italiana, in crisi di competitività già allora, riceveva qualche boccata di ossigeno da svalutazioni periodiche. Ma era un meccanismo che induceva dipendenza, e la dipendenza si sviluppava in tre fasi.
La prima fase, chiamata “effetto J” faceva peggiorare la bilancia commerciale: prima che gli ordini di import-export reagissero, la svalutazione operava sul saldo degli ordini esistenti. La seconda fase consisteva nella reazione degli ordini: le esportazioni aumentavano e le importazioni si riducevano, come desiderato. Intanto cominciavano a aumentare i prezzi, portando il sistema verso la fase tre. In questa fase, l’aumento dei prezzi si trasmetteva dalle materie prime e dai beni importati ai prezzi interni, e ai salari. A questo punto il ciclo era completo, e l’economia aveva perso la spinta competitiva che le era venuta dalla svalutazione. Potevano quindi riprendere le richieste pubbliche di un’altra “sniffata” di svalutazione. Questa era l’economia drogata. E come in tutte le droghe che si rispettino, il bisogno di una nuova dose era sempre più frequente e sempre meno efficace. L’aumento dell’inflazione e dei costi di produzione era così rapido, che quasi annullava l’effetto di paradiso artificiale della svalutazione.
Prese la parola un altro relatore, di bassa statura, capelli biondi, occhiali quadri su una faccia quadra, e pallida. Chiarì il meccanismo di trasmissione dell’inflazione ai salari negli anni della lira. Si chiamava “scala mobile” e prevedeva l’adeguamento dei salari all’inflazione passata. Ci furono due proposte di revisione, disse: una di Mario Monti, che prevedeva di escludere dall’adeguamento la quota di inflazione importata. La mia proposta, invece, fu di adeguare i salari all’inflazione programmata, e non a quella passata. Come dissi ai miei studenti di allora, nessuno di noi due si augurava di vincere. Purtroppo vinsi io, e ricevetti il mio premio. “Professor Tarantelli”, sentii dire, e una canna di un kalashnikov fu l’ultima cosa che vidi di questo mondo. A quel punto, Napolitano ricordò il clima di quegli anni, e non poté fare a meno di commentare. La nostra non è stata un’inflazione da Weimar, ma è stata comunque una guerra, con perdite ed eroi. Perché nessuno ricorda più quella guerra? E perché nessuno ricorda più quella droga? Nessuno ricorda più che una svalutazione non è per sempre, e non è un evento unico. È proprio come una droga. All’inizio chi te la propone ti dice che una volta ti fa bene, e che poi smetti quando vuoi. Poi il tuo organismo si adatta alla droga, e ne hai bisogno sempre di più e sempre più di frequente.
Poi un altro relatore parlò di un altro problema di quegli anni: si chiamava “German dominance”. Napolitano si stupì di sentire parlare di “German dominance” negli anni della lira. E invece a quel problema allora si dedicavano articoli e convegni. Il meccanismo era simile a quello di oggi. I flussi di capitali s spostavano tra dollaro e marco, e lasciavano al margine le altre valute, tra cui la nostra lira. Per questo, quando i capitali attraversavano l’atlantico da ovest a est, il marco si apprezzava col dollaro di più di quanto si apprezzava la lira. Nello stesso modo, quando i capitali rifluivano dall’Europa agli Stati Uniti, il marco si deprezzava col dollaro più di quanto si deprezzava la lira. Quindi, quando il dollaro era forte, il marco si deprezzava con la lira. Poi, quando cominciò la lunga marcia verso la moneta unica, con serpenti monetari e accordi di fluttuazione, questa asimmetria cominciò a scaricarsi sempre di più sui tassi di interesse, più che sui tassi di cambio. E anche su questo, il vecchio Napolitano, non poté fare a meno di ricordare e commentare.
Come mai quando si parla di predominanza della Germania nell’area Euro non ci ricordiamo che il problema della “German dominance” risale a molto prima dell’Euro? Non è che forse l’Euro con la forza della Germania non c’entra niente? E poi chi ci dice che uscire dall’Euro, posto che fosse possibile, non rafforzerebbe la “dominanza della Germania”? Magari uno esce dall’Euro, e dopo un po’ il dollaro si rafforza, e il nuovo marco (o il nuovo Euro del nord, chiamatelo come vi pare) si deprezza con le valute più deboli. Sarebbero veramente bei Natali: importi inflazione e esporti cosa? Esporti meno di prima.
Il corpo del vecchio Napolitano ebbe un sussulto di risveglio, e questo fu sufficiente a cancellare il sogno e ridisegnare le pareti del grande studio. Ma subito lo studio si popolò di figure addossate alle pareti. Dissero in coro: siamo i fantasmi del Natale presente, siamo i Natali dell’Euro. “Perché siete divisi in gruppi?”, chiese Napolitano. Notò che i gruppi erano tre. Parlò uno del primo gruppo. Giorgio guardò il volto di quell’ombra e vide un foglio sgualcito, su cui era scritto: “comunicazione a convegno”. Poi aveva una toga aperta, e pantaloni corti. Disse che era un accademico andato in cattedra a trent’anni, nell’epoca dell’autonomia universitaria. E perché i pantaloni corti? Disse che era perché il barone che l’aveva mandato in cattedra non era ancora in pensione. Allora avrebbe maturato i pantaloni lunghi. Poi disse: non tagliate i fondi alla ricerca. Poi parlò un giudice. Disse che in anni in cui il paese aveva parlato di malafede dei giudici, non si era mai considerato il problema vero: la competenza tecnica di una giustizia che deve giudicare di risparmio, di derivati, di terremoti, di cure mediche.
Perché non possiamo pensare a una magistratura del risparmio, a una magistratura della sanità, a una magistratura dei grandi rischi? Perché non ci ha pensato il legislatore? Perché non ci ha pensato l’università? Perché non ci ha pensato la magistratura stessa? Poi parlò un pensionato baby. Poi parlò un burocrate: ribadì che professori stranieri che vengano invitati a insegnare due settimane in un corso di laurea italiano, per la Bossi-Fini devono richiedere normale permesso di soggiorno. Poi continuò a sciorinare regolamenti, direttive, linee guida.
Poi parlò un tizio grasso che disse di chiamarsi Batman, e Giorgio disse: basta, ho capito. Aveva capito che quello era il gruppo dei protetti. Quelli che non erano stati toccati dall’euro: gli inamovibili, i titolari di diritti acquisiti. I titolari di pensioni d’oro, i titolari di cattedre d’oro, il personale della pubblica amministrazione non amovibile e non trasferibile. L’Euro ci ha dato l’alibi per non iscrivere in palestra il nostro sistema di spesa pubblica. Abbiamo mantenuto un sistema obeso, lento, sedentario e sudato. Pensavamo che l’Europa non ci avrebbe discriminato per questo, e avrebbe accolto il nostro sistema pubblico come una caratteristica antropologica. Invece non abbiamo capito che un sistema così inefficiente non era tanto un problema per l’Europa, quanto per le ombre del secondo gruppo.
Parlò un lavoratore di una piccola impresa licenziato a cinquant’anni, parlò un precario di quarant’anni, parlò un lavoratore autonomo che ancora ardeva nella fiamma che si era appiccato, parlò un sindaco che non aveva più soldi per i servizi sociali del suo paese. Giorgio capì che quello era il gruppo dei non protetti. Per loro l’Euro era una carestia, una malattia. In realtà se solo avessero avuto la metà dei fondi che erano andati ai protetti, e che anche quell’anno il giovane scrivano Letta non era riuscito a intaccare, avrebbero non solo ridotto le loro sofferenze e le loro ristrettezze, ma si avrebbero anche tolti alla schiera degli anti-Euro. Restava un terzo gruppo, e Giorgio riconobbe i patron del nostro made-in-Italy. C’era anche un gruppo di virtuosi, nel Natale dell’Euro, nonostante le condizioni delle nostre istituzioni. Per loro l’Euro aveva funzionato per lo stesso motivo per cui era stato scelto: la disintossicazione dalla droga delle svalutazioni, e il miglioramento della capacità competitiva.
Napolitano in quei tre gruppi vide chiaramente la tristezza del Natale presente. Un paese diviso in cui ognuno aveva una parte di ragione. Una parte del sistema produttivo aveva retto alla sfida della competitività dell’Euro, ma la società italiana no. Chi era stato espulso dal sistema produttivo in questo processo non aveva trovato una rete di assistenza per il ricollocamento: un sistema di ammortizzatori sociali incompleto e discriminatorio e nessuna struttura seria di riqualificazione professionale. Poi c’erano i titolari dei diritti acquisiti, quelli che non devono competere con nessuno, quelli che sono al riparo sul libro paga dello stato, per grazia di Dio e volontà della nazione.
Mentre pensava a tutto questo, la popolazione della stanza cambiò ancora, con due gruppi di tre figure incappucciate, addossate alle due pareti laterali. “Noi siamo le agenzie di rating”, disse un gruppo, “e noi siamo la Troika”, disse l’altro. Figuriamoci, ci mancavano solo loro, stanotte, pensò Napolitano. “Noi siamo i fantasmi del Natale futuro, il Natale della stabilità”, dissero. E la parete di fronte a Napolitano si illuminò in un attimo in una sorta di cineforum. Lì Napolitano vide scorrere le immagini del Natale della stabilità.
Vide una piazza piena di gente, riconobbe l’accademico in pantaloni corti, che urlava slogan sotto uno striscione che diceva: “comitato lotta docenti universitari in mobilità”. C’era anche un comitato di giudici che distribuiva un volantino che annunciava ricorsi. Poi c’era un gruppo di burocrati con uno striscione che rimandava a commi di articoli di regolamenti. Insomma, ognuno contestava come poteva. “Ma cosa è successo?”, chiese Giorgio. “Questo è il Natale futuro. Il vostro debito pubblico è salito ulteriormente, oltre il 140% del PIL, e noi abbiamo ritenuto che fosse ormai un titolo di livello speculativo. L’abbiamo declassato di due notch, con outlook stabile. Ovviamente, la Repubblica italiana ha perso l’accesso al mercato, e non è potuto intervenire né il meccanismo di stabilità europeo, né la BCE”.
“E allora siamo intervenuti noi”, dissero quelli della Troika, “e abbiamo dovuto tagliare la spesa pubblica. Abbiamo fatto tagli lineari, è vero, ma voi ci siete abituati”. “Ma come? Già con Mario Monti abbiamo fatto i compiti a casa, come si diceva. E ora il giovane Letta assicura la stabilità…” disse Giorgio. “Fare i compiti a casa non significa che i compiti te li scegli tu. Non sono compiti a tema libero. Se devi riparare a latino ma ti viene bene la storia, non fai i compiti di storia, fai quelli di latino. Nello stesso modo, se i vostri compiti a casa sono il taglio delle spese, è inutile che ci portiate un bel compito di aumenti delle tasse, nel quale sappiamo da tempo che siete creativi e bravissimi”. “E come recupereremo l’accesso al mercato?” , chiese Giorgio. “Come la Grecia, con un swap del debito, e il taglio della spesa. La differenza con loro è che voi avete già oggi un surplus primario, ma con un livello di tassazione eccessivo. Noi abbiamo tagliato la spesa e le tasse allo stesso tempo”. “Ma come? Abbiamo lavorato tanto per la stabilità”, disse Giorgio. “Quando sei in mezzo al guado e hai l’acqua alla gola, stabilità significa continuare a nuotare, se stai fermo affoghi”.
Napolitano capì. Il paese non poteva più stare fermo. Ci voleva un intervento di rottura e radicale, qualcosa che facesse ripartire la macchina impantanata nel fango. E allora il vecchio Napolitano decise di uscire, scese dalla piazza del Quirinale, giù verso Piazza Venezia gridando a squarciagola: “Buon Natale, con viva e vibrante soddisfazione, quest’anno sarà l’anno del taglio delle spese e delle tasse”. E poi urlò: “Fate ripartire quelle macchine! Fate ripartire quelle macchine!”. A questo punto, riaprì gli occhi, era ancora nel suo studio, e sullo schermo della televisione scorreva la scena finale del solito film di Natale, “Una poltrona per due”, con il vecchio Duke che urlava la stessa frase che aveva urlato nel sonno: “Fate ripartire quelle macchine!”. Capì che aveva sognato, ma quei sogni avevano lasciato una traccia. Cosa avrebbe detto nel discorso di fine anno?
Buon Natale a tutti!