Delle volte ci sono vittorie ampiamente previste e prevedibili che quando avvengono assumono persino un contorno più netto che riesce a stupirti. Quella di Matteo Renzi, neo segretario del partito democratico, è una di queste e si presta a qualche breve considerazione.
Uno. Quasi nessuno degli osservatori aveva previsto una vittoria alle primarie del sindaco di Firenze così rotonda. S’immaginava una sua affermazione contenuta in una forchetta tra il 50 e il 60 per cento. Qualcuno addirittura ipotizzava che la soglia del cinquanta per cento fosse a rischio, rimandando all’assemblea Pd la scelta finale del nuovo segretario. E’ andava molto diversamente. Il popolo dei militanti Pd ha regalato a Renzi una vittoria molto più larga dell’indicazione uscita dal primo turno di primaria dove a votare erano stati solo gli iscritti. Questo significa che anche a sinistra, dopo 60 anni, sfiorisce l’idea e la presa del partito tradizionale, dove tra iscritti e militanti c’è un filo strettissimo di appartenenza/rappresentanza. E soprattutto che, a un anno di distanza dalla sfida Bersani-Renzi, i rapporti di forza si sono totalmente ribaltati. Il militante medio Pd, che aveva sempre trattato Renzi da outsider anomalo, persino cripto berlusconiano, preferendogli il porto sicuro della nomenklatura, ha deciso di cambiare cavallo con chiarezza. Troppe sconfitte, troppe mediazioni, troppa palude. Anche la base democratica vuole cambiare e scommettere su una leadership chiara e carismatica, quasi antropologicamente diversa, e ieri lo ha dimostrato senza impacci.
Due. Renzi è stato in grado pur in una primaria “fredda”, senza in ballo la premiership, senza elezioni alle viste in grado di mobilitare più facilmente l’elettorato, di farsi incoronare da un numero ben oltre le aspettative di elettori. In un tempo di antipolitica galoppante (solo domenica scorsa si era celebrato il Vaffa Day), per giunta in un giorno di festa, portare ai gazebo così tanta gente è segno di vitalità quasi insperata. Lo si vedrà meglio dai flussi, ma c’è molta gente di sinistra che lo ha votato, quasi un meccanismo che è scattato per la prima volta: basta perdere, scommettiamo sul personaggio nuovo, a lungo bistrattato.
Tre. Il pendant di questo voto a valanga dei militanti Pd per Renzi è la fine del post comunismo italiano. La fine di quella lunga stagione post muro di Berlino monopolizzata dai cosiddetti “compagni di scuola”: i D’Alema, i Veltroni, i Fassino fin giù agli epigoni Bersani e poi Cuperlo, che hanno sempre controllato il partito anche dopo la fusione con la Margherita, lungo tutta la filiera Pci-Pds-Ds-Pd. E quando non erano i frontman, nel caso di Prodi nei governi dell’Ulivo e per un frangente di Dario Franceschini alla guida Pd, restavano sempre loro a fare e disfare i giochi. Ieri per la prima volta hanno perso il potere reale. Fine di una stagione e di una certa classe dirigente della sinistra italiana. Il pessimo risultato di Cuperlo, ultimo anello (debole) di quella tradizione, il trionfo renziano nella zona rossa e in certe regioni del sud, il sorpasso di Civati sempre su Cuperlo nelle grandi regioni produttive del nord, la dice lunga sulla debacle. La sfida di Renzi, la sua offerta politica e la capacità di incidere davvero nel paese è tutta da dimostrare. Su Linkiesta nutriamo ben più di un dubbio e lo abbiamo scritto anche recentemente, ma ieri è avvenuta una sorta di Bad Godesberg italiana. Un cambio d’epoca a lungo invocato e mai realizzato. Per la prima volta da tanti anni, maggioranza (Renzi) e minoranza interna al partito (Civati), saranno incarnati da due politici under 40 non ascrivibili alle famiglie classiche del novecento. Anche l’Italia, d’un tratto, sembra essere un paese normale.
Quattro. Il plebiscito a Renzi darà al neo segretario il mandato urgente e difficilissimo di sfidare il tandem populista Grillo-Berlusconi in vista delle elezioni europee. Sarà una partita difficilissima e delicatissima. Renzi sa che non può permettersi una bagno di sangue al voto di primavera. Ne verrebbe immediatamente indebolito e logorato. Eppure quel rischio è forte tanto più se il Pd apparirà agli occhi degli italiani l’azionista unico di un governo in panne, incapace di fare riforme e rilanciare l’economia, schiacciato sulla retorica europeista. Non a caso ieri il primo affondo è stato per Grillo, che il sindaco vuol sfidare sul terreno dei costi della politica e della legge elettorale, sperando di svuotargli il serbatoio elettorale. Ci riuscirà?
Cinque. Diretta conseguenza della sfida ai populismi, da parte di un neo segretario che a sua volta non ne è immune – spirito dei tempi -, è l’impatto che la nuova segreteria Pd avrà giocoforza sul governo delle larghe intese. Se non fosse intervenuta la bocciatura del Porcellum da parte della Corte Costituzionale, oggi saremmo tutti a dire che il governo Letta ha le ore contate. Troppo forte Renzi per non chiedere un nuovo inizio e la fine dell’agonia bipartisan, l’archiviazione della stagione dei tecnici e della supplenza del Colle, il ripristino del bipolarismo. L’impossibilità di tornare alle urne in questo modo impone però un modus vivendi tutto da costruire tra Renzi e Letta-Alfano. Uno spazio sospeso, di interregno dove Renzi verrà messo per la prima volta alla prova. Ma è ovvio che il Pd chiederà un forte cambio di passo, da misurare subito, a partire da legge elettorale, tagli alla politica e stimoli economici. Altrimenti non ci saranno tabù né semestri europei che tengano. Su questo Renzi è stato chiaro: è l’ultima occasione che abbiano, un’altra non ci ricapita. Riuscirà Letta a cambiare passo? E se non fosse così come si comporterebbe Napolitano?