La rivalutazione delle quote della Banca d’Italia continua a essere uno dei punti più spinosi per Il Tesoro. Una mossa che permetterà agli istituti di credito italiani di avere una posizione migliore rispetto a quella odierna nella prossima Asset Quality Review della Banca centrale europea. Potranno infatti avere più capitale a disposizione per affrontare la sorta di due diligence che sarà condotta nei prossimi dodici mesi. Allo stesso tempo, potranno godere di agevolazioni, come quelle sui dividendi. Un atteggiamento, quello tenuto dal Tesoro, che però continua a impensierire sia Commissione europea sia Bce, che stanno studiando le possibili implicazioni della misura. Mario Draghi ha spiegato oggi 5 dicembre che il consiglio direttivo della Bce non ha ancora stilato un parere in merito, mentre il Senato ha dato disco verde al decreto nonostante la bocciatura di ieri da parte della commissione Affari costituzionali.
Il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni si è sempre detto tranquillo. La Bce non stopperà il processo che porterà la Banca d’Italia a diventare una public company. Secondo fonti del Tesoro non ci saranno problemi, perché tutta l’operazione è conforme alle regole comunitarie. Tuttavia, non c’è ancora la certezza matematica che sia così. Quello che più interessa alla Bce, ma anche alla Commissione europea, è che il principio base dell’indipendenza della banca centrale nazionale sia rispettato in pieno. Un concetto che non dovrebbe mutare con il nuovo assetto dell’istituto di Via Nazionale.
Un paper della Banca dei regolamenti internazionali spiega che: «Le banche centrali fondate nei primi trent’anni del ventesimo secolo sono state costituite tramite azionisti privati, nonostante la loro funzione pubblica. Dagli anni ’30 a oggi molte banche centrali private sono state nazionalizzate (nel 1935 in Nuova Zelanda, nel 1936 in Danimarca, nel 1946 in Gran Bretagna). Il sistema della Federal Reserve americana è probabilmente l’esempio più noto di un istituto centrale che mantiene azionisti privati. Le banche centrali di Belgio, Grecia, Italia, Giappone, Sudafrica, Svizzera e Turchia hanno azionisti privati». Insomma, via Nazionale non è un caso isolato nel mondo.
Certo è che il decreto firmato dal ministro Saccomanni, ex direttore generale di Bankitalia, mette la parola fine alla famigerata legge 262 del 2005, che al comma 19 dell’art. 18 sottolinea come le quote di via Nazionale non possano essere possedute da soggetti diversi da quelli pubblici. La 262 prevedeva tre anni di tempo per ridefinire la governance dell’istituto centrale, ma il provvedimento non è mai stato scritto. La ratio di quella riforma, stilata da Giulio Tremonti, all’epoca ministro dell’Economia – che ha preferito non rispondere alle domande de Linkiesta – era di porre Palazzo Koch sotto il controllo del ministero del Tesoro.
Il professore di Sondrio nel 2006 stimava in 800 milioni il valore della Banca d’Italia, l’Abi (l’associazione delle banche nazionali) tra 10 e 23 miliardi di euro, se al valore di libro si aggiungono le riserve da rivalutazione. Da neogovernatore, Mario Draghi affrontò il tema mantenendo immutati, nella revisione dello statuto di Palazzo Koch, gli articoli 39 – i dividendi non possono superare il 6% del capitale – e 40 ovvero oltre ai dividendi non è possibile distribuire una somma «superiore al 4% dell’importo delle riserve medesime». Allora le critiche più veementi arrivarono da Antonio Patuelli, vicepresidente dell’Acri e oggi numero uno proprio dell’Abi.
Massimo Mucchetti, ex vicedirettore del Corriere e ora senatore Pd, intervistato da Repubblica, pone due problemi. Il primo sulla proprietà dei proventi da signoraggio, che derivano da un monopolio naturale e quindi sono pubblici. Il secondo sulla forma di public company dell’istituto centrale. Intesa Sanpaolo e Unicredit sono i principali azionisti di via Nazionale, ma nel nuovo statuto nessun azionista potrà detenere più del 5% delle quote. Ergo, osserva Mucchetti, «saranno le altre banche dovranno comprare e finanziare così colossi loro concorrenti. In un mercatino delle quote di cui non si capisce come si formino i prezzi e quale autorità eserciti la sorveglianza».
All’interno del coro dei critici della prima ora spicca Angelo Baglioni, docente di Microeconomia all’Università Cattolica di Milano: «Il governo non si è preoccupato di dire nulla sulle possibili conseguenze del fatto che le quote di partecipazione nella nostra banca centrale diventeranno liberamente trasferibili, cioè scambiabili sul mercato», scrive Baglioni in un’analisi su Lavoce, aggiungendo: «Il fatto che siano riservate a intermediari finanziari europei non è una grande garanzia, visto che questi soggetti possono essere a loro volta controllati da altri soggetti, anche di altra natura e non europei. Il limite del 5 per cento può essere aggirato attraverso accordi che consentano a un gruppo di proprietari di coordinarsi tra di loro». L’obiezione da fonti vicine a via Nazionale è che i controlli saranno serrati. Una garanzia, per ora, soltanto a parole.
Sempre su Lavoce, l’economista bocconiano Tito Boeri sottolinea il pericolo, per il contribuente, di aumentare i dividendi sino ai livelli previsti da Statuto, visto che negli ultimi quindici anni Palazzo Koch ha distribuito in dividendi l’1 per mille del capitale nominale, pari a 156mila euro a istituto e appunto a 46,5 milioni complessivi. Scrive Boeri: «Il problema è che questa rivalutazione collusiva lascia un’eredità pesantissima sui contribuenti futuri, perché dovranno d’ora in poi pagare per il tramite di Banca d’Italia dividendi più alti agli istituti di credito privati. Mantenendo l’attuale riparto a un millesimo delle quote, i dividendi distribuiti salirebbero a circa un miliardo all’anno rispetto ai 45 milioni attuali».
A questi problemi potrebbero aggiungersi quelli derivanti dall’Asset Quality Review. La Bce è consapevole che le misure adottate dal Tesoro rafforzeranno le banche italiane. È possibile quindi che si decida di utilizzare un approccio più pesante nella verifica dei bilanci degli istituti di credito, in modo da scontare alla base i benefici già ricevuti e quelli futuri. «Nessuno afferma che quanto fatto da Banca d’Italia e Ministero dell’Economia non sia conforme alle regole, ma c’è comunque bisogno di più chiarezza su un’operazione che può significativamente cambiare l’assetto della banca centrale nazionale», dice a Linkiesta un funzionario della Bce dietro richiesta di anonimato. In un periodo in cui la credibilità dell’Italia è messa a repentaglio sia dall’instabilità politica sia dalla Legge di stabilità, perdere la faccia sulla rivalutazione delle quote del capitale della Banca d’Italia potrebbe essere la cosa più controproducente.