Si fa sempre più concreta l’idea di accordi contrattuali tra gli Stati membri e l’Ue per le riforme, lanciata nel dicembre 2012 e ora di nuovo sul tappeto al summit di giovedì e venerdì prossimi a Bruxelles. Non siamo ancora alla svolta decisiva, ma le bozze delle conclusioni del Consiglio Europeo questa volta parlano apertamente di un accordo preliminare in vista poi di un vero e proprio accordo globale «nella primavera del 2014».
L’idea è quello di accordi stipulati tra gli Stati da un lato e Commissione Europea e Consiglio Ue dall’altro, per «stimolare» gli Stati membri a fare le urgenti riforme strutturali. L’idea fu lanciata dalla cancelliera Angela Merkel – non ancora soddisfatta dei crescenti vincoli imposti dalla nuova governance economica Ue – sul modello dei piani di salvataggio per gli Stati in crisi, con un preciso piano di riforme e risanamento. I più malevoli, sostengono che la Merkel avesse in mente in particolare un paese: l’Italia.
Certo è che da una pura ipotesi, l’idea ha fatto molta strada. Lo si capisce dall’ultima bozza di conclusioni del Consiglio Europeo del 19-20 prossimi. Il testo indica i punti su cui il summit dovrebbe concordare già ora, in vista dell’intesa globale della primavera.
Primo, dovranno essere «impegni maturati in casa», e le misure contenute nei contratti «dovranno essere disegnate dallo stato membro» e questo «con l’adeguato coinvolgimento dei parlamenti nazionali, delle parti sociali e di altri attori rilevanti». I contratti, discussi con Commissione e Consiglio, conterranno – proprio come i piani di salvataggio – precise «pietre miliari», obiettivi da raggiungere progressivamente nel corso di un preciso calendario. I contratti, spiega ancora la bozza, dovranno «coprire un’ampia gamma di politiche e misure volte a rilanciare crescita e occupazione, incluso l’efficienza del mercati del lavoro e della produzione, della pubblica amministrazione, nonché ricerca e innovazione, istruzione e formazione professionale, occupazione e inclusione sociale». Il testo sottolinea che «per essere efficace, ogni accordo contrattuale si concentrerà su un piccolo numero di ostacoli chiave alla crescita sostenibile, alla competitività e alla creazione di posti di lavoro, che rappresentano un potenziale rischio per l’eurozona nel suo complesso». Molto meno sviluppato, ma cruciale per l’Italia, è il volet della «solidarietà».
Dobbiamo «lottare – ha detto il premier Enrico Letta l’11 dicembre al Senato – per dare alla zona
euro una capacità finanziaria che incentivi gli Stati membri a
compiere l’ultimo miglio delle riforme e li renda più resistenti
agli shock economici. Se questo passo avanti verso una vera solidarietà europea
sarà compiuto, allora non avremmo
timore di considerare la creazione di intese contrattuali per le
riforme strutturali e lavoreremmo affinché esse si chiamino
’contratti per la crescita’, volontari e collegati a incentivi
finanziari». Qui, in effetti, è la parte più ostica, perché chiaramente Paesi come Italia, Francia e Spagna da un lato, e Germania dall’altro hanno idee molto diverse. Le prime tre vorrebbero un vero e proprio bilancio dell’eurozona, di ampie dimensioni, per consentire finanziamenti sul modello dei fondi strutturali Ue, che accompagnino e stimolino riforme e ripresa.
La Germania vuole invece una «facility» molto ristretta per prestiti limitati e concentrati. La lite è insomma scontata, tant’è che la bozza di conclusione di summit si limita a dire che «sui meccanismi associati di solidarietà il Consiglio Europeo invita il presidente del Consiglio Ue, in stretta cooperazione con il presidente della Commissione, a esplorare ulteriormente tutte le opzioni sull’esatta natura (prestiti o garanzie), forme istituzionali e volume del sostegno».
Un documento interno circolato nei giorni scorsi nel Consiglio Ue ha rilanciato idee che vanno nella direzione tedesca. Il documento interno riconosce comunque che le riforme richiedono tempo, ma «sono associate a costi economici e politici a breve termine, per cui l’offerta di sostegno finanziario può aiutare a superarli». Come? Nel documento interno si parla soprattutto di prestiti a tassi agevolati. Non sarebbero insomma veri finanziamenti come per i fondi strutturali, anzi, come dice esplicitamente il documento interno, «gli sforzi di aggiustamento sarebbero finanziati dallo Stato membro stesso, sia pure con incentivi europei attraverso l’accesso a finanziamenti a tassi più favorevoli».
Traduciamo: la solidarietà consisterebbe nel fatto che, ad esempio, l’Italia per finanziare le sue riforme invece di dover indebitarsi al 4% potrebbe farlo, per dire, al 2%. Con l’aiuto magari di Paesi, come la Germania, che hanno tassi sui propri titoli molto più bassi. Un piccolo aiutino, nient’altro.
E questo, oltretutto, in cambio di un rigoroso controllo passo a passo dell’attuazione degli impegni. Nel testo, in effetti, si parla di un «esborso a tranche condizionate all’attuazione degli impegni», proprio come nei piani di salvataggio (niente tranche se non rispetti gli impegni). Addirittura, il documento interno arriva a ipotizzare anche, come ipotesi alternativa, che lo Stato interessato si paghi i suoi debiti a tasso di mercato, salvo poi incassare un rimborso in base al tasso ridotto concordato solo «alla fine della fase di attuazione» del programma contenuto nel contratto. Il quale prevedrebbe «varie conseguenze» per chi non rispetta i rigorosi impegni, dalla sospensione del sostegno finanziario o, nel caso di un prestito, del rimborso anticipato.
In questa forma, difficilmente piacerà a Paesi come Italia o Francia. Certo è che il Parlamento Europeo è già sul piede di guerra contro l’idea dei contratti. «Sarebbe la fine dell’Ue», ha tuonato il capogruppo degli Euroliberali Guy Verhofstadt. «Avranno vita molto dura in Parlamento», ha detto anche l’eurodeputato Pd Roberto Gualtieri. Soprattutto in vista delle europee di maggio, i «contratti» hanno per ora la strada in salita.