“Dante che fai? Ora che sono diventato presidente non mi saluti più?”. Rimasero tutti di stucco quel giorno che Sandro Pertini, al termine di un incontro con Enrico Berlinguer, si rivolse improvvisamente ad uno degli uomini che erano insieme al leader del Pci, con una delle sue fumantine, tipiche (e in realtà affettuosissime) intemerate.
Dante Franceschini quel giorno sorrise e si fece abbracciare: per una volta lui, così imponente, aveva ceduto alla stretta del presidente, che lo ricordava combattente partigiano nella battaglia per la Liberazione di Firenze. Per la festa dei suoi novant’anni, a sorpresa, Ugo Sposetti, il tesoriere delle fondazioni legate ai Ds, gli aveva fatto trovare una intera paginata tutta dedicata a lui, su L’Unità, con le sue foto al fianco di Enrico Berlinguer, e addirittura un’altra al fianco dello stesso segretario, di George Marchais e di Santiago Carrillo, ritratti insieme in uno storico appuntamento, della breve ma intensa stagione dell’eurocomunismo. Tutto era stato impaginato da Bruno Magno, il più geniale dei grafici di Botteghe Oscure, l’inventore della Quercia del Pds. Dante si è spento ieri, ma avrà un funerale tutto particolare solo martedì, dopo la fine delle feste: la mattina sarà ricordato al San Camillo di Roma, dove è morto a 92 anni dopo una brevissima malattia. Subito dopo il suo feretro partirà seguito da un piccolo corteo di macchine che farà tappa nel quartiere Quadraro, dove gli renderanno omaggio i suoi compagni dell'”associazione Enrico Berlinguer”, e alla fine arriverà ad Ariccia, dove abitava da anni in una casa popolare costruita in cooperativa (dove era per tutti il nonno del condominio. Una cerimonia civile semplice, come del resto aveva voluto lui.
Così, senza fanfare, se ne va anche uno degli ultimi uomini-simbolo del vecchio Pci, l’unico che nella sua lunga vita è riuscito a lavorare sia nella scorta di due segretari della Cgil Giuseppe Di Vittorio e Agostino Novella che del segretario del Pci Enrico Berlinguer, traversando tre diverse ere politiche. Non era un personaggio noto ai media: come tutti gli uomini della vigilanza di Botteghe Oscure (a partire dal capo di tutto l’apparato, Alberto Menichelli che martedì lo ricorderà al Quadraro) aveva sempre adottato una regola di riserbo, l’abitudine di stare un passo indietro, lontano dai riflettori. Ma era noto e amatissimo, in quella che un tempo fu la base di un partito di massa. Era conosciuto da un capo all’altro dell’Italia, in Toscana, dove era nato, e dove aveva fatto in tempo ad impugnare le armi contro i tedeschi, in Emilia Romagna dove passava le vacanze, a Roma dove aveva abitato nei tempi del lavoro in direzione, e in tutte le città e i comuni che aveva battuto palmo a palmo nelle infinite campagne elettorali di una volta.
Tutti quelli che oggi vengono immaginati come stereotipi dell’apparato di partito di un tempo erano infranti dal carattere di quest’uomo: era gioviale, espansivo, dotato di un fulminante senso dell’umorismo e dell’abitudine – tutta toscana – alla battuta secca e rotonda. Acutissimo nell’analisi dei fatti e delle persone, altissimo, magro, naso aquilino e occhialoni, apparentemente indistruttibile fino al giorno di Natale quando, ad una età veneranda, una brutta polmonite lo ha abbattuto. Nella fase più dura degli anni di piombo era l’unico a cui Menichelli consentisse (oltre a se stesso) di guidare la macchina del segretario. Nel Lazio Dante Franceschini aveva anche un’altra patria adottiva legata alla politica in una casa del popolo che era stata fondata a Campo Leone da un gruppo di pastori sardi Comunisti emigrati negli anni sessanta nell’agro romano per produrre pecorino: non c’era festa del circolo a cui non mancasse. Anche queste, come la sua, sembravano storie di un altro tempo, dove la militanza e le scelte di vita si incrociavano in maniera indelebile. E Dante la prima scelta di vita l’aveva fatta da ragazzo, impugnando le armi, e la seconda diventando un militante a tempo pieno nel dopoguerra. Nelle giornate conviviali – in cui tutti gli si stringevano intorno tempestandolo di domande – raccontava del suo rapporto con Di Vittorio, uomo che considerava allo stesso tempo d’acciaio ma anche umanissimo, capace di infinite maratone in giro per fabbriche e assemblee sindacali. Ma la sua acutezza e la sua salacità, per nulla formali, emergevano nei ritratti del tutto antiretorici che era capace di cesellare. Ce n’era uno sulla seconda moglie del segretario della Cgil, che rende perfettamente l’idea della dimensione che uomini come Franceschini davano alla propria vita. Che era quella della missione, e non certo quella del servitore. Così Dante raccontava: “Sarà colpa nostra, ma con questa seconda moglie di Di Vittorio, molto più giovane del marito, di estrazione alto borghese, noi non ci si era mai presi. Di Vittorio si portava le valigie da solo, diceva ‘grazie’ e domandava ‘per favore’. Lei invece – raccontava Dante – cercava in ogni modo di farsi servire, come se io e gli altri compagni che accompagnavamo Il segretario gli dovessimo fare da chauffeur”. E così si arriva ad un episodio chiave: “Un giorno lei si pianta davanti alla porta posteriore della macchina con un gesto di sfida, e guardandomi fisso negli occhi come per dire: ‘Adesso me la apri'”. Dante raccontava che non era certo il fatto di aprire la porta, cosa che lui avrebbe fatto con piacere, ma che gli dava fastidio quel modo imperioso di pretenderlo, senza nemmeno una parola cortese: “Insomma, dieci volte mi morsi la lingua, poi peró alla fine parlai e le dissi: ‘Senta signora, io non aprirei la portiera nemmeno ad un comunista. Figuriamoci se posso farlo ad una persona maleducata”. Quel giorno Dante temeva che avrebbe potuto compromettersi il rapporto con Di Vittorio, non sapeva se lui avesse notato la scena, temeva che la moglie avrebbe protestato col marito e immaginava che spiegazione dargli se avesse dovuto spiegare: aggiungeva di non aver dormito bene per l’inquietudine. Invece la mattina dopo il segretario della Cgil aveva fatto un gesto plateale e gli aveva detto: “Oggi a Dante la porta della macchina gliela apro io”. E poi? Dante sospirava: “Non se n’è mai discusso, né io né lui: qualunque cosa fosse successa, non c’era bisogno di parole”.
Ogni volta che raccontava di Di Vittorio, Dante ripeteva la stessa frase: “Era un oratore incredibile. Parlava spesso a braccio, e aveva quel dono incredibile, davvero…”. Allora gli chiedevo: “Incredibile perché Dante?”. E lui, sgranando gli occhi: “Accadeva questo: tu lo seguivi per una giornata in dieci comizi. Lui in tutte le piazze parlava come se stesse cantando una canzone, e arrivava ad un punto in cui parlava dei poliziotti, dei contadini e dei pensionati e…”. E? “E anche se lo avevo sentito cento volte dire le stesse cose, anche se sapevo come proseguiva, mi veniva da piangere, sempre nello stesso momento del discorso. E poi vedevo che si commuoveva anche Di Vittorio. E poi vedevo che piangeva tutta la piazza”. Quindi, dopo una pausa aggiungeva: “Vedi, non ero uno sprovveduto e non lo erano nemmeno quelli che si commuovevano con me. Erano tempi duri, e mi sono fatto allora l’idea che più delle parole conta il sentimento con cui le si fa viaggiare”. Quella intensità Dante diceva di averla ritrovata, in altra forma, solo in Enrico Berlinguer: “Lui e Di Vittorio non potevano essere più diversi: penso al primo e mi vengono in mente i suoni, penso al secondo e mi vengono in mente i silenzi”. Altra pausa: “Sentite, qui dovete credermi: io per Enrico avrei dato la vita non una ma dieci volte. Perché sentivo che di lui ci si poteva fidare. Perché mi piaceva il modo in cui si preoccupava delle persone che rappresentava. Quando penso ad una fortuna che ho avuto nella vita – ripeteva – mi do una risposta semplice: quella di avergli passato tanto tempo al fianco”.
Dante ricordava anche la storia di Dolfi, il suo comandante partigiano “Perché quelli sono stati due anni in Italia in cui si è bell’è capito chi aveva il fegato di mettersi a fare la guerra ai nazisti e chi no. Essere un capo partigiano allora, male armati, in mezzo al fango e agli stracci, voleva dire solo una cosa: saper trasmettere il coraggio”. Dopo la guerra raccontava del periodo in cui “la gioia più grande, per me, era uscire di fabbrica il venerdì e il sabato ottenere l’onore di andare a fare la scorta per Togliatti”. Un lavoro militante saltuario, che non pensava sarebbe mai diventato mestiere. Dante spiegava quanto era difficile, oggi, “far capire ai ragazzi nati nel duemila, la felicità di entrare un giorno nella foresteria del partito di via Nazionale, al numero 243, e pensare che anche lavando una macchina in quel sotterraneo, si faceva qualcosa di utile per una causa più grande”. Ricorreva ad un altro aneddoto per dare l’idea di quella che definiva la “militanza in un garage”, e raccontare un altro periodo che aveva vissuto: “Un giorno Botteghe oscure compró i pulmini del dismesso ente militare americano per equipaggiarli alla stampa e propaganda. Passammo giorni di lavoro straordinario per equipaggiarli con le trombe e il cineproiettore. Poi, mesi dopo – ricordava – venimmo a sapere che la mafia ne aveva fatto saltare per aria alcuni, e che aveva sparato sui compagni che li guidavano. Mi sono morso le labbra per la rabbia, ma mi sentivo utile. Ci sentivano tutti utili: chi non ha mai vissuto l’atmosfera del partito, in quegli anni fatica a capirlo”.
Era stato Menichelli a chiamarlo nella squadra di Berlinguer, e poi – quando il livello di sicurezza dopo il rapimento di Moro si era innalzato – a decidere che mai sarebbe dovuto passare un minuto senza che l’uno o l’altro fossero con lui. Una vita di piccoli grandi sacrifici, sempre in giro per l’Italia, con due figli piccoli a casa, uno stipendio da metalmeccanico, la tasca piena di gettoni e una promessa: “Papà stasera non torna, ma quando arriviamo in piazza ti chiama e ti racconta dove siamo andati…”. La figlia Sonia e il figlio Andrea ricordano di quando da bambini restavano svegli fino a tardi in attesa del ritorno, o di quella telefonata, e di quando “d’estate tutta la famiglia veniva portata in vacanza nei luoghi che in quei viaggi convulsi gli erano sembrati più belli e meritevoli di essere rivisti”. La moglie Adelina, lo accompagnava in riviera e vinceva a briscola con le compagne emiliane. Dante possedeva la sua casetta fuori Roma e una utilitaria che aveva comprato a ottant’anni, quando – aggiunge Andrea – “sorprendendo tutti aveva superato l’esame per la patente ottenendo addirittura l’esenzione per le lenti”.
Nei giorni della malattia al San Camillo, attaccato al respiratore, o con in testa il casco per l’areazione che quasi lo torturava, ha detto a Sonia: “Vedi, mi è passata tutta la vita davanti, e me ne vado sereno”. Altre volte ripeteva: “La nostra fortuna è che non avendo una lira da sprecare, in questa famiglia non abbiamo mai litigato”. E rideva. Un genio. Solo due giorni prima di morire interrogava il nipote, alle prese con l’ultimo esame prima della laurea: “Hai comprato il libro che ti manca?”.
Se ho scelto di raccontare tutti questo dettagli, anche privati – e Dante mi scuserà di questo – è perché quando si dovrà compilare definitivamente la storia dell’Italia e della politica del dopoguerra, bisognerà pensare che questo paese ha potuto raggiungere importanti e impensabili traguardi perché dietro i grandi leader c’erano grandi uomini, quasi anonimi, che hanno fatto sacrifici inenarrabili, con enorme spirito di servizio e senza nessun servilismo: vivendo da proletari e avendo però l’eleganza dei principi. Le loro vite oggi diventano esemplari, nel tempo dei nani e dei portaborse, e quando – spesso a sproposito – si parla del leggendario “apparato” senza sapere che era formato di centinaia di uomini fatti di questa pasta. A quelli che si augurano una politica fatta senza partiti, senza passione, con leader di plastica e comitati elettorali, la storia di Dante non potrà che apparire un retaggio anacronistico del passato, non ha nulla da dire o da insegnare. A tutti gli altri invece- spero che dica moltissimo.