Date a quest’uomo un regno

Billy the king

Credo che ci siano poche sensazioni al mondo più gradevoli della consapevolezza di essere Bill Murray. Un campo da golf molto presto al mattino, quando l’erba è umida, morbida e fresca. Il softball a Central Park mentre il sole tramonta e la palla si vede a malapena. I titoli di testa di un film di Wes Anderson. Ma sono tutte cose che Murray conosce bene e che a noi che non siamo lui, restano come consolazione di non sapere mai cosa si prova a essere Bill Murray. 

Il primo febbraio 1982 andava in onda la prima puntata del Late Night con David Letterman e dopo lo sketch di testa, un personaggio dai capelli sfibrati e lo sguardo malinconico ha fatto la sua apparizione sulle poltroncine di pelle accanto alla scrivania. Quasi le stesse poltroncine che nel corso degli anni a venire avrebbe stuprato, infangato, impregnato dell’acqua verdognola di un bidone della spazzatura, ribaltato ed elevato ad altare della propria pubblica imperfezione. Letterman quella volta provò a piazzare un paio di domande pertinenti alla carriera, allora in pieno sviluppo, di Murray e Murray, bontà sua, provò a rispondere. «Eri in un film che è stato in quinta posizione…» «in terza posizione, in realtà» «sei una star e comunque eccoti lì che giochi con i batuffoli di cotone che hai nelle tasche del maglione…» «vorrei proprio che la smettessi di cercare di rovinarmi la vita, Dave. Sul serio». «Ti manca il Saturday Night Live?», «se mi manca? A te non è mai mancato niente e nessuno, vero? Te ne sei andato da Indianapolis senza guardarti indietro, non è così? […] Lo giuro, Letterman, fosse l’ultima cosa che faccio, voglio trasformare ogni secondo che ti rimane da vivere in un inferno». Non dare respiro all’interlocutore è il modo che Murray ha per riempire il silenzio, per non sentirsi pensare. Quella è stata forse la prima volta che il pubblico aveva l’opportunità di vedere la persona dietro una maschera così sottile da risultare alla fine trascurabile.

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Allora aveva già in curriculum tre stagioni di SNL e due commedie campioni di incassi, ma non aveva ancora sulle spalle l’esperienza che gli avrebbe cambiato il corso della carriera. Ghostbusters è uscito nel 1984 e quest’anno – per una fortunata coincidenza – compirà trent’anni esatti. Al SNL è arrivato dopo l’esperienza alla National Lampoon Radio Hour, grazie al solito John Belushi che a New York faceva il bello e il cattivo tempo già da un decennio. L’idea era quella di sostituire Chevy Chase per qualche puntata, ma dopo la rottura di Chase col programma la sua presenza è diventata fissa e gli ha procurato il primo Emmy. 

Pensare al Bill Murray degli anni settanta può dare l’idea di una granata innescata e buttata tra la folla, che tutti sanno che esploderà ma nessuno se ne preoccupa finché non è troppo tardi. In realtà addentrandosi a fondo nella sua biografia ci si rende conto che è più simile a un ordigno inesploso della Seconda Guerra Mondiale, latente e inaffidabile. Possiamo stare certi che sia innocuo solo al 90%, prima o poi salterà comunque e sarà tre volte più pericoloso per via della ruggine e degli anni che lo hanno trasformato in una specie di dum-dum di schifezze. Dopo il fallimento del suo primo film drammatico, The Razor Edge, a chiusura di un 1984 intenso e importante dal quale sarebbe altrimenti uscito alla grande, Murray è sparito per due anni. Chi lo voleva in carcere, chi lo voleva in ospedale psichiatrico, chi imbarcato come marinaio su un cargo in rotta verso la Terra del Fuoco. È in questo momento che si perdono le radici della sua leggenda. È qui che comincia a costruire quello che vediamo oggi, praticamente ovunque. 

Bill Murray nei panni del dottor Hunter S. Thompson in Where the Buffalo Roams

Parlare dell’evoluzione di Bill Murray è impossibile senza tener conto del fatto che la maggior parte delle voci che circolano sulla sua vita potrebbero tranquillamente essere inventate di sana pianta da lui stesso. «C’è gente che fa photobombing alle foto degli altri, Bill Murray lo fa con le vite» ha scritto Brett Martin su GQ nel 2013. La sequenza di comicità crescente nei film che ha interpretato negli anni ’80 e la lenta ma costante deriva verso il cinema d’autore che ha preso avvio tra la metà dei ’90 e i primi duemila e che lo ha portato oggi ad essere il nome più richiesto in assoluto nel cinema indipendente («un film privo di Murray è un film triste, un film con anche solo pochi secondi di Murray è un film triste ma riuscito») – nonché il feticcio di Wes Anderson – sono la costruzione di un mito, più che la naturale evoluzione della carriera di un attore. Ed è un mito che col cinema, a ben pensarci, a poco a che vedere. 

La riprova che, con o senza i film la vita di Murray sarebbe comunque molto vicino a quella che è sta nell’approccio completamente privo di ritegno che riserva all’industria. Nel corso della sua attività ha dichiarato di volersi ritirare in più occasioni, e non ha mai mantenuto la promessa. Nel 2005, dopo aver finito di girare Broken Flowers con Jim Jarmusch si è messo in testa di non poter fare niente di meglio, «è durata sei o sette mesi, poi qualcuno mi ha proposto un nuovo progetto e ho ricominciato a lavorare» ha raccontato su Reddit non molto tempo fa. I suoi film, e la sua recitazione, sono l’incontro casuale del genio con la macchina da presa e a provarlo ci sono le decine di migliaia di metri di pellicola che lo ritraggono stupefatto e profondo. Naturalmente malinconico ma incredibilmente esilarante, senza il bisogno di trasformarsi una volta sul set e questa è anche la miccia della sua improvvisazione incontenibile. 

Il cinema ha un merito, quello di averlo reso universale. Ma oltre questo c’è solo l’incapacità di stare fermo e l’assoluta necessità di essere visto. «È una specie di performer perpetuo che va dove il vento lo porta, inseguendo la propria – ormai conclamata – condizione di icona pop, che lo accompagna da quando aveva vent’anni e non era quasi nessuno» continua Martin, e il suo vagabondare – un vagabondare vero, un continuo spostarsi che lo rende difficilissimo da rintracciare – lo ha trasformato nello spettro della comicità. Ci sono almeno tre siti (uno, due, tre) che raccolgono gli aneddoti di chi si è imbattuto nel fantasma di Murray e nessuno, ma proprio nessuno, può giurare di averlo incontrato davvero. La prima che ho letto, e anche la mia preferita, è l’ormai arcinota storia della patatine fritte: Murray si sarebbe alzato dal tavolo del ristorante dove stava cenando, per allungarsi su un tavolo vicino e rubare qualche patatina a una ragazza dallo sguardo fisso e dalla faccia attonita. «Nessuno ti crederà mai» le ha sussurrato all’orecchio appena prima di allontanarsi. «Entra nella tua vita, ne esce e tu rimani a chiederti se è una persona reale o se te la sei immaginata. Per fortuna ci sono i film» ha dichiarato Mitch Glazer, che lo conosce da tutta la vita. «Ogni volta che vede passare in TV la scena di sesso de Il duro del Road House, tra mia moglie [Kelly Lynch] e Patrick Swayze, mi chiama per dirmi “tua moglie sta scopando con Swayze”. Mi ha fatto ridere le prime dieci volte, ma ora sono passati ventisei anni. Per fortuna quel film non passa più così tanto come negli anni ’90».

Patrick Swayze e Kelly Lynch in Il duro del Road House

Murray è estremamente conscio dell’effetto che ha sugli altri e lo sfrutta in un continuo stratificarsi su se stesso per tendere al personaggio definitivo. Identico, dentro e fuori dai film. 

La cosa di cui sono più profondamente convinto è che Bill Murray dovrebbe essere un capo di stato. Uno di quei capi che senza un solido apprato democratico alle spalle sarebbero pericolosi. Un caudillo, o meglio un re. Sarebbe in grado di reggere una nazione senza muovere un dito, solo con il carisma della sua presenza e quell’aria di chi è sempre fuori posto ma perfettamente a suo agio. Il mondo gli scorrerebbe tra le mani e lui lo lascerebbe andare come se non gli importasse, ma perfettamente presente al suo regime di totalità. Perché nessuno come Bill Murray ha saputo fondarsi su se stesso in maniera tanto complessa e puntigliosa da sembrare casuale. Un re che mastica il karaoke tanto quanto le conversazioni di palazzo, un re così vicino ai suoi sudditi da essere raggiungibile con un numero verde, senza la scocciatura di passare per gli agenti – questa è un’altra delle leggende, mai verificata. E come un capo di stato sarebbe in grado di essere elusivo. Quando, sempre su Reddit, qualcuno gli ha chiesto di raccontare l’aneddoto delle patatine, o cosa avesse sussurrato all’orecchio di Scarlett Johansson nell’ultima scena di Lost in Translation, ha risposto «non mi ricordo» e ha lasciato cadere la conversazione. 

Infine c’è la faccenda della faccia. Per un fan è impossibile descrivere il volto di Bill Murray. La sua è una faccia talmente fondamentale che cercare di spiegarla sarebbe come cercare di spiegare il gusto del sale. Di cosa sa il sale? Di sale. E che aspetto ha Bill Murray? Da Bill Murray. Ecco, quella faccia, così basica, così indescrivibile, appartiene alla carta moneta. Niente di più. 

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