Electrolux, la Fiat del Nordest lascia terra bruciata

Finale triste di un’epoca industriale

Quando si parla di Electrolux, in Italia, ossia di quella che fu la multinazionale leader nella vendita degli elettrodomestici in Europa, ora in cerca di un exit strategy, verso la Polonia per far ripartire la propria crescita, tutti i protagonisti di una storia più grande di loro si guardano indietro. Preferendo pensare a come eravamo, per evitare di guardarsi a uno specchio che riflette troppe ombre, troppi punti ciechi, e l’immagine di una amara prospettiva di un declino inesorabile. E tutti, operai, sindacalisti, ingegneri, progettisti, ex manager cominciano a raccontare la propria versione, partendo dalla figura straordinaria del capitano d’impresa che fu Lino Zanussi che, prima di morire nel 1968, a soli 48 anni, fece in tempo a costruire un polo dell’elettrodomestico, nato nel 1916, in un piccolo laboratorio artigianale di stufe e forni a legna, a Pordenone. E che, nel boom del dopoguerra, divenne un’azienda leader degli elettrodomestici, dopo aver inglobato anche il suo concorrente italiano, la Zoppas.

Lino Zanussi, nel 1963, ricevette una laurea honoris causa in ingegneria industriale, dopo aver sorpassato la Germania nelle vendite, arrivando – negli anni in cui l’internazionalizzazione era una parola sconosciuta agli imprenditori locali- a conquistare fette di mercato in 70 Paesi. Ora, tutti preferiscono rivolgere lo sguardo al passato, anche quelli che non ne hanno fatto parte per motivi anagrafici, per esorcizzare il futuro della delocalizzazione, che si avvicina a ritmo sostenuto.

Una volta chiuso il principale stabilimento di Porcia, che oggi produce ancora un milione di lavatrici, avranno di fronte un territorio tramortito e desertificato, che metterà in ginocchio il Friuli, già penalizzato dal segno negativo del -25% di calo industriale dall’inizio della crisi. E, nonostante le dichiarazioni di guerra del sindacato, che poi privatamente ammette di non poter avere alcun strumento per contrastare l’inconfutabile argomento del costo del lavoro (22-24% in Italia, 5-6% in Polonia), e le intenzioni combattive della task force creata dalla Confindustria di Pordenone – formato fra gli altri da Maurizio Castro, ex responsabile delle risorse umane della Zanussi, Tiziano Treu, e Riccardo Illy, che vogliono impedire con ogni mezzo al management svedese di lasciare l’Italia – l’ultima riunione, avvenuta mercoledì scorso fra sindacati ed esponenti dell’azienda svedese, è stata un ennesimo segnale del nefasto presagio.

«Ci hanno detto che il differenziale del costo fra una lavatrice prodotta in Italia e una prodotta in Polonia è di 23 euro», spiega a Linkiesta il segretario della Fim di Pordenone, Gianni Piccinin. «Se l’azienda usa solo argomenti legati alla competitività e al costo del lavoro, vinceranno loro, per forza, perché esiste un punto di non ritorno oltre il quale ovviamente non si può tornare indietro», aggiunge con rassegnazione. Certo, la task force formata dalla Confindustria di Pordenone vorrebbe proporre un compromesso, ricorrendo alla riduzione del costo del lavoro del 5% grazie ad accordi sindacali aziendali e agevolazioni per ridurre i costi anche dell’energia, ma è difficile combattere una battaglia impari, se il governo Italiano è assente e si limita a generiche dichiarazioni di solidarietà. E, soprattutto, se la tassazione in Polonia, dove l’Electrolux ha aperto uno stabilimento all’inizio del terzo millennio – in teoria per fare una produzione di bassa gamma, lasciando l’alta gamma all’Italia, ma in pratica per avviare un processo di delocalizzazione che vuole concludere – è del 16 per cento. E non importa che ex manager di Electrolux Italia, poi estromessi perché erano d’intralcio, dicano che la dismissione costerà troppo, in media 80-100mila euro per ogni dipendente, per rendere vantaggiosa la delocalizzazione.

E pare più frutto di una comprensibile speranza anche ogni ragionamento che viene fatto sulla fragile sostenibilità di un trasferimento parziale o totale, ancora non si sa (il plan business verrà annunciato a gennaio) in Polonia, dove prima o poi la tassazione agevolata favorita dall’Ue verrà ridimensionata. O ancora: pensare che non si può separare la progettazione, il know-how, il cui centro nevralgico è a Porcia, dalla produzione, poiché l’azienda mercoledì scorso ha già comunicato che una parte di progettisti verranno trasferiti a Stoccolma e la rete commerciale a Dubai. E forse quando si parla di Electrolux Italia, oggi, si deve pensare alla famosa citazione dei versi di John Donne, resi celebri da Ernest Hemingway, riportati recentemente su un quotidiano locale da Luigi Campello, ad del gruppo italiano fino al 2012, prima di decidere di alzare bandiera bianca: «E così non mandare a chiedere per chi suona la campana: essa suona per te».

Perché dopo l’ultimo incontro, avvenuto mercoledì scorso fra i sindacati e i rappresentanti di Electrolux in Italia e in Europa, pare chiaro che l’exit strategy sia già stata scritta due anni fa, nella nota indifferenza, o meglio inerzia, dei governi italiani. Ossia quando cominciarono a circolare i primi dati sul calo della produzione industriale degli elettrodomestici, divulgati da Ceced, l’associazione nazionale degli elettrodomestici in cui si segnalava che la produzione era scesa alle stesse percentuali del biennio ’90-’91.

E in cui si ponevano i quesiti che ora vengono usati da Electrolux per far capire che ormai il sistema Italia è deficitario da ogni punto di vista: costo del lavoro e dell’energia, incentivi per l’innovazione, politiche fiscali. Perché poi, per prendere tempo, o forse per formalizzare la propria decisione in modo più politicamente corretto, Electrolux ha avviato una “investigation” su tutti gli stabilimenti italiani, che si concluderà a marzo-aprile per verificare costi di produzione, competitività, indici produttivi.

Anche se nel rapporto firmato ad ottobre per spiegare i motivi dell’ipotesi della delocalizzazione, firmato dal ceo, Keith McLoughin, e dal responsabile in Europa, il cfo Tomas Eliasson, si dice chiaramente che i bilanci stagnanti di Electrolux sono in perdita in Italia, Spagna e Francia, in crescita (in realtà relativa) nei paesi nordici, in Germania, in Uk, ma che i segni di stabilizzazione del mercato devono affrontare una debole domanda nei “key markets” e una continua pressione sui prezzi. 

E allora i 461 esuberi annunciati ad ottobre, sono poca cosa rispetto a ciò che deve ancora avvenire. E lo si può immaginare anche prima della fine della investigazione avviata da Stoccoma. Anche se poi il problema è a Porcia, è quello lo stabilimento che si vuole chiudere, e che metterebbe in ginocchio il Friuli e non solo, se si considera l’indotto del polo Electrolux, che conta altri 2 milioni di addetti. Lì dove la produzione è dimezzata èd è passata da due milioni di lavatrici a un milione di pezzi. Ecco perché tutti, in questo viaggio compiuto da Linkiesta dentro una saga imprenditoriale, che riflette un pezzo importante della nostra storia economica, sociale e politica, vogliono voltare la testa e parlare del passato. Anche per mettere in risalto gli errori commessi a Stoccolma, che hanno contribuito al declino del polo elettrodomestico, riducendo le fette di mercato al 7 per cento.

Una storia che ha attraversato diverse fasi. Una epica, rappresentata dalla geniale inventiva della famiglia Zanussi, una travagliata in cui si sono incrociati i destini di politici, avventuristi, manager spregiudicati, gruppi imprenditoriali, fra cui anche la Fiat, quando nel 1984 ormai la Zanussi, finita dentro un vortice di una crisi finanziaria, e sopraffatta dai debiti, venne ceduta per un piatto di lenticchie, 30 miliardi di vecchie lire, a un’azienda svedese della famiglia Wallenberg, conosciuta solo per i suoi aspirapolveri. Una volta ripulita dalle imprese decotte che avevano divorato la gloriosa Zanussi, l’azienda tornò in attivo nel giro di un anno. E avviò una fase miracolosa, che la portò ad essere leader in Europa. Con utili così rilevanti, che oggi a Pordenone si dice: «Grazie al sistema fiscale autonomo, in Friuli le tasse pagate da Electrolux hanno finanziato l’intero sistema sanitario regionale».

Prima di arrivare ad avere bilanci stagnanti, con le lancette del suo orologio ferme sempre sulla stessa ora, l’Electrolux fece in tempo a diventare la Fiat del Nordest. Con uno stabilimento di tipo rurale, quello di Susegana, dove si producevano frigoriferi, e uno di stampo fordista, a Porcia, dove si affermò prima che altrove un modello partecipativo molto evoluto, che divenne oggetto di studio. Affrontando anche la notte buia del terrorismo con due cellule brigatiste, di cui una, a Susegana, che non venne mai scoperta, e una a Porcia, invischiata nel sequestro di Giuseppe Taliercio, negli anni 80.

Electrolux Interim Report Q3 2013 Presentation from Electrolux Group

Certo, ora che la saga imprenditoriale di Electrolux sta per concludersi – perché a voltarsi indietro si poteva intuire già da molti anni, che era stata studiata la road map dell’exit strategy verso l’Europa orientale – tutti quelli che vi hanno lavorato fanno l’elenco degli errori fatti dagli svedesi. A cominciare dal 1989, quando a Stoccolma venne fatto quello che qui si definisce in gergo berlusconiano un “colpo di stato”. Ossia quando, dopo un periodo di grande autonomia verso i country manager, si decise di far fuori la classe dirigente dei manager di primo livello per imporre, pare -questa è la versione italiana- un assetto verticistico. Commettendo “Errori giacobini”, li definisce Maurizio Castro nel suo libro “Piazze, Fabbriche, Palazzi”, ex direttore delle risorse umane dell’Electrolux, ora commissario straordinario di una società che fu parte del gruppo, Acc, produttrice di compressori, prima di essere venduta a dei fondi stranieri e arrivare così a 200 milioni di euro di esposizione commerciale e finanziaria (e ora dovrà gestire la transizione fino alla vendita a un gruppo cinese, nonostante sia stata risanata la parte produttiva).

Errori, quelli del management svedese, che hanno portato gradualmente alla perdita di identità e al disimpegno in Italia. «Sopprimendo la vitalità dei brand creati in Italia per far emergere solo quello di Electrolux, che ha contribuito alla sua perdita di identità», spiega un altro manager, che ricorda i tempi d’oro della lavatrice Jetsystem, progettata da Aldo Buriello, allora nelle retrovie, e poi diventato responsabile del reparto elettrodomestici. «A un certo punto avanzarono i giovani turchi che, alleati con gli svedesi, crearono una Zanussi deitalianizzata e divisa feudalmente in contee imperiali», scrive Castro nel suo libro. E forse non ha tutti i torti, se si guarda l’evoluzione delle vendite delle società di elettrodomestici dal 2010 al 2012.

Da cui si evince, che il cuneo fiscale è solo una parte del problema. Infatti secondo una ricerca sul mercato degli elettrodomestici (si vedano le tabelle in fondo, ndr) risulta che in Europa occidentale, dal 2010 al 2012, Electrolux ha perso il 3% delle vendite, mentre la tedesca Bsh (Bosh e Siemens) ha avuto un punto di crescita, Indesit è rimasta ferma allo 0%, lasciando alla turca Arcelik il primato del 15% di crescita. Va meglio ovviamente in Europa orientale, dove ha registrato una crescita del 8%, che però è inferiore persino a quella di Indesit, (+13%) e, ovviamente, a quella di di Bsh (+17%) . Electrolux perde persino negli Stati Uniti (-6%) e cresce bene solo in Brasile (+28%). Perciò, considerato che la crisi strutturale del settore è relativa (in Europa si è passati dalla produzione di 32 milioni di elettrodomestici a 25) allora, prima di permettere agli svedesi di mollare gli ormeggi per andare in cerca di operai e produzioni a basso costo, bisogna interrogarsi sulle loro responsabilità.

Anche perché gli ingegneri italiani di Porcia e di Susegana lavorano su molti progetti di alta qualità e disegnano anche frigoriferi per gli chef stellati, solo per fare un esempio. Dunque, dismettere o trasferire competenze di altissima qualità, sarebbe un’altra perdita irreversibile per quello che fu il sistema Paese dell’Italia. Del resto, ora che i dipendenti sono passati da 18mila ai 6.000 del 2014, bisogna ricordare che gli svedesi tentarono una brutale ristrutturazione in tutta Europa già nel 1996, quando l’Italia rispose proponendo un’asta internazionale per valutare la competitività di tutti gli stabilimenti. E vinse la scommessa, dimostrando di avere gli stabilimenti più competitivi del gruppo, grazie al sostegno di un valido negoziato, va detto, dell’allora ministro dell’Industria, Pierluigi Bersani. Insomma la storia di Electrolux è lunga e attraversa il secolo breve per arrivare al terzo millennio, in cui è facile prevedere la disfatta.

Nella Fiat del Nordest, è scritta la saga generazionale del nostro Paese. Alla periferia di Pordenone, a Porcia, dove oggi metà dei capannoni chiusi fanno venire un groppo alla gola ai protagonisti del suo successo, ormai preistoria, sono venuti a rendere omaggio all’inventiva italiana il presidente Giuseppe Saragat, Giulio Andreotti, e persino papa Wojtyla per cui, alla sua morte, lo stabilimento di Porcia si fermò per dieci minuti di silenzio. Intorno a questa vicenda si affollano tanti temi complessi sulla nostra storia industriale, che non possono essere ridotti al costo del lavoro. Perché se ci si limita ad osservare che un operaio costa all’ora sei euro, contro i 25 italiani, si perde la bussola e non si può capire il senso di una straordinaria, seppur travagliata, storia imprenditoriale italiana.

Ecco perché, secondo le nostre fonti interne a Electrolux, si conta e si spera sull’esitazione della famiglia Wallemberg a lasciare l’Italia, dopo 29 anni. A parole infatti fra i vari protagonisti di questa storia, si trovano, anche quelli che già rullano i tamburi di guerra e pensano che, se il gioco si fa duro, si può tentare il ricatto di un’ispezione fiscale o la richiesta di bonifica ambientale dei siti chiusi. Una minaccia, seppur velata, già presente fra le righe nella missiva mandata il 7 novembre scorso dai senatori Lodovico Senego e Maurizio Sacconi a Stoccolma e, per conoscenza, al presidente della Commissione Europea, Jose Manuel Barroso. Così, come ha voluto usare toni molti duri il governatore Luca Zaia, durante un’assemblea dedicata al caso Electrolux a Palazzo Ferro-Fini. La partita finale si giocherà a marzo-aprile, ma il derby giocato da un manager americano di scuola DuPont e uno svedese che viene dalla General Motors contro un’Italia debole, complice l’inerzia del governo Letta e una esplicita passività sindacale, parte già con un fallo in campo e un calcio di rigore. E il fischio si sentirà presto.  

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