Già sentiva scricchiolare la poltrona sul caso Shalabayeva, mentre continuano le bordate del segretario del Pd Matteo Renzi su unioni civili e ius soli. Ma adesso il ministro dell’Interno Angelino Alfano rischia davvero il posto al Viminale dopo la pubblicazione delle intercettazioni tra lui e l’ex patron Fonsai Salvatore Ligresti. Si tratta di una chiacchierata informale che risale al maggio del 2011, prima che scoppiasse lo scandalo Premafin. Nulla di penalmente rilevante, assicurano i magistrati dal palazzo di giustizia di Milano, ma sembra ripresentarsi una schema molto simile a quello di Annamaria Cancellieri sulla scarcerazione di Giulia Ligresti di questa estate, con nuove rivelazioni sui giornali che potrebbero trascinarsi per diversi mesi, di sicuro fino alle Europee, con lo spettro di una nuova mozione di sfiducia da parte del Movimento Cinque Stelle. D’altra parte, come si mormora in Transatlantico e nei corridoi della procura meneghina, non è che detto che le telefonate tra i Ligresti e l’ex Guardasigilli siano continuate pure in questa legislatura. Ma le pagine di intercettazioni sarebbe centinaia, pronte a finire sui giornali.
Il punto è sempre lo stesso. La stretta relazione della politica italiana con la famiglia di Don Salvatore. Ligresti era amico di tanti politici, a destra e a sinistra. A quanto pare, l’immobiliarista di Paternò e i suoi famigliari finiti agli arresti amavano spesso parlare con i ministri di Grazia e Giustizia o dell’Interno. Avevano una passione sfrenata per i prefetti, da Bruno Ferrante a Gian Valerio Lombardi: il primo lavorò pure per una società di Don Salvatore prima di finire all’Ilva di Taranto. Per di più per i Ligresti Alfano era davvero uno di casa. Perché il leader di Nuovo Centrodestra vive insieme con la moglie Tiziana Miceli in una palazzina che apparteneva a Don Salvatore prima dell’arrivo di Unipol.
Si trova ai Parioli, in via delle Tre Madonne, somiglia a un castello, per 200 mq al prezzo calmierato di 6mila euro al mese. Forze dell’ordine all’esterno, massima riservatezza. Già negli anni passati, quando Angelino era ministro di Grazia e Giustizia, c’è chi si domandava se diventare inquilino di Salvatore Ligresti, un ex pregiudicato condannato in Cassazione per corruzione ai tempi di Tangentopoli, non fosse sconveniente dal punto di vista dell’immagine. Alfano tirò dritto, forse memore di come Enrico Cuccia, storico patron di Mediobanca, accolse proprio Ligresti quando uscì dal carcere negli anni ’90: sotto braccio in giro per Milano. In questi mesi Alfano ha temuto «il metodo Boffo» da parte degli ex falchi pidiellini, dal Giornale di Alessandro Sallusti, persino da Panorama di Giorgio Mulè. Ma l’addio al Cavaliere non è stato così traumatico come si pensasse. E ora invece ci si è messa di mezzo la magistratura.
Alfano parlava proprio di case con Ligresti nella telefonate delle carte dell’inchiesta del pm Luigi Orsi su Premafin. L’ex Guardasigilli chiede a Ligresti chi sarà presente alla cena e l’ingegnere risponde: «C’è mio figlio, mia figlia, mia moglie non c’è perchè è dovuta rimanere a Milano». A questo punto Alfano replica dicendo: «se vuole che io venga da solo, se no io sono con mia moglie e con un amico». L’immobiliarista ribatte al ministro dicendo che ha «fatto fare un tavolo grande, quindi più siete, meglio è». Il ministro Alfano chiede allora se «suo figlio non doveva uscire con la Geronzi, con Mezzaroma e tutti gli altri» e Ligresti aggiunge che «anche se non c’è, non è un problema, poi verranno dopo». Anche le figlie di Cesare Geronzi, va detto, abitano in via delle Tre Madonne. I due si danno appuntamento per le nove in un albergo a Roma (l’Hotel Villa Pamphili) e l’ingegnere di Paternò insiste sul fatto che se il ministro vuole portare degli amici il posto c’è, facendo riferimento ai «vostri amici, quelli lì che devono venire» e Alfano replica che «quelli ancora a Milano sono, se lei non gli dà la casa non possono venire qua». La telefonata non è considerata in alcun modo penalmente rilevante, ma c’è spazio per nuove rivelazioni sui giornali.
Non è poi l’unico fronte. Perché al contempo continua l’indagine della procura di Roma sull’estradizione di Alma Shalabayeva, moglie del dissidente kazako Ablyazov. Dopo le dichiarazioni dell’ex prefetto Giuseppe Procaccini ai magistrati romani («Alfano sapeva della necessità per i kazaki di rintracciare Ablyazov ma non sapeva che la vicenda avrebbe potuto coinvolgere la moglie e la figlia»»), il Partito Democratico è uscito allo scoperto con un renziano di ferro come Roberto Giachetti. «Nei giorni scorsi», ha detto Giachetti, «l’ex prefetto Procaccini ha rilasciato un’intervista in cui, sostanzialmente, dice che il ministro Alfano gli ordinò di incontrare l’ambasciatore kazako. In base a tali dichiarazioni il ministro avrebbe mentito in Parlamento. Dunque Alfano o smentisce Procaccini o chiarisce in Parlamento. Se tace vuol dire che conferma le parole di Procaccini e che quindi ha mentito. Un ministro che mente al Parlamento se ne va».
Non basta. Tra le polemiche di un Mattinale di Renato Brunetta sempre pronto a bacchettarlo, ad esempio ieri sul Job Act («Che Angelino Alfano, al pari di Matteo Renzi, abbia la necessità e l’urgenza di uscire dall’angolo della subordinazione alla sinistra con qualche trovata contenutistica, è comprensibile. Abbia però l’onestà intellettuale di riconoscere i debiti politici e di non vendere col suo marchio la roba d’altri»), lunedì a Milano Alfano è incappato pure in una gaffe, facendo indispettire inquirenti e forze dell’ordine. Lo ha raccontato il sito Giustiziami. Il vicepremier non si è accontentato di rivelare che quattro persone, due moldavi e due romeni, erano state arrestate per una rapina. Ha anche aggiunto qualche dettaglio investigativo che si doveva tenere segreto: le indagini non sono ancora finite. Imbarazzi su imbarazzi. Che rischiano di non essere finiti…