L’intera, seppure breve, esistenza comunicativa del piano renziano per il lavoro (alle cronache “Jobs Act”) che sta vivendo in questi giorni il suo vero svezzamento mediatico è materia buona per appassionati di semiotica della comunicazione politica. Se si volesse condurre un’analisi della vicenda con gli strumenti classici della narratologia, sarebbe evidente come nell’azzeccata caricatura di Maurizio Crozza, il neo segretario del Pd Matteo Renzi appaia un esperto manipolatore delle categorie modali (le competenze di cui è dotato un personaggio in una storia) sono definite “far fare”, “far dovere”, “far volere”, “essere del fare”, “essere dell’essere”, e che possono essere incrociate in modo ancor più confuso. Ne ha parlato anche Luca Ricolfi su La Stampa (Le riforme non le fanno i dilettanti) accostando la proposta di Renzi al Manuale delle giovani Marmotte e cioè alle istruzioni per l’uso dei puntuali Qui, Quo, Qua per Paperino Letta che, in effetti, sul lavoro ha sin qui combinato ben poco.
Più facile è però porre attenzione a un altro aspetto narrativo della comunicazione renziana, ossia l’abilità nel mantenere nei sui discorsi sul Jobs Act la distanza tra un “noi” appena costituito (il nuovo Pd) e un “voi” (il resto del mondo politico e sociale che commenta e discute la proposta del Jobs Act) pur sempre trattenuto gentilmente nell’orbita della discussione.
Sarebbe però ingeneroso affermare che questo effetto sia la diretta conseguenza della componente affabulatoria della strategia di Renzi, che a ben vedere è almeno duale e combina slogan meramente cosmetici ed evasivi e prese di posizioni nette, perorate senza molti ripensamenti.
È così che il sindaco-segretario sta portando a compimento la strada intrapresa a marzo 2013 quando il lavoro era stato lanciato da lui stesso come nuovo cavallo di battaglia, che avrebbe programmaticamente sostituito l’antifona della “rottamazione”. Quella parola, secondo il neosegretario, non comunicava speranza. Ora era venuto “il momento di dire un’altra parola: lavoro” (L’Espresso). Proprio in quelle righe compariva per la prima volta il termine “Jobs Act” che avrebbe dovuto essere presentato tra aprile e maggio dello stesso anno. Renzi si è però riservato il lancio del piano per il momento migliore e solo durante le festività natalizie ha cominciato a presidiare la scena (sgombra) dei media, con il suo nuovo prodotto politico.
Che dir si voglia, oltre quelli meramente tattici, il metodo di Renzi ha effetti potenzialmente positivi anche per i contenuti. Innanzitutto Renzi e il suo staff sembrano aver selezionato accuratamente i tratti salienti del Jobs Act da anticipare. Questi sono risultati quantitativamente sufficienti a riportare il lavoro verso le prime pagine dei giornali e le aperture dei Tg, innescando un dibattito che ha il pregio di fare discutere delle soluzioni anziché lasciare ai media la celebrazione, spesso commiseratoria, dei pur drammatici problemi del lavoro.
Allo stesso tempo i contenuti anticipati sono stati qualitativamente insufficienti a permettere agli altri attori della scena di cavalcare consumati schemi ideologici. Saggiate le prime pur miti reazioni alla citazione dell’articolo 18, Renzi ha scelto di portare il dibattito fuori dall’ormai esausto nodo del licenziamento. L’articolo 18 è infatti un tema che, come dimostrano le analisi specialistiche, a partire dalla vicenda della riforma Fornero, non è più in grado di provocare sollevazioni popolari. Più che al vulcano pronto a riesplodere somiglia a una molla scarica, ma comunque deviante, un pantano da aggirare, onde evitare di assistere ad un confronto ricco di ritornelli ormai logori.
Lo scenario delle reazioni che emergono dai telegiornali del 9 gennaio, giorno successivo alla presentazione dello schema del piano sul sito di Renzi, è così di difficile definizione, composto da apprezzamenti e critiche tutto sommato blande, “liquide e magmatiche, confusive”, come le ha definite Beatrice Toro, psicologa e psicoterapeuta, docente dell’università Lumsa di Roma. Si è delineata quindi nel complesso una trasversalità delle aperture al dialogo che include gli ex Ministri Fornero e Damiano, la Cisl, nella sua freddezza la Cgil, persino Landini, nonché un acerrimo oppositore di Renzi come Nichi Vendola, che ha definito il suo stile “vitale”.
Ecco allora il secondo merito: essere riuscito a predisporre un dibattito a tensione polemica ridotta ma a mediatizzazione elevata; strano binomio, difficile da realizzare nell’informazione italiana.
Fare attenzione ai telegiornali, considerati da alcuni vecchi cerimoniali retorici destinati a poltrone ormai vuote, non è in questo caso superfluo ed è anzi utile a osservare come lo staff della comunicazione di Renzi non consideri la forma in modo separato dai contenuti.
Se Renzi è celebrato come il “nuovo che avanza”, il “chattatore incallito”, è invece attraverso i vecchi media che la comunicazione del Jobs Act è passata. Sono molti di più gli spettatori che l’hanno visto chattare con prodigiosa rapidità in tv nelle immagini riprese dal Tg La7, che gli utenti che hanno interagito con lui via Twitter durante l’iniziativa “Matteo risponde”. E per contare i suoi tweet con hashtag #jobsact da novembre ad oggi vi basterà una mano.
Per contro Renzi ha presidiato soprattutto gli studi televisivi. Nel mese di novembre, cumulando talk show e notiziabilità sui Tg, è stato “campione delle apparizioni in tv” e in poco più di un mese è stato in prima serata a Ballarò, a Ottoemezzo e due volte a Che Tempo Che Fa. L’ultima il 22 dicembre, giorno in cui La Repubblica annunciava l’imminente presentazione del piano.
Fatto curioso: se si sottraggono i passaggi nei Tg, Renzi non è più “campione”, a dimostrazione del peso che i telegiornali hanno avuto e avranno per la comunicazione del Jobs Act.
Fare riferimento a Twitter è semmai utile per evidenziare come lo staff di Renzi sappia ascoltare le reazione prontamente, predisponendo correzioni di rotta precise. E qui infatti che si è svolto maggiormente il dibattito tra gli specialisti, basta guardare la timeline dell’account @JobAct_Italia per rendersene conto (nonché il Bollettino Speciale ADAPT n. 2/2014) .
Se si riflette sul sottile cambio di termine da “Job Act” a “Jobs Act”, due denominazioni distinte solo da una sibilante, è facile notare come tutto d’un tratto nella e-news del 2 gennaio, Renzi cominci a usare il plurale. Fatto che si evince anche da un confronto tra i tweet emessi con hastag #jobact e #jobsact. Se mentre tra il 24 e il 26 dicembre i tweet con hashtag #jobact superano di poco quelli con l’hashtag al plurale, che sono però quasi pari a zero, dal 6 gennaio #jobsact fa segnare il distacco.
Quale sia la ratio dietro a questa scelta non è dato sapere. Forse Renzi voleva ricalcare l’acronimo americano (jumpstars our businnes startup)? O più probabilmente mirava a tenersi più lontano possibile dalla disputa sul contratto unico (cfr. Martina Ori) aderendo pienamente alla terminologia e allo spirito della riforma tentata da Obama?
Quello che è certo è che da ora in avanti l’opera di composizione degli umori e delle posizioni per Renzi si farà sempre più difficile. Perché alla prova dei contenuti di dettaglio, quando il Jobs Act assumerà i connotati di una vera riforma, molto dipenderà dal peso di chi sarà scontentato.
Solo se della strategia comunicativa di Renzi continuerà a giovare non solo la sua visibilità, ma anche la partecipatività non ideologica alla costruzione del futuro del lavoro, avvisteremo i primi benefici per tutti.