Il terremoto delle espulsioni segna una svolta nel Movimento 5 stelle, tra addii e scoramento. È il momento delle riflessioni ma è anche la fine del bicameralismo imperfetto, quello di cui Linkiesta scriveva a giugno esemplificando la convivenza atipica tra le pattuglie M5s a Montecitorio e Palazzo Madama. Due gruppi lontani per età, temperamento e sensibilità, ma che procedevano paralleli verso le Stelle del programma. Da una parte saggi e moderati, dall’altra giovani e ortodossi.
Oggi si afferma il modello della Camera, quello dei deputati che percorrono la strada tracciata dai diarchi senza deviazioni. «Mediaticamente hanno vinto loro, vedremo in futuro», confida una senatrice a taccuini chiusi. È la deflagrazione di un modello che a Palazzo Madama aveva visto crescere un’isola quasi felice di competenze e dialogo, che ora lascia il passo a urla e lacrime, ad accuse reciproche e rapporti umani in frantumi. Le voci intercettate scelgono la parola «dolore». Bruciano gli atteggiamenti di Grillo che odorano di delegittimazione. Fanno male le reazioni dei colleghi integralisti, «davanti ai quali c’è imbarazzo e alcuni di noi non hanno retto la tensione».
Al Senato l’età avanzata mitigava l’intransigenza di molti. Un gruppo unito nelle diversità, che per mesi ha lavorato integrando le dissidenze che pure erano numericamente presenti, capaci di incidere sugli equilibri interni. «Abbiamo collaborato bene e alla base c’era un forte legame umano», sospira un senatore. Qui Orellana è stato prima il candidato presidente del Senato per il Movimento e poi in ballottaggio per il ruolo di capogruppo con Nicola Morra (finì 24 a 22). Lo stesso Lorenzo Battista ha sfiorato la carica per un pugno di voti. «Fabrizio Bocchino? Un valore inestimabile per il gruppo», confida a Linkiesta un senatore ortodosso, ma con la voce rotta. Adesso non se ne vanno solo i quattro espulsi: vengono confermati cinque addii volontari, altri sono incerti. A risentirne è la vita politica della pattuglia che, oltre a vedere ridimensionato il «potere contrattuale» a palazzo Madama, perde una parte dei soldi destinati al gruppo (con i senatori che già paventano il «rischio licenziamenti» per i dipendenti), senza contare i cambiamenti di caselle nelle commissioni che, per riequilibrare le presenze in quota M5s, interromperebbero attività già cominciate.
Hanno formalizzato le dimissioni Maria Mussini, Monica Casaletto, Alessandra Bencini, Maurizio Romani e Laura Bignami. Ma ballano altri scontenti in predicato di andarsene, ragion per cui giovedì è andata in scena una riunione fiume per provare a ricucire. Le motivazioni sono legate alla democrazia interna e ai pilastri del progetto stellato «che ha preso una brutta piega». Alcuni di loro non sono mai finiti nelle liste di proscrizione e riscuotono stima trasversale per l’attività a Palazzo, partiti coi banchetti quando il Movimento faceva percentuali «da prefisso telefonico». Il Senato stellato perde alcuni tra i suoi uomini migliori, know how intessuto di lavoro e studio. Maria Mussini, ricercatrice apprezzata tra i colleghi, ma anche Maurizio Romani che spiega così il suo addio: «Vedo guerre dappertutto, non è più il mio Movimento, non voglio essere complice di questa specie di linciaggio». Oggi sbatte la porta, a gennaio era ad un passo dal ruolo di capogruppo: andava al ballottaggio con quel Maurizio Santangelo che ora è sul banco degli imputati per la gestione delle espulsioni. Al netto dei se e dei ma, più di qualcuno si morde le labbra ripensando a quel bivio.
Sulla testa di Santangelo, fedelissimo doc, piovono tegole pesanti. Le accuse sono quelle di aver promosso la procedura di espulsione senza esperire i passaggi necessari da regolamento. Senza che fossero chiariti i capi di accusa e gli accusatori, dando vita a un processo sommario e sbrigativo «che qualcuno ha deciso di accelerare». Gli rimproverano di non aver mediato neanche un po’: «Si è dimostrato inadeguato». Lo additano come «un mero esecutore di ordini superiori, di decisioni già prese in altre sedi». Poi Mario Michele Giarrusso lo accusa di aver presentato, anche a suo nome, due mozioni di sfiducia ai ministri Guidi e Poletti «che non sono nemmeno state discusse in assemblea». Stessa grana per l’impeachment a Napolitano, «che ci è caduto sulla testa senza che ne parlassimo». Avanza l’ombra di un direttorio che spinge i progetti chiave del Movimento senza passare dal giudizio dei parlamentari.
Dopo le epurazioni e gli addii volontari la pattuglia di palazzo Madama si lecca le ferite e prova a fare quadrato sull’opposizione al governo e sul cammino elettorale verso le europee, con Nicola Morra che scomoda la storia: «Siamo all’assedio di Stalingrado, anzi di Leningrado, questa è una guerra, una guerra vera». Ma Serenella Fucksia avverte: «Siamo almeno in venti in forte disagio». Indeboliti, fiaccati, ma combattivi. E anche un ortodosso come Maurizio Buccarella, provato fino alle lacrime dal terremoto di questi giorni, chiede un cambio delle regole per le procedure di espulsione che fino ad oggi hanno assunto i tratti dei processi sommari. «Più di cento persone con tempi di intervento di due minuti ciascuno e senza possibilità di replica non possono raggiungere un convincimento fondato su argomentazioni e dati solidi». Continua Buccarella: «Sapere di cosa si è accusati e la possibilità di potersi difendere devono essere i principi minimi da rispettare per dare dignità all’iter».
Alla Camera hanno detto addio ai Cinque Stelle Alessio Tacconi e Ivan Catalano. Altri tre o quattro potrebbero seguirli per la gioia dei pasdaran, che insistono sulla linea del «meno siamo meglio stiamo». Sono scesi in campo anche i leader in pectore Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista usando l’artiglieria pesante. «Ma non fanno un minimo di elaborazione critica della vicenda», lamenta un dialogante che vorrebbe una riflessione anche da loro. I senatori chiedono che «i ragazzi della Camera comincino a darsi una calmata anche perché dal nostro gruppo a palazzo Madama se ne stanno andando ottime persone che i deputati nemmeno conoscevano». Da Montecitorio rispondono che «va bene la competenza, ma ci vogliono buon senso e rispetto delle regole interne, che fino ad ora non sempre ci sono stati». Intanto infuriano i retroscena su questioni di rendicontazione e venti di correntismo ascrivibili ai dissidenti, i quali contrattaccano con accuse di Meetup pilotati dai parenti dei fedelissimi. Circolano conversazioni private e insulti a viso aperto in una faida che qualcuno bolla come «macchina del fango», mentre altri la infiocchettano alla stregua di un’operazione verità.
Come cambia il Movimento dopo il terremoto delle espulsioni? «Deve passare la nottata, forse più di una», sospira un senatore al telefono con Linkiesta: «È uno sbandamento che fa male al gruppo». Il ragionamento prosegue amaro con una collega di palazzo Madama: «In passato alcuni errori hanno portato a ripensamenti, penso all’espulsione di Adele Gambaro e al successivo rafforzamento della nostra presenza in tv. Speriamo che anche stavolta si possa imparare qualcosa». Seicento metri in linea d’aria, a Montecitorio il clima è diverso, qui lo scoramento cede il passo all’energia. Il deputato Giuseppe D’Ambrosio professa ottimismo: «Da oggi il nostro percorso cambia in meglio e ne usciremo più forti di prima. Quello dei quattro dissidenti è un problema che abbiamo tollerato per troppo tempo, anche perché in ogni assemblea non erano loro i “non liberi”, ma tutti gli altri che avevano paura di potersi esprimere liberamente visto che poi qualcuno andava a spifferare a giornali e tv». I ragazzi della Camera sorridono e tirano dritto. Tengono in mano il pallino della marcia stellata e rilanciano la guerra al governo: «Siamo coerenti, lo dobbiamo ai cittadini».