Chef Rubio mi affascina. Sarà che è un personaggio talmente inedito in Italia da spiccare indiscusso nella marea di programmi cucina-riferiti che spopolano in TV e ai quali, naturalmente, non riesco a restare indifferente. Sarà il rugby, sarà lo street food, saranno i tatuaggi e i baffi arricciati all’insù – che ora ha sostituito con una barba incolta – ma ha la capacità di scansarmi via dalla bolgia dei Bastianich, Cannavacciuolo e Cracco che ammiro in segreto ma pubblicamente odio. Ecco, Rubio è un’ottima sintesi di ciò che ha il potere di assolvermi pur facendo io parte delle schiere teledipendenti che si lasciano facilmente affascinare dal trend ma sentono il bisogno di fare finta di niente e di commentare con snobismo. È una specie di hipster itinerante e godereccio, verace, acuto e a tratti inquietante.
La prima volta che l’ho visto in televisione stava pescando delle patelle fresche dal secchio di un pescivendolo al mercato di Catania, e mi ha ricordato Andrew Zimmern. Poi era a bordo campo durante una partita di Celtic League e qualcuno mi ha detto che è un ex giocatore di Super Dieci, quella che oggi si chiama Eccellenza. «Ho iniziato a giocare a rugby a Frascati – mi ha raccontato qualche giorno fa per telefono – dove a calcio sono delle pippe, e quindi hanno sviluppato una bella tradizione rugbistica. Avevo dieci anni, ho fatto per un po’ la seconda linea, poi ho smesso di crescere e quindi sono rimasto a terza ala. Dopo Frascati sono venute Overmach Parma e Rugby Roma, poi però sono partito per la Nuova Zelanda. Era un periodo in cui non ne potevo più dell’Italia per varie ragioni e in Nuova Zelanda ho trovato una situazione strana: il rugby lì è preso molto più seriamente ma paradossalmente è anche molto più amatoriale, quindi per giocare bisogna anche avere un lavoro. Ho cominciato a lavorare in un ristorante vicino a Wellington e intanto giocavo con il Poneke RFC, solo che i neozelandesi sono predisposti fisicamente e andavano a ritmi altissimi con due allenamenti a settimana, io dovevo fare pesi nelle pause del lavoro per stargli dietro. Era una cosa sfiancante. Bellissima, ma sfiancante. Quando sono tornato in Italia sono stato un po’ col Piacenza e poi a Rovigo. Qui è successa una cosa strana, ero al massimo della forma e ai livelli più alti della mia carriera – in Super Dieci – mi sono infortunato e ho preso il mio infortunio come un segnale per fermarmi. Allora ho continuato un po’ a giocare come semiprofessionista nella Lazio, ma intanto studiavo all’ALMA ed è stata una cosa determinante per la mia carriera gastronomica, naturalmente. Ora non gioco più, ma posso dire di essermi tolto qualche soddisfazione».
All’ALMA, che poi è la scuola di cucina di Gualtiero Marchesi, Rubio – che io non so ancora se chiamare Rubio o Gabriele – si è diplomato nel 2010. Immagino che sia a quel punto che ha avuto modo di sviluppare il gusto per il cibo di strada e ha deciso di portarlo fuori da sé, prima col web e poi con la televisione. Unti e bisunti, il suo primo programma, andato in onda nell’estate 2013 su DMAX, è stato un grande successo forse proprio per la spontaneità naturale con cui Rubio si è aggirato per l’Italia per scovare i migliori cuochi di strada e sfidarli sul loro stesso campo. Staccandosi dalla tradizione à la Masterchef, «a cui devo moltissimo, se non fosse esistito quello standard io non avrei mai trovato l’ispirazione per fare quello che ho fatto sul web, non sarei arrivato in televisione e non avrei trovato terreno fertile per avere il successo che ho avuto», e congiungendosi a qualcosa che somiglia di più ai format statunitensi del genere Man vs Food, o a una trasmissione inglese che suona tipo Rough Britain ma che in due spremendoci le meningi non siamo riusciti a ricordare con precisione. «La prima stagione di Unti è stata un’esperienza fantastica, perché mi ha dato la possibilità di portare al pubblico il modo in cui io normalmente mi rapporto al cibo. Abbiamo fatto qualcosa di più vicino al cinema che alla televisione, per la naturalezza con cui abbiamo affrontato la prova e la qualità del prodotto finale, e poi mi ha fatto crescere un sacco come persona e come professionista, rimanendo fedele a me stesso». La prossima stagione è prevista per la primavera – Rubio mi dice che hanno già cominciato a lavorarci – e se bissa i numeri della precedente posso facilmente lasciarmi andare a un fischio ammirato.
«Smettere di giocare a rugby non è stato facile, ma è stato provvidenziale. Dopo quattro anni alla Lazio mi sono fermato completamente, ma questo mi ha permesso di cominciare a viaggiare senza dover chiedere il permesso a nessuno, e ho potuto cominciare a fare quello che faccio ora. Andare in giro e scoprire piatti, gusti, cucine». Però il rugby gli è rimasto un po’ dappertutto addosso e in maniera abbastanza evidente da farlo finire nella squadra di DMAX che seguirà il Sei Nazioni – con Vittorio Munari, Antonio Raimondi, Paul Griffen e Daniele Piervincenzi. Anzi, da aprire le danze con Il cacciatore di tifosi, programma con il nobilissimo ma ingrato obiettivo di portare nuova linfa allo sport, reclutando pubblico per il rugby italiano. «Non è stato difficile in realtà, quando hai una telecamera non è mai difficile. Abbiamo lavorato con persone che di rugby non sapevano nulla, ma sono stati fantastici. Si impegnavano, si appassionavano. Sinceramente non pensavo che il rugby avesse tutto questo richiamo, invece è in salita vertiginosa. Già il fatto di andare in chiaro su DMAX è un grosso segnale di apertura fuori dalla nicchia. Poi sono d’accordo con te quando dici che è il momento di trasformare il rugby in uno sport e farlo smettere di essere un fenomeno di costume [una mia vecchia mania]. Io ci sono cresciuto dentro e l’ho visto crescere. I successi e le sconfitte della nazionale sono stati ugualmente importanti, sia per i nostri giocatori, sia per il pubblico, che sta imparando a guardare il rugby come una competizione e non più come la strana tendenza filtrata dalla retorica del terzo tempo. Poi è ovvio che crescendo noi, crescono gli avversari, solo che se prima c’era sempre la scusa dell’imbattibilità degli altri ora possiamo arrivare fino alla fine delle partite e contare i punti. Possiamo valutare la qualità dei singoli con oggettività e anche incazzarci se perdiamo».
Il Sei Nazioni per l’Italia si aprirà alla grande o in maniera pericolosissima, a seconda delle prospettive. La prima partita è contro il Galles a Cardiff, e non molto tempo fa Warren Gatland ha dichiarato che schiererà la formazione più forte mai scesa in campo contro l’Italia. «Non so se è un buon segnale o una dichiarazione standard, so che il Galles è praticamente imbattibile, ma questo non vuol dire che non possa andarci bene. Non ho mai visto questa nostra nazionale all’opera, so che hanno richiamato anche persone che non si vedevano da un po’ e nessuno degli addetti ai lavori sa dire esattamente come sarà, però se hanno avuto il tempo per prepararsi, per legare tra loro, le cose possono pure mettersi bene». Per il resto, Rubio cercherà di fare da tramite con il pubblico meno esperto dallo studio prima e dopo ogni partita, traducendo, di fatto, i tecnicismi – ma con l’assoluto divieto di rimarcare il fatto che la palla è ovale. Una grande responsabilità, se me lo chiedete, ma sicuramente più che mai alla portata della verve innata dello chef senza cucina. «Se sarà il caso di fare un gesto avventato da striker e invadere nudo il campo, lo valuteremo in base a che tempo fa». Ride.
Quello che vorrei, e che mi sono fatto promettere, è di rivedersi a torneo concluso per tirare le somme e magari scambiarci qualche considerazione sul fatto che non c’è cibo migliore di quello mangiato in piedi.