Oggi è il trentesimo anniversario della morte di Julio Cortázar, il migliore scrittore argentino di tutti tempi, dopo Jorge Luis Borges, ovviamente, che giocava su un altro campo da gioco, irraggiungibile da tutti gli altri.
Julio Cortázar era un gigante. Lo era dal punto di vista fisico, era alto quasi due metri; lo era dal punto di vista letterario, come continuatore della ricchissima vena aurea del fantastico argentino, ma anche come innovatore e elemento di rottura degli stili e delle forme del romanzo; lo era dal punto di vista dell’attivismo politico, inquanto strenuo oppositore di ogni dittatura – quella cilena, quella uruguaiana e quella nicaraguense, oltre a quella argentina, che dal 1970 fino a pochi mesi prima della morte, non gli permise di tornare in Argentina.
Il giornalista Jason Weiss nel cappello a una delle ultime interviste rilasciate dall’argentino e pubblicata su the Paris Review, scrisse che, tra il dicembre del 1983 e il gennaio del 1984, poco prima della morte, Cortázar potè tornare a visitare – per l’ultima volta – il suo paese, dopo 14 anni di assenza. La situazione era tornata favorevole grazie alla vittoria alle elezioni dell’avvocato Raul Alfonsin, il primo presidente democraticamente eletto dopo gli anni di dittatura dei generali e Cortázar, seppur non accolto ufficialmente neppure dal ministro della Cultura del governo Alfonsin, fu accolto quasi come un eroe.
Una sera, a Buenos Aires, uscendo da un cinema dove avevano appena visto il nuovo film tratto dal libro di Osvaldo Soriano No habra ni mas pena ni olvido, Cortázar e, e i suoi amici finirono in mezzo a una manifestazione studentesca. Non appena gli studenti si accorsero di lui ruppero le fila e lo attorniarono in un istante. Le librerie sui viali erano ancora aperte, e gli studenti corsero a comprare i suoi libri per farseli autografare. A un certo punto, un commesso, scusandosi di non avere più copie dei suoi libri, tirò fuori un libro di Carlos Fuentes e glielo diede da autografare.
Pur avendo vissuto per metà della sua vita all’estero, quell’uomo alto e smilzo che parlava con la erre francese, al suo ritorno in patria dopo quasi quindici anni di esilio venne accolto come un eroe, e aveva tutte le carte per esserlo: era un idealista, un rivoluzionario, uno scrittore dominato dalle sue ossessioni, uno dei più grandi maestri del racconto breve e di quella tipologia della letteratura fantastica in cui ingredienti sono l’inquietudine, il vuoto, l’assenza, il bordo dell’abisso, la disperazione che può sbucare fuori da ogni angolo o cassetto della quotidianità. Era un uomo che amava la vita, la musica, il tabacco, le donne e la compagnia degli amici, ma, nello stesso tempo, amava cercare la solitudine, magari quella notturna delle strade di Parigi.
Da La casa occupata, meraviglioso e inquietante racconto che gli valse l’attenzione di Jorge Luis Borges e che lo stesso Borges incluse nella sua mitica Antologia della letteratura fantastica (curata insieme agli amici Adolfo Bioy Casares e Silvina Ocampo), passando da quella straordinaria perla che sono le Storie di cronopios e famas, Cortázar ci ha lasciato alcune delle più belle pagine del Novecento.
Per ricordarlo oggi, nel giorno del trentesimo anniversario della sua morte e nell’anno del centenario della sua nascita, il 26 agosto, la cosa migliore è leggere le sue parole. Qui di seguito trovate tre brevi storie, estratte della raccolta Animalia, pubblicata nell’ottobre 2013 da Einaudi (che ringraziamo per la concessione). Buona lettura.
Ma guarda, una palla di pece che si slunga e poi si gonfia filtrando attraverso la fessura finestra di due alberi. Oltre gli alberi c’è una radura ed è lí che la pece medita e pro- getta la sua sfericità, secondo la formula palla e zampe, la forma pece peli zampe e poi il dizionario orso.
Adesso la pece palla emerge umida e morbida scrollandosi di dosso formiche infinite e rotonde, le semina in ogni impronta che va lasciando armoniosamente man mano che va avanti. Voglio dire che la pece proietta una zampa orso sugli aghi di pino, fende la terra liscia e liberandosene disegna una pantofola sfondata in punta e lascia nascente un formicaio molteplice e rotondo, fragrante di pece. Cosí su ciascun bordo del sentiero, fondatrice di simmetrici imperi, va la forma pelo zampe mettendo in piedi una costruzione per formiche rotonde che si scrolla umida di dosso.
Infine sorge il sole e l’orso morbido volge una faccia animata e infantile al gong di miele che vanamente brama. La pece ora sta annusando intensamente e cresce la palla al livello del giorno, peli e zampe soltanto pece, peli zampe pece che mormorando una preghiera ne spia la risposta, la profonda risonanza dell’alto gong, il miele del cielo sulla sua lingua muso, sulla sua gioia peli zampe.
Istruzioni per ammazzare le formiche a Roma
Le formiche si mangeranno Roma, sta scritto. Fra le lastre di pietra vanno; lupa, quale corso di pietre preziose ti seziona la gola? Da qualche parte le acque qui escono dal- le fonti, le ardesie vive, i tremuli cammei che a notte fonda biascicano la storia, le dinastie e le commemorazioni. Dovremmo trovare il cuore che fa pulsare le fonti perché si premunisca contro le formiche, e organizzare in questa città turgida di sangue, di cornucopie ritte come mani di cieco, un rito di salvazione affinché il futuro si limi i denti sui monti, si trascini ammansito e senza forze, completamente senza formiche.
Prima di tutto cercheremo di individuare la disloca- zione delle fonti, cosa facile perché nelle mappe a colori, nelle piante monumentali, le fonti hanno anche zampil- li e cascate celesti, basta cercarle bene e inscriverle in un recinto di matita blu, non rossa perché una buona mappa di Roma è rossa, come Roma. Sul rosso di Roma la mati- ta blu traccerà un recinto viola attorno ad ogni fontana, e solo cosí possiamo essere certi che ci sono tutte, che ne vediamo i fiorami.
Piú difficile, piú segreta e raccolta, è la fatica di perforare l’opaca pietra sotto la quale serpeggiano le vene di mercurio, intendere a forza di pazienza il cifrario di ogni fontana, mantenersi nelle notti di luna penetrante in una veglia innamorata presso i bacini imperiali, finché da tanto sussurro verde, da tanto gorgogliare fiorito non vadano nascendo le direzioni, le confluenze, le altre strade, quelle vive. E senza dormire, seguirle, con bacchette di noccio- lo a forma di forcella, di triangolo, con due bacchette in ciascuna mano, con una sola tenuta pendente fra le dita molli, ma tutto questo invisibile ai carabinieri e agli abitanti gentilmente diffidenti, girare per il Quirinale, salire al Campidoglio, correre esultanti per il Pincio, sbaragliare con una apparizione immobile come un globo di fuoco l’ordine di piazza Esedra, e cosí estrarre dai sordi metal- li del suolo la nomenclatura dei fiumi sotterranei. E non chiedere aiuto a nessuno, mai.
Dopo, pian piano, si vedrà come in questa mano di marmo scorticato le vene corrano armoniose, per gioia d’acque, per artificio di gioco, avvicinandosi infine a poco a poco, e confluire, allacciarsi, crescere in arterie, riversarsi dure nella piazza centrale ove palpita il capitello di vetro liquido, la radice di pallide coppe, il cavallo profondo. E sapremo ormai dove si trova, in quale conca di cupole calcaree, fra piccolissimi scheletri di lemuri, ritma il suo tempo il cuore dell’acqua.
Costerà saperlo, ma lo sapremo. Allora ammazzeremo le formiche, avide di fonti, con una colata di calce nelle gallerie che gli orribili minatori tessono per avvicinarsi alla vita segreta di Roma. Ammazzeremo le formiche solo se sapremo arrivare alla fontana centrale. E ce ne andremo con un treno della notte e fuggiremo le lamie vendicatrici, oscuramente felici, confondendoci fra i soldati e le monache.
Che le tartarughe siano grandi ammiratrici della velocità è cosa del tutto naturale.
Le speranze lo sanno, e se ne infischiano.
I famas lo sanno, e ne ridono.
I cronopios lo sanno e ogni volta che incontrano una tartaruga tirano fuori i gessetti colorati e sulla curva lavagna della tartaruga disegnano una rondine.