Il mondo va a fuoco, per cui mi è venuto in mente Breece D’J Pancake. Forse non esattamente nell’ordine diretto che l’analogia sembra suggerire, ma più o meno. Sono passati trentasette anni da quando si è ucciso, trentacinque da quando The Stories of Breece D’J Pancake è stato pubblicato negli Stati Uniti, nove anni da quando è stato tradotto per la prima volta in italiano, in una raccolta che si chiamava Trilobiti (ISBN, 2005) e quattro anni da quando quella raccolta è stata ripubblicata. Non ci sono anniversari né dalla nascita – il 29 giugno 1952 – né dalla morte – l’8 aprile 1979. Non c’è niente di niente che avrebbe potuto farmi venire in mente Breece D’J Pancake, a parte il fatto che una buona parte del mondo sta andando a fuoco.
A pensarci bene, nemmeno le fiamme c’entrano molto, se non nell’accezione del fatto che uno scrittore di ventisette anni che si spara un colpo alla testa è ideologicamente vicino a quello che succede nelle strade di Kiev in maniera inquietante. C’è la presa di coscienza, la vita invivibile, la giovinezza che se ne va in un botto e – va bene – ci sono le fiamme.
Pancake era un figlio della Virginia, era nato a South Charleston e aveva vissuto tutta la vita nel ricordo e nella percezione delle miniere come esempio di lavoro duro e necessario e dell’alcol come fuga da quella percezione. La zona nei pressi di Milton, dove Pancake è cresciuto, è conosciuta come Chemical Valley per via della concentrazione di fabbriche che la macchiano come un morbo. C.R. Il padre di Breece ha lavorato per la Union Carbide per più di trent’anni, ha avuto problemi di alcolismo ed è morto per complicanze legate alla sclerosi multipla. Helen, sua madre, era una bibliotecaria. È da lei che Pancake ha probabilmente ereditato, o mutuato, la passione per la lettura e la cura al limite del maniacale che ha in seguito dedicato ad almeno cinque dei suoi dodici racconti pubblicati. Qualche anno fa, alla ricerca spasmodica di qualsiasi altro scritto di Pancake, mi sono imbattuto in una raccolta di saggi dal titolo A Room Forever, di T.E. Douglass, che raccoglie testimonianze e storie utili a ricostruire i lati più oscuri della sua breve vita. Secondo Douglass il nome Breece venne scelto da Helen a caso dalle pagine sportive di un quotidiano, il cognome è un’anglicizzazione di Pfannkuchen, mentre le iniziali D’J sono saltate fuori anni dopo, da un errore di stampa mai corretto.
Una delle poche foto esistenti di Breece D’J Pancake
A parte l’ambiente della Virginia industriale, le miniere e le fabbriche, nel baleno della vita adulta di Pancake non c’era molto più grigio di quanto lui non volesse vederne. Si era diplomato brillantemente e aveva frequentato il college prima di vincere una borsa di studio per l’Università della Virginia. Intanto scriveva, e le premesse sembravano incoraggianti dal momento che era riuscito a ottenere un paio di richieste di pubblicazione dall’Atlantic, stimolare l’interesse di un editor del New Yorker e quello di un editore, che gli avrebbe a breve ordinato un romanzo. Dall’altra parte della barricata emotiva c’era qualche evento che ad analizzarlo oggi potrebbe essere messo in relazione con il suo suicidio. La morte del padre, innanzitutto, e quella del suo migliore amico in un incidente d’auto. Poi il rifiuto di sposarlo da parte della fidanzata, influenzata dalle pressioni della famiglia. «I suoi genitori hanno deciso che non vado abbastanza bene per lei» scriveva alla madre. La questione amorosa fa parte della produzione di Pancake tanto quanto i cani e le armi, il ferro e le roulotte, e la sua difficoltà a rapportarsi ad esse risuona in ogni paragrafo e appare evidente nell’impossibilità di trattare i personaggi femminili.
Come il padre, Pancake aveva problemi con l’alcol. E soffriva di depressione, soprattutto per la difficoltà di trovare la stabilità lavorativa. In ogni caso, scrive Douglass, le ragioni del suicidio rimangono da stabilire. Le circostanze della sua morte sono poco chiare e sembrano suggerire uno stato di confusione al momento dell’atto. Quello che Pancake non sapeva, ma che con tutta probabilità avrebbe potuto immaginare, era che qualche giorno dopo il suo suicidio sarebbe arrivata un’offerta per un posto da insegnante al Fine Arts Work Center di Provincetown, che avrebbe potuto strapparlo dal mal di vivere e magari salvarlo da una fine venuta troppo presto. Oltre che dare a noi la possibilità di godere ancora per molto tempo di tutto il suo genio inespresso.
Per quanto riguarda la scrittura, Pancake era maniacale, ossessivo. I critici che nel corso degli anni hanno analizzato il suo lavoro sono abbastanza d’accordo nell’affermare che solo quattro — o cinque al limite dei racconti pubblicati, corrispondono effettivamente allo standard altissimo che lo scrittore si prefiggeva. «Alla stesura di una storia dedicava quattro versioni a mano libera e una decina a macchina, dense di correzioni, aggiunte, appunti» scrive John Michaud sul New Yorker. E questa estesa compulsione e ricerca della perfezione colano fuori da ogni sua frase, da ogni sua parola. Ogni suo racconto è un’escalation di violenza sempre meno velata, un assembramento di brutalità e un ritorno, forzato, quasi obbligato contro la volontà del lettore, a una sorta di esistenza primordiale. Perfettamente integrata nella modernità degli anni ’70. Anche allora, fuori dagli Appalachi, il mondo andava a fuoco, ma nella Chemical Valley non c’era niente di diverso da quello che era stato per i vent’anni precedenti. Una vita lenta e feroce, che Pancake esaltava e odiava allo stesso tempo, che lo castrava e lo ispirava e lo aveva portato alla necessità di scrivere con una violenza che solo pochi altri raccontisti prima di lui hanno dimostrato. C’è in qualcosa nel primo Hemingway e sicuramente in un altro capolavoro in sordina come Winesburg, Ohio di Sherwood Anderson.
Col tempo Pancake è diventato uno di quegli scrittori amati più dagli altri scrittori che dai lettori. Ma non è un destino che merita, né che avrebbe voluto. Non era nato per trasformarsi in un feticcio per gli addetti ai lavori, ma per far parte del nuovo corso di realismo americano. Tanto amato ultimamente e tanto orfano di una penna così pulita e diretta. Tagliente, disperata, sacra.
Non si trova molto sul web di Breece D’J Pancake, ma a questo link potete leggere Trilobites, l’unico racconto pubblicato sull’Atlantic prima della sua morte.