Così è…se traspare. Storie di finanza e (mancanza di) trasparenzaLe banche italiane si ispirano alle peggiori tedesche

Rischio sovrano e rischio di credito

“Si può ben dire che siamo ora quasi ad un cambio di paradigma per cui se fino a ieri contava soprattutto la gestione dell’attivo e il passivo era ritenuto funzionale ad un adeguato, e tutto sommato piuttosto semplice, finanziamento delle strategie di finanziamento degli impieghi, oggi sembra essere giunti a un modello in cui è necessario dapprima trovare le risorse da impiegare e poi pensare al modo più redditizio ed efficiente di investirle”

Questa frase, tratta dalla parte monografica del rapporto di previsione ABI, e il commento di Antonio Vanuzzo su queste colonne, che la integrava con un approfondimento del ruolo dell’investimento in titoli da parte delle banche, hanno scatenato in me un episodio di “memoria involontaria” à la Proust. Mi sono tornati alla mente tanti dibattiti di un epoca lontana, prima dell’euro e addirittura prima del crollo del muro. E il mio primo lavoro da economista professionista. Rileggendo quel lavoro e cercando di stimolare ancora più a fondo la memoria, possiamo tracciare un parallelo tra la banca di oggi e la banca che fu, e cercare di capire cosa sia contingente e cosa sia secolare nel dibattito di oggi sulla banca in Europa. Insomma, è una buona occasione per una ricerca del tempo perduto, anche nel sistema bancario.

Era una mattina di luglio del 1989, uno o due giorni dopo il mio compleanno, e entravo per la prima volta in un vecchio palazzo di via Borgonuovo a Milano. Era il mio primo giorno all’Ufficio Studi COMIT, e mi sentivo come se un secolo di storia mi guardasse. Mi accolse Angelo Baglioni, che mi mostrò la mia scrivania e quasi si scusò perché era al buio mentre lui, che era arrivato sei mesi prima, ne aveva una alla finestra. Poi venni convocato dal capo sezione, Gregorio De Felice (oggi capo economista di Intesa) che mi diede (con l’aria di propormeli) i primi compiti, e uno in particolare era proprio: una ricerca sull’investimento in titoli delle banche commerciali. E mi introdusse un altro coautore, Massimo Ciampolini, allora fresco di studi a Penn, e oggi anche lui alto manager di Intesa.

Ricordo un lungo periodo di lavoro sul tema, la ricerca e la  trascrizione dei dati, i sorrisi e gli “eureka”, il mio digrignare i denti e le mie urla. Scoprii di essere affetto da una sindrome di comportamento violento con i coautori, o almeno con quelli che stimo. Loro imbrigliavano la mia creatività con controesempi, qualificazioni, puntualizzazioni e specificazioni, facendomi schiumare di rabbia come un uomo che diventa lupo. E alla fine la mia idea non c’era più, e c’era l’idea nostra. E oggi quella nostra idea, sull’investimento in titoli delle banche commerciali, è qui davanti a me, cristallizzata in un libro. E’ come analizzare un fossile del sistema bancario di allora, per sapere se quello di oggi ne è il discendente, o ha subito contaminazioni e processi di adattamento diversi.

I fossili di numeri e parole che oggi sembrano strani e incomprensibili. Nel 1980 il sistema bancario italiano intermediava il 57,5% dei titoli in circolazione in Italia. In percentuale dell’attivo bancario, era il 31,8%, in larga misura ripartiti per titoli del settore pubblico, 16,7% e di istituzioni finanziarie, 12,8%. Il numero complessivo è enorme rispetto a quello cui siamo abituati oggi, mentre il numero che riguarda lo stock di titoli pubblici pare rappresentare un DNA comune tra la banca di allora e la banca di oggi. Il confronto internazionale ci vedeva in testa, rispetto agli altri paesi, soprattutto per la presenza dell’investimento in titoli di istituzioni finanziarie.

La spiegazione di questi numeri è data da termini che ricordo di aver adoperato un tempo, ma che oggi appaiono come dei geroglifici. Scrivevamo che l’anomalia italiana era dovuta a un sistema chiamato “doppia intermediazione”, per cui le banche commerciali sottoscrivevano i titoli emessi dagli istituti di credito speciale, quelli cui era riservata l’attività di credito a lunga scadenza. E poi, ricordiamo che i portafogli delle banche erano gonfi di titoli per la presenza di “controlli amministrativi” del credito. Negli anni ’70, la lotta all’inflazione era diventata guerra all’arma bianca, combattuta con armi di cui adesso si è persa la memoria. Il “massimale sugli impieghi” e il “vincolo di portafoglio”  vennero aboliti nel 1983, e fecero due ulteriori apparizioni sporadiche nel 1986. A fine del decennio, nel 1988 gli investimenti in titoli si erano ridotti, ma quelli in titoli pubblici erano rimasti più o meno allo stesso livello, il 16%.

Alla domanda se quella fosse banca sapiens, e cioè l’antenata della banca di oggi, o fosse banca di Neanderthal, sembra quindi che l’elemento comune sia: un’elevata percentuale di investimento in titoli pubblici. I dati degli anni ’80 sono più o meno dell’ordine di grandezza di quelli riportati da Vanuzzo a commento del documento ABI. E, soprattutto, si tratta di investimento titoli del proprio paese: nel 1988 i titoli stranieri in portafoglio delle banche italiane erano lo 0,2% dell’attivo. Resta quindi da chiedere quale sia la motivazione, o le possibili spiegazioni alternative dell’investimento in titoli. Per dirla con il documento ABI, quali sono i possibili “paradigmi”? E come si può verificare quale modello prevale?

La teoria, almeno a quel tempo, era sufficientemente semplice. C’erano tre spiegazioni. La prima, i modelli di portafoglio, basati sul rapporto tra rendimento e rischio, non sembrano essere una spiegazione realistica, e supportata dai dati. Difficile credere che le banche si spostino dai prestiti ai titoli e viceversa se cambia il rendimento atteso, o il rischio, anche perché liquidare i prestiti non è facile. È ancora vero? Probabilmente sì, anche se la storia del carry trade sui titoli pubblici che osserviamo può sembrare motivata proprio da considerazioni di rendimento e rischio relativo rispetto ai prestiti. Ma forse, le banche fanno carry trade perché non ci sono alternative.

Questo porta alla seconda teoria, nota come modello Klein-Monti (l’unico contributo per cui Monti è conosciuto nell’accademia internazionale); le banche decidono i depositi da una parte, gli impieghi dall’altra, e i titoli come differenza. In altri termini, riescono a fissare i prezzi sul mercato degli impieghi e dei depositi, e fissano la quantità in maniera residuale sul mercato dei titoli. Nella situazione attuale, vorrebbe dire che la crescita dell’investimento in titoli documentato da Vanuzzo dal 2011 al 2013, fino a un livello di oltre 400 miliardi, sarebbe provocato dalla riduzione della domanda di impieghi.

Il modello di Klein-Monti andrebbe solo aggiornato per spiegare perché le banche non abbassano i tassi sugli impieghi, e la risposta naturale è il rischio paese, che lega insieme, e rende rigidi verso il basso sia i tassi dell’attivo che del passivo. La terza teoria è quella della “liquidità di riserva”, pronta per far fronte a crisi improvvise di liquidità. Questa è forse l’unica teoria che è sbugiardata dalla situazione corrente, perché sarebbe veramente stupido tenere 400 miliardi di riserva tutti in titoli di stato italiani, soprattutto a questi chiari di luna.

Quale paradigma prevaleva, negli anni 80? In Italia e negli Stati Uniti funzionava il modello di Klein-Monti. L’analisi statistica rilevava che dopo variazioni permanenti di impieghi o depositi, i titoli di aggiustavano di maniera conseguente, in modo da mantenere l’equilibrio. Per chi si diletta di econometria, depositi, impieghi e titoli erano “cointegrati”, e solo i titoli rivelavano una tendenza statisticamente significativa a reagire a variazioni permanenti delle altre due poste. Il Giappone era diverso, perché lì si aggiustavano sia gli impieghi che i depositi, e non reagivano i titoli.

Ma il sistema bancario del Giappone di allora era veramente differente: ad esempio, trovammo che le banche erano obbligate a detenere i titoli alla scadenza, rendendoli inservibili come “cuscino”. E poi c’era il caso tedesco, che era ancora diverso. Qui variazioni permanenti di impieghi e depositi non si traducevano in cambiamenti permanenti nell’investimento in titoli, e il motivo era che già allora le banche tedesche avevano un altro canale di aggiustamento: le obbligazioni bancarie. Curiosamente, l’unico modello che veniva fuori era quello di movimenti degli impieghi che seguivano nel tempo quelli dei depositi. Ancora per gli econometrici: c’era un rapporto di causalità di Granger tra raccolta e impieghi. Ed è proprio quello che oggi è chiamato il “cambio di paradigma” nel rapporto ABI. Prima di espandere gli impieghi, deve crescere la raccolta.

In conclusione, il confronto tra la banca di oggi e quella del secolo scorso solleva interessanti quesiti. Il primo è se ci sia davvero un “cambio di paradigma”, come quello descritto dal rapporto ABI. I dati sulla stagnazione o addirittura la riduzione del credito all’economia degli ultimi anni associati a un aumento progressivo di investimenti in titoli sembrano segnalare che regni ancora Monti-Klein. Ma ovviamente, è ancora evidenza aneddotica. Chissà se c’è qualche giovane econometrico che vuole prendersi la briga di capire quali poste si aggiustano, i titoli o gli impieghi.

Il secondo quesito è cosa possa avere in serbo il nuovo paradigma per il futuro. Se l’ABI ha ragione, il confronto con il sistema bancario tedesco degli anni ’80 appare preciso e inquietante. Non solo i depositi precedono gli impieghi, ma anche il sistema italiano vede la presenza di un mercato sviluppato delle obbligazioni bancarie. Il parallelo è inquietante per le condizioni del sistema bancario tedesco di oggi. Se l’ABI avesse ragione, vorrebbe dire che prenderemmo esempio dalla Germania proprio su quello su cui la Germania ha fallito. Ovviamente è difficile definire un nesso strutturale e necessario tra un paradigma e le disgrazie di un sistema bancario, ma almeno un po’ di scaramanzia, tra tante disgrazie che già ci sono toccate, è d’obbligo.   

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