Correnti, scissioni, faide interne e minoranze che promettono battaglia. C’era una volta il grillismo. Oggi il Movimento Cinque Stelle scopre di essere un partito a tutti gli effetti. A far deflagrare lo psicodramma collettivo è l’espulsione di quattro senatori. «Dopo svariate segnalazioni dal territorio di ragazzi, di attivisti, che dicevano che Battista, Bocchino, Campanella e Orellana si vedevano poco e male – scrive Beppe Grillo sul suo blog – i parlamentari del M5S hanno fatto un’assemblea congiunta decidendo l’espulsione dei suddetti senatori». Alle 19 di oggi gli iscritti al Movimento hanno votato in Rete e deciso l’espulsione di tutti e quattro i senatori: 29.883 sì contro 13.485 no.
Intanto il M5S si scopre partito. Attorno ai quattro dissidenti si coalizza una corrente di critici. Sul tavolo vengono messe le dimissioni di altri sei parlamentari. Nel pomeriggio i senatori pentastellati si incontrano nell’aula della commissione Esteri di Palazzo Madama per fare il punto della situazione. Le urla e gli insulti si sentono fuori dalla sala. Si impugnano i cavilli e sono in molti a chiedere di invalidare l’assemblea congiunta di martedì sera: da regolamento la procedura prevede un primo passaggio tra i senatori, che invece non c’è stato. Anche il numero legale è sotto accusa. Le voci di corridoio e i retroscena giornalistici impazzano. I dieci senatori sarebbero pronti a formare un nuovo gruppo con i civatiani, magari persino a sostenere il governo Renzi. Uno dei parlamentari al centro del caso, Francesco Campanella, viene accusato di aver già pronto il logo e il nome di un nuovo movimento. In tanti studiano le procedure per formare una nuova formazione al Senato. Più tardi si apprenderà che a minacciare le dimissioni sono molti di più. Le accuse si sprecano, rigorosamente a mezzo stampa: «Fascisti», «Traditori». I toni sono drammatici, come ogni scissione che si rispetti.
Al centro non ci sono solo le intemerate dei quattro aperturisti, rei di aver criticato pubblicamente la performance di Grillo durante il faccia a faccia con Renzi. Dal merito al metodo, il fardello stellato segna questioni legate a regole, confronto e democrazia interna coinvolgendo anche chi dissidente non è mai stato. E non è un caso che nell’assemblea congiunta dei parlamentari M5s per decidere il destino dei quattro incriminati, la maggioranza dei senatori abbia votato contro l’espulsione. Anche ortodossi insospettabili come Alberto Airola ed Elisa Bulgarelli si sono opposti all’epurazione, mentre i ragazzi della Camera continuavano a sparare ad alzo zero.
«I dissidenti buttano badilate di fango sul resto del gruppo», racconta Giulia Di Vita. E con lei marciano i pasdaran di Montecitorio, che vogliono cogliere l’occasione per «fare pulizia e continuare la nostra battaglia in santa pace». Per dirla con le parole di Giorgio Sorial, «è l’ufficializzazione di una situazione logorante che va avanti da mesi». C’è chi parla di «scrematura necessaria», mentre da Manlio Di Stefano a Roberta Lombardi trionfa la metafora guerrafondaia per spiegare la strategia del Movimento con il governo Renzi. «Meno siamo meglio stiamo, dobbiamo essere più compatti e combattere finalmente senza spine nel fianco», che poi è l’interpretazione autentica del dettato di Beppe Grillo.
Intanto il fronte interno si allarga. Sempre più parlamentari rompono il silenzio e scendono in campo al fianco dei colleghi «accusati per reati di opinione, o peggio di lesa maestà nei confronti di Grillo». Alessio Tacconi chiede di essere considerato «il quinto», mentre il deputato Tancredi Turco attacca: «C’è qualcuno che ha più potere di altri alla faccia dell’uno che vale uno, chiunque piscia un centimetro fuori dal vaso è bollato come dissidente». E ancora: «Ci lamentiamo della Boldrini e ora noi vogliamo mettere la ghigliottina ad alcuni di noi che vogliono dire il loro pensiero». «Sono peggio dei fascisti» si lamenta una senatrice dissidente. Maurizio Romani, uno dei parlamentari che ha annunciato le dimissioni, attacca: «Sono convinto che espellere ed epurare siano metodi antidemocratici e assolutamente inefficaci a farci ottenere quel cambiamento che i cittadini si aspettano da noi». Giusto. Eppure, spiegano tanti altri, le espulsioni saranno decise in Rete, dagli attivisti. Giusto o sbagliato, fascista o meno, nel M5S si è sempre fatto così.
In realtà alla Camera il disagio sembra più contenuto. Nel gruppo di Montecitorio non mancano i dissidenti, ma la scissione per ora è lontana. È una questione di numeri, soprattutto: per formare un gruppo autonomo servono almeno venti deputati. Ma anche di gestione del lavoro: «Qui tutti i parlamentari sono stati sempre coinvolti nelle decisioni. Tutti hanno pieno diritto di parola». Diversa la scena a Palazzo Madama. Il Senato è una polveriera. Nel corso dell’assemblea convocata nel primo pomeriggio si sostanzia una guerra tra parenti serpenti dove vincono nervi tesi, urla e lacrime. Gli ortodossi tengono la linea, qualcuno media e altri si disperano: «Siamo stravolti, qui ci abbiamo messo la nostra vita». Quello che fino a qualche mese fa era un gruppo tendenzialmente omogeneo or rischia di saltare, e con esso i rapporti umani dei protagonisti. Laura Bignami, Maria Mussini, Maurizio Romani e Alessandra Bencini, Cristina De Pietro e Monica Casaletto mettono sul tavolo le dimissioni da parlamentari, gesto fortissimo «ma anche una scelta di libertà estrema». Altri ancora sarebbero pronti a mollare la compagine pentastellata in segno di protesta: qualcuno pensa a dire addio al Senato, altri fanno i conti per traslocare nel gruppo misto.
I numeri per una nuova formazione parlamentare ci sono. Prima della votazione online Luis Orellana ammette: «Non sappiamo se rimanere, dobbiamo pensarci». Poi nel tardo pomeriggio annuncia, come Lorenzo Battista e gli altri colleghi, le dimissioni dalla carica di senatore. Troppi i meccanismi incrinati e i rapporti andati in frantumi nella maratona delle ultime settimane. C’è un gruppo che ormai non si sente rappresentato né garantito dai diarchi Grillo e Casaleggio, ma che fatica pure a dialogare con i parlamentari ortodossi, decisi a procedere sul tracciato seminato dai cofondatori. In attesa di definire l’entità delle dimissioni, resta una corrente interna e trasversale che invoca: «Anche gli intransigenti comincino una riflessione».