Padoan, all’Economia il più politico dei tecnici

Ritratto del neoministro

«Padoan non è un tecnico, è un tecnico-politico di lungo corso familiare con organizzazioni internazionali più che con i mercati». Il tweet dell’economista Francesco Daveri sintetizza così il profilo del nuovo titolare del dicastero di via XX Settembre: Pier Carlo Padoan. Consigliere economico di Giuliano Amato, che si sarebbe prodigato in questi giorni per spingere la sua candidatura, e soprattutto di Massimo D’Alema dal 1998 al 2001, Padoan ha ricoperto il ruolo di direttore scientifico della Fondazione Italianieuropei ed è stato docente di Economia alla Sapienza.

Entrato all’Ocse nel 2007 come vicesegretario generale, è stato nominato capo economista nel 2009. Prima di trasferirsi a Parigi una parentesi a Washington di quattto anni, dal 2001 al 2005, da direttore esecutivo del Fondo monetario internazionale. Lo scorso dicembre ha preso il posto di Enrico Giovannini alla presidenza dell’Istat. Una fonte che lo conosce bene spiega a Linkiesta che la sua responsabilità all’interno del gabinetto del Segretario generale Ocse gli ha consentito, assieme alla sua indole affabile, di coltivare le sue capacità di mediazione e creare «una buona rete di contatti a livello dei decision maker dei ministeri delle Finanze internazionali». «Ha approfondito le conoscenze da tecnico al Fmi, ma ha affinato le capacità relazionali in questi anni all’Ocse», osserva invece un dirigente della Banca d’Italia.

Ne “Proposta per l’economia italiana”, saggio uscito per Laterza e firmato a sei mani con Nicola Rossi e Marcello Messori (con la prefazione di D’Alema), Padoan promuoveva – era il 1998 – la riforma dell’Opa firmata da Mario Draghi, oggi presidente della Bce, che recepiva alcuni loro suggerimenti. Criticando, invece, la privatizzazione di Telecom iniziata da Romano Prodi: «La struttura proprietaria non ha ancora raggiunto un assetto efficiente. Se chi comanda oggi nella società vorrà continuare a farlo in futuro, dovrà adeguare le sue quote proprietarie; altrimenti l’effettivo controllo passerà di mano». Cosa puntualmente avvenuta con l’Opa lanciata da Colaninno con il placet proprio di D’Alema.

Un enorme equivoco su Padoan riguarda il suo sostegno a un’imposta patrimoniale. Un qui pro quo iniziato nel 2010 quando un suo intervento in sede Ocse a favore di una riforma della tassazione dal lavoro alla proprietà creò un grande dibattito in Inghilterra, dove la council tax, simile all’Ici, era parametrata ai valori catastali delle abitazioni e non di mercato. «Abbiamo cercato di dimostrare, con una analisi empirica, il rapporto tra la struttura della tassazione e la crescita, nel senso che ci sono tasse più dannose allo sviluppo (sulle imprese e sul lavoro) e altre meno dannose, come quelle sui consumi e sui patrimoni» spiegò all’epoca l’economista astigiano.

Una proposta sulla quale si coagulò un vasto consenso, dalla leader Cgil Susanna Camusso, al numero uno di Assonime – l’associazione delle società per azioni – Stefano Micossi, consigliere della Cir di Carlo De Benedetti, da Luigi Abete a Innocenzo Cipolletta fino a Mario Sarcinelli. Il dibattito si concentrava sui danni derivanti dall’abolizione dell’Ici, prima mossa del governo Berlusconi dopo la vittoria elettorale del 2008. Un tema su cui la discussione politica si è incancrenita per mesi e su cui la posizione di Padoan non è cambiata negli anni: «Se l’obiettivo è quello di sostenere l’occupazione», ha dichiarato lo scorso settembre a Ballarò, aggiungendo: «Le tasse da far calare sono soprattutto le tasse sul lavoro e le tasse sulla proprietà immobiliare potrebbero restare dove sono anche perché c’è un problema di coperture».

Intervistato da Linkiesta a marzo 2012, Padoan sosteneva il primato della politica come veicolo per ridare fiducia ai cittadini nella tempesta della crisi sovrana: «Se si tratta di una politica lungimirante, cioè che prende decisioni concrete, si può dare un indirizzo. Certo, ogni indirizzo, ogni direzione, ha i suoi costi, ma almeno c’è una via da seguire. Non ci sono scorciatoie – forse dirò una cosa banale – ma c’è bisogno di più politica, sia a livello nazionale sia a livello europeo. Di fatto il populismo non è altro che la scarsità di politica, che fa entrare i Paesi in un circolo vizioso. E si percepisce che in Europa ne manca». Parole attuali alla vigilia delle elezioni europee dove i partiti antieuro potrebbero guadagnare ampie fette dell’emiciclo brussellese. 

Considerato neokeynesiano, Padoan non è fuggito agli strali del Nobel Paul Krugman, che sul New York Times l’ha definito «una delle più precoci e grandi cheerleader a favore dell’austerity», prendendosela poi con le sue dichiarazioni a proposito degli eurocommissari incapaci di comunicare i “benefici” del consolidamento fiscale europeo. Un altra macchia nel ricco curriculum di Padoan è l’ammissione – nel corso di una recente discussione presso la London School of Economics dei report pubblicati dall’Ocse tra il 2007 e il 2012 – di aver sottostimato gli effetti dell’austerity sul Pil comunitario, e sovrastimato la l’aumento di quest’ultimo.

Nel periodo 2007-2009 il divario tra i calcoli Ocse sulla crescita del Pil e i dati effettivi è stato del -2,6%, dello 0,3% dal 2009 al 2012. Detassazione del lavoro, realizzazione delle infrastrutture attraverso gli “union bond” europei, aggiustamento della riforma Fornero tenendo conto di una di una bassa crescita ormai strutturale sono i punti sui quali sembra si concentrerà da neoministro. A La Stampa una volta ha dichiarato: «L’Italia ha il vantaggio di avere alle spalle una riforma delle pensioni che la mette in condizioni migliori di altri paesi. Ma deve affrontare il nodo strategico della riqualificazione della spesa e del sistema fiscale». Toccherà a lui passare dalla teoria alla pratica. 

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