La staffetta tra Matteo Renzi ed Enrico Letta è, prima di tutto, un errore. Andiamo subito al sodo: se il Pd riesce di nuovo, con un brillante colpo di reni a suicidarsi per la quinta volta in vent’anni (Occhetto 1994, D’Alema 1998, Unione 2006, Monti 2011, Renzi 2014) questo rissoso gruppo dirigente che si è formato per faide sotterranee e unanimismi ipocriti, dovranno studiarlo nelle università come caso rarissimo di decadenza collettiva, transgenerazionale in qualche modo fatale, se non addirittura biblica.
Non ci vuole molto a capire che la detronizzazione più o meno violenta (o anche concordata in extremis) di Letta per far posto all’ambizione scalpitante e postmoderna di Renzi avrebbe questo effetto: non un premier eletto, ma un eletto in cerca di premiership che rischia di smarrire se stesso, e il suo popolo, nella ricerca, e che tradisce l’ultima chanche di alternativa per impazienza e incapacità di attendere. Siamo passati dai leader che citano i classici del marxismo a quelli che citano i videogiochi. Un leader che fino a ieri diceva «Io voglio vincere: mai più al governo con le larghe intese», adesso sceglierebbe di sorreggersi con le piccole. Un segretario che a gennaio quasi si lamentava («Letta non si fida di me»), adesso – simpaticamente, e solo un mese dopo – si appresta ad accoltellarlo.
Quello che è sicuro è che “il ribaltone” con cui Umberto Bossi affondó Silvio Berlusconi nel 1995 produsse un conflitto omerico, quello con cui Massimo D’Alema sostituì se stesso a Romano Prodi nel 1998 aveva una grandezza tragica, anche se reciprocamente biliosa, mentre “il ribaltino” con cui Renzi vuole mettere al tappeto Letta, al cospetto dei precedenti, sembra una zingarata venuta male, una beffa inconsapevolmente autolesionista, un ceffone in faccia agli elettori affacciati ai vagoni del centrosinistra, mollato con un saltello dalla banchina della stazione Leopolda.
Ci sono tuttavia alcuni aspetti surreali in questa manovra di autodissipazione, che resteranno inspiegabili, e che meritano di essere ricapitolati:
1) Dopo aver vinto con la mitografia della nuova politica, Renzi si affida alla più vecchia conta di Palazzo, una impresa da congresso della Dc, una scena virata in bianco e nero, che allude agli spettri di Fanfani, alla letteratura di Todo modo (ma come se Leonardo Sciascia fosse riscritto da Leonardo Pieraccioni), alle scenografie dei sotterranei del’Ergife, alla storia delle faide tra Andreotti, Forlani e De Mita, che fanno molto scudocrociato, forse, ma che nulla hanno a che vedere con la storia del popolo del centrosinistra che ha votato Renzi alle primarie, immaginandosi, sul profilo dei suoi pantaloni a cicca, la sagoma di un vincente da campagna elettorale. Mica male, dopo il no all’antica rito del “rimpasto”, essersi dedicato a quello assai più arcaico della “staffetta”.
2) Renzi che in questi mesi si è ubriacato, anche linguisticamente, con la retorica de “Il sindaco-vicino-ai-problemi-della-gente”, è partito invece con la quintessenza dell’iperpoliticismo. Il fantomatico Jobs Act è rimasto (per ora) il sommario di un temino da scuole serali della Cisl, e l’accordo sulla legge elettorale (ma soprattutto: su una brutta legge elettorale) è diventato il cardine di tutta la strategia. Il problema non è accordarsi con Berlusconi, ovviamente ma dare a Berlusconi lo strumento che si è scelto e modellato sulle sue esigenze, e che gli è più utile per vincere (spaventandosi subito dopo, per giunta, del possibile effetto nelle urne di questo accordo).
3) C’è poi il peso degli slogan logorati e dei propositi mandati in fumo con stupefacente rapidità: la rottamazione, intesa come mito politico fondativo, si era alimentata di parole d’ordine intransigenti, e del giusto dogma di fede del consenso, di cui le primarie, come valore irrinunciabile, erano la certificazione necessaria. Adesso, con la staffetta, il consenso improvvisamente sembra che non sia più necessario, e bisogna entrare nel palazzo a tutti i costi. «Loro governano con Brunetta, io voglio vincere con il mio partito», amava ripetere Renzi. Adesso demolisce il suo partito, che dal duello fratricida uscirà terremotato in ogni caso, e si prepara a governare con il laico apporto di Roberto Formigoni e di Carlo Giovanardi. Un bel biglietto da visita per gli appassionati dei diritti civili.
4) Ogni volta che un leader di centrosinistra ha cercato la scorciatoia del Palazzo per evitare di pagare il prezzo scomodo della misurazione del consenso, a farne le spese sono stati gli elettori della sinistra: sconfitti nel 1994 per l’ambizione di Achille Occhetto (che si voleva già premier prima del voto senza nemmeno esplicitare la sua candidatura), di D’Alema (che non riusciva a metabolizzare il complesso del figlio di un Dio minore e post-comunista), di Francesco Rutelli (il piacione triturato nelle urne nel 2001 fino all’incredibile epilogo di un ex candidato premier che finisce la carriera in un’altra coalizione) e persino di Walter Veltroni (che, pur tormentato, fece cadere Prodi con il discorso di Orvieto, dopo esserne stato il vice).
Incredibile la vicenda di Pierluigi Bersani, che ha creato la categoria quasi mistica della non-vittoria con la memorabile frase del discorso dell’Acquario, dopo le elezioni: «Siamo arrivati primi, ma abbiamo non vinto, la sostanza del voto è un po’ questa». Dopo aver dissipato consensi a destra e a sinistra in campagna elettorale, e dopo aver pestato nel viaggio a Berlino la buccia di banana dell’alleanza con Monti, negata in Italia, e vantata come una medaglia in Germania, Bersani è stato ammazzato politicamente dai franchi tiratori del suo stesso partito. Gli stessi che ora acclamano Renzi per allungarsi la legislatura.
Gli elettori determinati del centrosinistra avevamo votato per Renzi, alle primarie, perché per tutta l’estate, lui aveva ripetuto loro quel patto: «Sogno un paese in cui chi vince con un voto in più governa!». Lo avevano sostenuto perché diventasse il loro campione in campagna elettorale, il mattatore del Caimano, e non perché diventasse il terzo premier consecutivo che vìola la regola del bipolarismo e si insedia nelle stanze del potere con i voti degli eletti di centrodestra.
Auguro a Renzi, nella sua giornata più intensa, di recedere in extremis dal proposito della staffetta. Sarebbe un record strano, dopo aver spianato l’intera classe dirigente post comunista, quello di essere a tal punto rottamatore, da spingersi fino a rottamare se stesso.