Questa è la voce del rugby italiano

Una Missione Divulgativa

Il rugby è uno sport per immagini, o io lo vedo così. Non per niente è tanto cagionevole alla retorica: Webb Ellis che raccoglie quel maledetto pallone da calcio e corre verso il fondo del campo, fissando per sempre il nome sopra a quello della località in cui tutto è nato. Gli Original All Blacks e il Paese sconosciuto e lontano che ha cominciato a esistere solo quando lo hanno portato in Europa. Il Galles che risponde all’haka neozelandese e si rifiuta di prendere posizione in campo, con l’arbitro che si sbraccia e quegli altri che ingoiano un rospo grande quanto un ovale, gli irlandesi dell’Ulster che non cantano l’inno ma cantano Ireland’s Call. Flowers of Scotland, i trofei del Sei Nazioni che riflettono tutte le differenze, le divergenze, le contese che possono permettersi e qualcuno ancora si ostina a chiamarlo uno sport pacifico. Il Sudafrica del mondiale del 1995, che passando per Mandela lega in maniera tanto indissolubile quanto curiosa François Pienaar a Clint Eastwood. «Quello del ’95, quello di Invictus, è stato il primo mondiale che abbiamo commentato assieme» mi racconta una leggenda del rugby italiano – e so che non si definirebbe così, per cui lo scrivo – un paio di ore prima di una partita piuttosto rovinosa della nazionale. 

Lo sport lo fa tanto chi lo pratica quanto chi lo racconta. E anzi, senza certi racconti le leggende non sarebbero leggende, i re verrebbero spodestati e i rapporti di forza sarebbero relegati a mera statistica. Una cosa che non si addice alla perfezione. Antonio Raimondi e Vittorio Munari sono due icone del rugby italiano, le loro voci sgocciolano fuori dalla storia che hanno contribuito a formare, per quanto giovane, nella sua interezza. «Non sei autorizzato a scrivere che siamo fisicamente agli antipodi» mi dice Munari poco prima di sedersi da qualche parte nella sala conferenze dell’Olimpico. E io lo scrivo, perché è importante. È importante sapere che ho davanti due persone così diverse, uno grande e grosso, l’altro minuto – molto più piccolo di quanto pensassi – con delle basette in potenza. Un pilone di Milano e un mediano di mischia di Padova. Uno silenzioso e calmo, l’altro che è difficile tenerlo a bada perché ha qualcosa da dire praticamente su tutto quello che vede. Gli opposti che sono la voce del rugby da quasi vent’anni e che mi hanno educato allo sport più di quanto abbia fatto la – pur minima – pratica. 

«Ci siamo conosciuti durante il mondiale del ’91, io ero un giovane cronista – racconta Raimondi – e lui faceva già le telecronache. Vittorio è un po’ più vecchio di me e conoscerlo mi ha fatto crescere sia a livello personale che professionale». «Lo considero un amico – continua Munari in un modo che ricorda tanto da vicino le loro cronache – è una delle poche persone che mi sopportano. La nostra amicizia ha fatto la differenza nel modo di condurre le cose. Il fatto di essere così affiatati fa sì che possiamo permetterci di sbagliare e sappiamo sempre che l’altro è pronto a correggerci, a sostenerci ci porta a raggiungere un equilibrio tra il commento tecnico e il racconto, che fa la differenza. Le stesse cose che ci diciamo quando commentiamo, che le diciamo quando ci sentiamo per telefono e le diremmo se fossimo seduti al divano con qualche birra e un gruppo di amici. Credo che questo sia determinante nel nostro modo di fare le cose, nella nostra interpretazione del rugby». Ci sono pochi telecronisti che sanno infondere la loro passione per lo sport quanto la coppia Raimondi/Munari e quasi sempre chi lo ha fatto è passato alla storia. Non è soltanto una questione di accuratezza, ma di trasporto e di una conoscenza della pratica che va ben oltre il commento, ma porta con sé un intreccio di sottotrame di storie laterali, fondamentali nel rugby più che in qualsiasi altro sport. «Capita che ci parliamo sopra, a volte, e questo normalmente è un errore. Però trasmette l’affiatamento tra noi e questo è importante, perché il lavoro di un telecronista è anche quello di trasmettere emozioni. O forse soprattutto quello».

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«Sono un mediano di apertura imprigionato nel corpo di un pilone – dice Raimondi quando gli chiedo come si è avvicinato al rugby. Facevo provini in tutte le squadre di calcio di Milano, però non me ne piaceva nessuna. Poi un giorno mio fratello ha portato a casa una palla da rugby. Io ho iniziato a giocare e lui no». 

Munari è una maschera di sincerità e ha toccato il rugby a tutti i livelli possibili, innanzitutto giocandolo, poi allenando – è stato il più giovane allenatore italiano a vincere uno scudetto, col Petrarca Padova nel 1984, aveva trentatré anni – e infine viaggiando. I suoi pellegrinaggi nelle Mecche del rugby mondiale sono leggendari e saltano fuori praticamente ovunque durante i suoi commenti, in un modo che spesso fa scordare quello che sta succedendo in campo. «La prima partita internazionale che ho visto è stata Inghilterra-Irlanda, a Twickenham nel 1974. Ha vinto l’Irlanda con due mete di Mike Gibson, una leggenda di quegli anni». Chiacchierare con Munari vuol dire lasciarsi aprire le porte di un mondo che esiste dietro la facciata di sport, ma che in pochi possono dire di conoscere veramente, fatto di leggende e immagini. Le stesse che popolano tutta la storia del rugby internazionale, ma servite di prima mano. Fresche, tangibili. «Il fatto di viaggiare per me ha fatto la differenza sul serio – mi dice – perché ci sono un sacco di persone che parlano inglese molto meglio di me, ma riconoscere la differenza culturale tra uno scozzese e un gallese, tra un australiano e un neozelandese, tra un Afrikaan e un sudafricano britannico, non è da tutti» e non posso che essere d’accordo. Quello che mettono Munari e Raimondi nelle loro cronache è un misto di competenza enciclopedica ed esperienza di strada, che rende molto semplice la comprensione del gioco e lampante quella che Vittorio chiama “missione”: la divulgazione di uno sport in crescita, anche e soprattutto grazie a chi, come loro, ha contribuito a portarlo a un pubblico più ampio. 

Raimondi non fa in tempo a cominciare a raccontarmi di come ha cominciato a viaggiare con Munari, che Vittorio lo interrompe: «Ha voluto portare le cose a un altro livello. Durante l’ultimo mondiale in Nuova Zelanda è dovuto andare a comprare i vestiti in un quartiere samoano, dove i bianchi non posso entrare. È andato con un amico samoano e mi è tornato indietro con quaranta camicie a fiori, i mutandoni e le infradito. Io ero vestito da inglesino nano, tutto di kaki e coi bermuda con le tasche. Da colono. Eravamo perfetti». Questa può sembrare una storia da niente, ma riflette perfettamente quello che fa la differenza nel modo di trasmettere il rugby nelle loro cronache. Non si tratta soltanto di quello che succede in campo, ma di tutto ciò che è successo prima e dopo, che in molti casi può essere determinante nell’andamento della partita. Me ne accorgo quando ci mettiamo a parlare della Scozia al 6 Nazioni e Raimondi mi spiega a cosa è dovuta la fase calante di una nazione tanto orgogliosa. «Hanno un grande problema nella costruzione e nella motivazione dei giocatori e la Scozia – come il Galles – è un paese dove l’appartenenza è tutto, se la perdi non riesci più a recuperarla. Ora molti vanno a giocare all’estero e si perdono. Nazionali come quella scozzese e quella gallese si fondano ancora su contrapposizioni che non esistono più, e presto dovranno farci i conti». «Alle olimpiadi, nel rugby a sette – aggiunge Munari – hanno dovuto fare una squadra unica per la Gran Bretagna. Vai tu a spiegare a uno scozzese che deve mettere la stessa maglia di un inglese. Ti prende per pazzo».

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Quello che il canale digitale DMAX ha fatto per il rugby italiano quest’anno, portando di fatto in chiaro le dirette del Sei Nazioni, fa parte di un processo di evoluzione che nel corso degli anni ha attirato un pubblico sempre più appassionato e documentato. L’operazione, mutuata da Sky, deve moltissimo a un uso intelligente e pratico dei social network, oltre che alle numerose iniziative che fanno da contorno al torneo. Dai pre-partita ai reality dedicati.

Mentre ci spostiamo dalla sala conferenze, Munari mi indica un signore seduto a uno dei tavoli all’ingresso, poi va a parlarci e poco dopo lui e Raimondi si fanno fotografare con lui. «Quello è Sir Ian McGeechan, un monumento del rugby. Ha allenato quattro volte i British and Irish Lions. È uno che ha fatto la differenza, insomma» e io non posso che ringraziarli per avermi educato di nuovo, come stanno facendo da decenni con chiunque si avvicini allo sport, in un modo che non può che fartelo amare sinceramente e senza riserve. Ridono, ma è una cosa che penso davvero. Senza di loro, per esempio Sir Ian sarebbe stato solo un signore seduto al computer nella sala conferenze dell’Olimpico. 

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