Il caso Banca d’Italia ha trasformato l’“aula sorda e grigia” di Monte Citorio in una via di mezzo tra la sigla di “Saranno Famosi” e una riunione di wrestling, con grillini che scendevano dall’emiciclo in corsa plastica, per tentare salti in stile Fosbury sugli scranni del governo. Che aggiungere a quello che si è già detto della scenografia e dello spettacolo? Forse solo la tipica frase: “non provatelo a casa”. C’è molto da dire invece sul merito della questione che ha scatenato il wrestling parlamentare: il caso di Banca d’Italia.
I grillini, infatti, hanno posto il problema del “regalo alle banche”, e ora in gran parte della stampa e in tutta la politica si ritiene che la battaglia sia finita. I detrattori asseriscono che il danno è stato fatto, i sostenitori affermano che non c’è stato nessun regalo alle banche. Entrambe le posizioni travisano la realtà, per il semplice fatto che la guerra per impedire eventuali regali alle banche deve ancora cominciare. E, curiosamente, chi deve impedire che la vicenda di Banca d’Italia diventi che un regalo per le banche è proprio Banca d’Italia. Proviamo a raccontare la storia di questa guerra che si deve ancora combattere.
A Banca d’Italia, o almeno in uno dei suoi bastioni, regna un clima d’attesa che ricorda quello del “deserto dei Tartari”. Quello che leggerete qui sono riflessioni da una chiacchierata di fronte al camino con un alto ufficiale di Fortezza Koch, dentro la fortezza stessa, nel pomeriggio prima che i grillini scatenassero le danze, sulle possibili tattiche di risposta agli attacchi delle banche del Nord, se e quando attaccheranno. Non rivelerò informazione riservata e da questo pezzo non riconoscerete cosa è stato detto da me e cosa è stato detto dal generale. Quello che mi preme è spiegare come potrà svilupparsi la battaglia, e magari dare un avvertimento alle truppe del nord sul fatto che a Fortezza Koch non troveranno le porte aperte e i tappeti rossi, ma un mercato, e un mercato è un terreno di battaglia su cui si fissa il prezzo.
Anche alcune dichiarazioni del Comandante in capo della Fortezza, Ignazio Visco, vanno nella stessa direzione, e devono essere lette con attenzione. Ignazio Visco ha affermato che Banca d’Italia aprirà un mercato, in cui acquistare e vendere le quote, e quando dice che Banca d’Italia potrebbe anche guadagnarci avverte le banche che non ci saranno regali. Sarà battaglia, e non potrà essere altrimenti, perché se così non fosse ne uscirebbe malconcia la reputazione di indipendenza dell’istituzione. La differenza con il vero deserto dei tartari è che le truppe del nord attaccheranno senz’altro, e che (questo è l’unico scenario di cui dichiaro la proprietà) non possiamo escludere un finale giallo, per il quale dovete pazientare, come per tutti i finali gialli.
Consentitemi ora di trasformare questo affascinante romanzo in uno striminzito bigino di finanza. Ci servirà a capire in cosa consiste la battaglia, e se verrà combattuta con uomini e sangue, o con soldatini o pedine di subbuteo. Perché questo dal dibattito pubblico non si capisce. E’ stato fatto un regalo alle banche? E’ stata privatizzata Banca d’Italia? E che regalo è stato fatto? Un regalo di carta, o una penna nuova per scrivere a bilanco le quote di Banca d’Italia? No, non è questo il regalo. Il regalo alle banche saranno denari sonanti e ballanti quando vorranno, e addirittura dovranno, convertire le loro quote in “nickels and dimes”. Quello sarà il momento dell’attacco. Da quel momento in poi si aprirà la guerra di resistenza per evitare che le banche si portino a casa il regalo.
Se cercate di catalogare l’affare Banca d’Italia secondo il bigino di finanza, riconoscerete che nessuno nel dibattito (o nessuno di cui sia a conoscenza) ha chiamato l’operazione con il suo vero nome: cartolarizzazione. E’ del tutto sbagliato dire che l’affare Banca d’Italia è una privatizzazione, e non è del tutto corretto chiamarlo “rivalutazione”. L’unica novità è la “cartolarizzazione”. Per spiegare il concetto dobbiamo ricordare che stiamo parlando della proprietà di un portafoglio di titoli. Si tratta di uno dei forzieri di Banca d’Italia, non di tutta la baracca. Non c’entrano le riserve, non c’entra il signoraggio, non c’entra oro, incenso o mirra. E’ un portafoglio di normalissimi titoli come tutti gli altri, di un valore di circa 15 miliardi. Nessuna privatizzazione, quindi. E’ semmai Banca d’Italia che gestisce un portafoglio per i “quotisti”, insieme al resto delle riserve. Le quote di questo fondo (perché assomiglia più a un fondo che a una società per azioni) sono iscritte nel bilancio delle banche, le banche le possono rivalutare, e di fatto le hanno rivalutate. Qualcuno ci ha marciato addirittura troppo, da dover fare i conti con gli ispettori di Banca d’Italia stessa (stavolta in veste di vigilante). Quindi, nemmeno la rivalutazione è una novità: al massimo possiamo dire che è una parte del tutto, e neppure la parte originale. Cosa c’è di nuovo, dunque? C’è che queste quote sono trasformate in “carta”, che può essere scambiata in un mercato e trasformata in moneta. E il bigino dice che quando trasformi un attivo in “carta” fai una “cartolarizzazione” (e se lo fai in un paese anglofono con lo stesso significato lo chiami “securitization”). E’ sul valore della carta che quindi si giocherà la partita del “regalo alle banche”.
L’affare Banca d’Italia quindi è una cartolarizzazione, la trasformazione in carta di un portafoglio “collaterale”, come un CDO. Da questa considerazione nascono questioni che a mio avviso possono avere la caratura di un “mistero italiano”. Quando si valuta una cartolarizzazione si chiede: cartolarizzazione di che? Come è fatto il portafoglio? Cosa c’è dentro? Il mistero italiano è che per quasi un secolo nessuno abbia mai chiesto di rendere pubblico questo portafoglio. Possibile che a nessuno dei proprietari sia venuto in mente di suggerire: perché nella relazione annuale non distinguiamo questo portafoglio dal resto delle riserve? Forse non era un informazione pubblicamente rilevante. Ma il mistero buffo diventa mistero vero se ci chiediamo perché neppure gli esperti esterni che hanno redatto la relazione di valutazione di Banca d’Italia abbiano chiesto di divulgare il portafoglio. Possibile che nessuno abbia detto loro del portafoglio? Lo escludo. E allora perché non pubblicare la composizione del portafoglio, con la stessa perizia con cui sono stati resi pubblici i calcoli? E, se c’era qualche motivo per cui questo portafoglio non era stato fornito, o se il gruppo di esperti riteneva giusto non dare comunicazione al pubblico, perché non riportarlo nella relazione? Ancora prima della questione della metodologia di valutazione, ritengo che siano state convocate commissioni di indagine per questioni di metodo di rilevanza istituzionale ben minore di questa.
Veniamo alla questione valutativa, sulla quale abbiamo già scritto in un noiosissimo pezzo su queste colonne. Ricordiamo solo l’idea di quel pezzo, che forse ora risulta più chiara. Il metodo dei dividendi attesi si usa se vuoi valutare un’attività economica, come una catena di pizzerie, ma non è il metodo migliore per valutare una cartolarizzazione. Per valutare la cartolarizzazione, devi innanzitutto conoscere l’attivo e in base al suo valore e ai flussi di cassa futuri calcoli il passivo. In particolare, calcolare il passivo sarebbe banale se non ci fossero altre clausole. Il valore dei flussi di cassa futuri è infatti riflesso nei suo valore di mercato, che è l’unica cosa che conosciamo: 15 miliardi. Se non ci fossero altre clausole, quindi, il valore complessivo delle quote, dovrebbe essere pari a quello dell’attivo: 15 miliardi. Ma in questa cartolarizzazione ci sono delle clausole. In particolare, c’è un limite al valore delle cedole future pari al 4% del valore del portafoglio. Per togliere il valore di questo limite superiore dalle quote non ci basta sapere quanto vale il portafoglio, ma come è fatto. Nel mio intervento passato, ho utilizzato uno strumento dal nome non molto rassicurante, per chi non conosce le opzioni (uno spread di cliquet) assumendo che questo portafoglio fosse perfettamente diversificato e fosse investito in quello che sul bigino di finanza si chiama “portafoglio di mercato”. Se invece il portafoglio fosse concentrato su qualche tipo di segmento obbligazionario o azionario, la valutazione potrebbe risentirne molto.
Quindi, possiamo dire che per la valutazione di Banca d’Italia non è stata usata tutta l’informazione disponibile, e comunque non è stata utilizzata l’informazione che sarebbe stata necessaria. Gli esperti avrebbero dovuto richiedere di sviluppare una simulazione Monte Carlo dei flussi di cassa futuri generati dal portafoglio, li avrebbe dovuti trasformare in dividendi, secondo le clausole previste, e avrebbe dovuto calcolare il valore attuale complessivo di tali dividendi. C’è anche la questione che il portafoglio è gestito: le quote di Banca d’Italia tecnicamente sono un “managed CDO”. Non abbiamo comunque modelli di opzione che tengano conto della gestione (meno una categoria che si chiama “passport option”, che però è molto stilizzata), e questo appunto non sarebbe stato addebitato alla commissione, che comunque avrebbe potuto riportare questo “caveat” nella relazione.
Ecco comunque la situazione. Abbiamo una valutazione tra 5 e 7,5 miliardi fatta con una metodologia in cui nessuno crede, e che nessuno ha difeso. Ricordiamo che Zingales usando la stessa metodologia della commissione degli esperti ha trovato un valore di 3,3. Nessuno ha sforato il tetto dei 7,5 miliardi, e forse io solo mi sono avvicinato, facendo però assunzioni arbitrarie sulla struttura del portafoglio. E se il portafoglio fosse concentrato su qualche emittente? Non c’è dubbio che se fossi stato in commissione avrei chiesto di vedere il portafoglio e avrei richiesto la tecnica di valutazione con simulazione Monte Carlo che ho descritto sopra.
E ora mettetevi nei panni di un generale di Fortezza Koch. Sapete che le truppe del nord, in particolare Intesa Sanpaolo e Unicredit caleranno per assalire i forzieri e reclamare il regalo. Vi chiederanno i soldi in cambio delle quote, aspettando forse che il prezzo pattuito sia 7,5 miliardi (o meglio ritenendo che voi siate così polli da fare il prezzo che passa sui talk show). Voi avete un problema di imbarazzo, perché quella valutazione l’avete fatta voi, usando anche esperti esterni. Ma ora sapete che quella valutazione fa acqua, e il problema che avete è un altro. Voi dovete “fare il mercato”, comprando e vendendo le quote tra una banca e un investitore e l’altro, senza rimetterci, perché se ci rimettete, avete perso la guerra: avete fatto un regalo alle banche. Il problema è che sapete che arriveranno i due grandi gruppi del nord, e loro saranno venditori. Avete compratori con i quali possiate incrociare gli ordini e fare un prezzo? Sebbene Visco abbia detto ai giornali che ci sono fondi pensione e altri investitori istituzionali che hanno già manifestato interesse, ci permettiamo di dubitarne, pur riconoscendo al Governatore il diritto e l’onore di un bluff in una partita così importante. Ne dubitiamo proprio per l’opacità di informazione di cui abbiamo parlato sopra. Nessuno corre a comprare la partecipazione in un fondo di cui non sa nulla. Alla domanda se quindi arriveranno questi Hobbit a contrastare le truppe del nord, la risposta naturale è: Hobbit sì, scemi no.
Quindi, generale, dovrai affrontare un mercato da una parte sola (one way market): solo gente che ti porta quote, e vuole soldi. Che farai? Tu conosci il portafoglio, gli altri non dovrebbero conoscerlo (ma non si sa mai). La legge dice che tu puoi comprare e vendere al prezzo “massimo” di 7,5 miliardi. Però sei un market-maker, non puoi rifiutare l’acquisto. Ti resta solo la leva del prezzo. Allora, chiami, senza dirlo a nessuno, qualcuno del Genio Servizio Studi (abbiamo anche il nome, Tenente Drogo), e gli fai fare una valutazione col Monte Carlo, e poi per sicurezza la riduci di una bella percentuale. A occhio e croce, molto probabilmente arrivi a un livello di 3 miliardi o 3 miliardi e mezzo. E quando arrivano le truppe del Nord, questo è il prezzo. Quando poi arrivano gli Hobbit a comprare, metterai un prezzo leggermente superiore a quello che hai calcolato e alzerai un po’ il prezzo che fai alle truppe del Nord. Se riuscirai a tenere questi due flussi in equilibrio, e se alla fine potrai mostrare di non aver pagato più di quello che hai incassato, avrai vinto la guerra: non ci sarà stato nessun regalo alle banche. Ma anche se avrai pagato dei soldi alle banche e saranno giustificati dalla valutazione conservativa che abbiamo descritto, non avrai perso la guerra: le banche si saranno portate a casa solo quello che spettava loro. E comunque, annoterai tutto questo, dalla valutazione iniziale alle quote comprate e vendute, sul tuo diario di guerra.
Ma questa guerra può riservare un finale a sorpresa. In fondo, per le banche che hanno scritto in bilancio le quote a 1 o 2 miliardi, portarne a casa 3 e mezzo potrebbe essere un buon risultato: meglio che niente, pochi maledetti e subito. Ma allora potrebbe arrivare una telefonata da via XX settembre, ricordando che le truppe del Nord retrocedono allo stato una parte della quota espugnata a Banca d’Italia. Il capo di stato maggiore potrebbe chiedere ai generali di Fortezza Koch di aprire le porte e consentire che il mercato si trasformi nel sacco di Banca d’Italia, portando via i 7 miliardi e mezzo. Se mai arrivasse una telefonata di questo tipo, sarebbe di una gravità estrema. Metterebbe i generali di Banca d’Italia di fronte alla scelta se perdere la loro indipendenza, e il loro onore, o resistere. E mi sento di scommettere che i generali scriverebbero sul loro diario: la guerra continua.