TaccolaViaggio nell’indotto Fiat, tra crisi e nuovi mercati

Inchiesta sulla filiera automotive

«Ogni giorno ricevo sul tavolo due-tre curriculum di gente che lavorava per multinazionali fornitrici di Fiat in Italia. Sono controller, manager o venditori di aziende come la Johnson Controls o la Lear, che avevano creato subsidiary in Italia e che le stanno smantellando. Per noi è anche un’opportunità, perché abbiamo possibilità di attingere risorse qualificate con facilità. Ma certo dà l’idea della crisi in atto». Le parole di Massimo Bravin, amministratore delegato di Olsa spa, sono un ritratto del clima che si respira a Torino, ma anche in altre parti d’Italia, nella filiera dell’automotive. Le vendite in discesa costante da sei anni a questa parte in Italia, l’ancora più grave calo della produzione da parte della Fiat e l’incertezza sul futuro anche prossimo stanno creando centinaia di chiusure, perdita di posti di lavoro e, come accade sempre in questi casi, anche occasioni per chi si è organizzato.

Su una cosa sono tutti d’accordo: la crisi e i grandi cambiamenti del settore sono in atto da anni, da ben prima dell’annuncio dell’acquisto del 100% di Chrysler da parte di Fiat e della conseguente creazione della nuova società Fca. Il nuovo nome, ma anche la sede legale ad Amsterdam e quella fiscale a Londra, sono dettagli che lasciano indifferenti i componentisti. Un’altra questione è molto più importante: che succederà una volta che, come è già stato anticipato, il quartier generale di Fca si sposterà negli Usa? E, soprattutto, cosa accadrebbe se con gli headquarter si spostasse anche una fetta rilevante della progettazione? E ancora: come reggeranno i fornitori e la stessa Fiat di fronte al passaggio da auto per tutte le tasche alla sola fascia premium?

Prospettive incerte

La Olsa è un’azienda italiana con sede centrale a Rivoli (Torino), che produce fanali e gruppi di illuminazione. Fino a vent’anni fa aveva nella Fiat il proprio unico interlocutore. Oggi, dopo un distacco sempre più marcato, la considera solo uno dei tanti clienti. Come il suo antico punto di riferimento, anche questa azienda si è trasformata in una multinazionale e ha aperto stabilimenti in Polonia, Brasile, Messico e Cina. «È chiaro che lo spostamento dell’headquarter, per gli aspetti di carattere strategico ci penalizzerebbe – spiega ancora Bravin -. Avere contatti ad alto livello vicino serve ad avere risposte più rapide, la conoscenza diretta è importante. Ma a livello operativo immagino che le cose rimangano come sono».

Una linea di produzione della Maserati a Grugliasco (Torino)

Il progetto a grandi linee, come noto, è quello di una produzione di fascia superiore all’attuale e con numeri inferiori. I pilastri sarebbero tre: proseguire con la crescita di Maserati, rilanciare l’Alfa Romeo, sull’esempio di quanto fatto in passato da Volkwagen con Audi, e creare un mini-brand della 500. «Per quanto l’Alfa hanno detto che lanceranno nuovi modelli – continua l’ad di Olsa -. Nello stabilimento di Melfi saranno prodotti due mini-suv, uno chiamato Fiat 500 X e uno a marchio Jeep. È chiaro che ci saranno dei carry over (trasferimenti, ndr) verso l’estero. Prendiamo il caso dell’annunciato Suv della Maserati: si farà su piattaforma Chrysler e per questo il design sarà probabilmente fatto negli Usa, così come la progettazione. Per quanto ci riguarda, il problema è che la Chrysler ha un’azienda interna che fa lighting, e che la farà da padrona». 

Un’immagine del nuovo suv compatto della Fiat, 500 X, non ancora in commercio

Il nodo progettazione

Quanto un’integrazione sia possibile tra la progettazione di Fiat e Chrysler è ancora poco chiaro. Lo confermano dalla Kostal, una multinazionale con 15mila dipendenti con sede in Germania e filiale a Rivoli, che si occupa di meccatronica per autoveicoli, dai semplici interruttori alle plance. «Per quanto ci riguarda, abbiamo un’esperienza di collaborazione con entrambe le case dal 2009, da prima che si parlasse di una fusione – dice Giacomo Cacciabue, direttore commerciale di Kostal Italia -. Posso dire che sono ancora produzioni molto distinte. Difficilmente una Jeep potrà usare un comando luci della 500».

Se gli uffici che contano se ne andassero e «qua rimanessero solo i passacarte – continua Cacciabue – ciò penalizzerebbe l’indotto tantissimo, e sarebbe un errore per la stessa Fca. È vero che la Fiat non ha probabilmente come primo pensiero l’indotto. La nostra esperienza su Fiat è che gestisce i vari sourcing a proprio uso e consumo. Non li abbiamo mai visti troppo attenti a sviluppare una filiera con cui fare una vera innovazione per andare alla conquista dei mercati. Lo hanno invece fatto i francesi e soprattutto i tedeschi, con marchi come Bosch e Siemens. In Germania si cerca di fare una cooperazione tra produttori e fornitori principali. Fiat lo ha fatto principalmente con Magneti Marelli, che è sua. Ma non ha fatto lo stesso con altri marchi del Made in Italy come Poltrona Frau o Brembo».

Quando si parla di progettazione, aggiunge Beppe Russo, economista e uno dei maggiori esperti sulla filiera automotive in Italia, ci sono diversi modelli. L’americana GM, ad esempio, «lascia molta autonomia ai marchi locali, come Opel in Germania. Al contrario, la Volkswagen progetta quasi tutto in Germania. La Fiat, per ora, è stata più simile alla GM, lasciando, ad esempio, che il Brasile progettasse le proprie auto di riferimento». Secondo Russo i gusti in Europa sono ancora molto diversi da quelli negli Stati Uniti. «Questo giustifica forse ancora diverse sedi di progettazione. L’auto europea potrebbe essere globale molto più di quanto lo sarebbe un’auto americana. Accentrare tutta la produzione negli Usa sarebbe un azzardo. Ma ci sono problemi di costi che potrebbero essere posti».

Per l’indotto, anche quello più avanzato, ha spiegato chiaramente un paper della Banca d’Italia, è fondamentale la vicinanza alla sede di un car maker, intesa non dal punto vista formale ma come il luogo dove si prendono le decisioni di ricerca e sviluppo.

Se per i subfornitori di componenti poco sofisticati è fondamentale la vicinanza agli stabilimenti, per i produttori delle parti più complesse è molto importante l’interazione virtuosa con le attività al alto contenuto di conoscenza. «Se sei vicino geograficamente o nella relazione di filiera con i produttori di auto, la tua attività ne beneficia – riassume uno dei curatori dello studio, Roberto Cullino, della sede di Torino -. Per questo è importante che la progettazione rimanga in Italia». Su quello che accadrà nello specifico a Torino nei prossimi mesi, aggiunge, «i margini di incertezza sono abbastanza ampi. Al di là dello spostamento delle sedi e del cambio di governance, per quello che riguarda l’aspetto più propriamente industriale in questa prima fase non dovrebbe cambiare moltissimo. Rileva il passaggio da una produzione di massa a una da atelier, con i marchi Maserati e Alfa. Ci sarà la questione del miglioramento dei fornitori, ma i numeri della produzione sono così bassi che comunque darebbero problemi, qualunque fosse il livello della componentistica».

Un settore in ginocchio

Per descrivere la crisi dei componentisti, bisogna partire da un semplice dato: nel 2007 si producevano in Italia 911mila auto. Nel 2012, nonostante le promesse rimaste sulla carta di Fabbrica Italia, sono state 396mila,il 56% in meno. Nei primi nove mesi del 2013 le vetture prodotte sono state 303mila, il 5,4% in meno dell’anno prima. I numeri sono negativi, seppure in maniera meno grave, anche includendo i veicoli commerciali leggeri e i mezzi pesanti.

Il mercato interno d’altra parte è in una depressione mai sperimentata: -7% le vendite di autoveicoli nel 2013, con il gruppo Fiat che ha perso il 9,9 per cento. Gli effetti sull’occupazione negli stabilimenti Fiat – tutti semi-fermi tranne quello di Pomigliano d’Arco – sono stati notevoli, tra tagli, cassa integrazione e mobilità. Ma molto inferiori rispetto a quelli sull’indotto. «Per ogni lavoratore Fiat in cassa integrazione ce ne sono da tre a quattro nella medesima situazione nell’indotto», dice Giorgio Airaudo, deputato di Sel ed ex segretario provinciale torinese della Fiom, di cui è stato poi segretario nazionale. «Solo oggi (nella prima settimana di febbraio, ndr) sono stato nella Agrati di Collegno, una società che produce bulloni e viti – aggiunge -. Ci sono 89 persone che hanno ricevuto lettere di cessata attività. Hanno resistito per anni in attesa che le promesse fossero realizzate. I 20 miliardi di Fabbrica Italia non ci sono, e c’è solo il 25% di quel che è stato promesso; ora non ce la fanno più. Cercheremo di tenere alta l’attenzione per evitare la chiusura». Non è certo l’unico caso di azienda sull’orlo del fallimento.

Secondo l’ed. 2013 dell’Osservatorio della filiera autoveicolare italiana, realizzato dalla Camera di commercio di Torino in collaborazione con Anfia e con le Camere di commercio di Chieti e Modena, i produttori italiani di componenti, servizi di ingegneria e design, parti e sistemi per auto, nel 2012 hanno fatturato 38 miliardi ossia il 9,2% in meno del 2011, posizionandosi nel complesso sotto il livello della crisi del 2009. In totale impiegano 166 mila addetti (­-8% nei confronti dell’anno precedente). L’universo delle attive è popolato da 2.573 società (2.802 senza escludere quelle in liquidazione o procedura), di cui 2.427 cui è attribuito un bilancio. L’82% è composto da società a responsabilità limitata e il restante 18% sono società per azioni.

I problemi non sono gravi per tutti allo stesso modo. A spiegarlo è ancora l’Osservatorio:

«A soffrire maggiormente del calo della produzione nazionale ed europea di veicoli sono state (in Piemonte e nel resto dItalia) le imprese della subfornitura, che sono tradizionalmente più dipendenti dalla produzione di prossimità. Anche le società che forniscono servizi di ingegneria e design hanno evidenziato difficoltà legate al rallentamento della progettazione di nuovi prodotti o all’insourcing della stessa (il Piemonte va meglio grazie alla maggiore capacità di vendersi all’estero)».

Legenda: Mod: fornitori di moduli; Sist: fornitori di sistemi; E&D: engineering and design; Spec: specialisti (produttori di parti e componenti innovativi e specifici); Sub: subfornitori (parti e componenti più semplici)

Il rischio dell’insourcing, cioè del ritorno delle produzioni internamente, è reale secondo l’economista Guido Viale. «La Fiat può essere interessata a far fare cose di fascia alta non più a componentisti ma internamente – commenta a Linkiesta – per riassorbire una parte dei propri cassintegrati». Ma secondo Aurelio Nervo, Presidente del Gruppo Componenti Anfia, «non ci sono segnali in questo senso, anche perché un’integrazione verticale nella produzione non è conveniente nella maggior parte dei casi».

A livello locale, spiega l’Osservatorio della filiera autoveicolare italiana, l’Emilia è ancora in controtendenza:

In questo contesto generale, il caso di Modena è quello di un’isola felice nella quale il fatturato nello stesso periodo è riuscito a crescere in controtendenza del 4 per cento, trainato dalle buone condizioni del segmento delle sport­luxury cars. Sono 872 le società di capitali attive nella filiera autoveicolare con sede in Piemonte. Nel 2012 queste hanno fatturato poco meno di 18 miliardi di euro (il 47% del dato nazionale), il 5,2% in meno rispetto all’anno precedente. Nel 2012 hanno occupato più di 90 mila addetti (­3,8% rispetto al 2011)».

Il risultato di queste contrazioni sono le chiusure di aziende.

«L’Osservatorio ha svolto una revisione delle imprese contenute nel data base, registrato la cessazione dell’attività di 179 imprese. Queste imprese, ancora nel 2007, avevano un fatturato pari a 1,6 miliardi di euro. È interessante notare come non esista alcuna correlazione fra i mestieri o le specializzazioni produttive e l’appartenenza a questo gruppo, segno che non ci sono mestieri che sono risultati più penalizzanti di altri. Nel database del 2013 figurano ancora “in sospeso” le società in liquidazione (13) e quelle con procedure non ancora concluse (216).

Ma questi numeri vanno interpretati, perché tra il 2012 e il 2013 sono sorte altre 181 aziende nel settore. Molte delle cessazioni, quindi possono essere semplicemente delle trasformazioni. Perché le fusioni sono state tante.

Fusioni in vista

Le ragioni della cessazione dell’attività, si legge ancora nel rapporto, sono da ricercarsi prevalentemente nell’impossibilità di gestire al meglio le leve competitive: diversificazione produttiva e dei mercati di sbocco, innovazione e collaborazioni. Spesso ad essere insufficiente è la dimensione. «È per questo che il questionario del 2013 – dice ancora l’Osservatorio – ha fatto emergere che il 34 per cento delle imprese ha avuto in corso almeno una collaborazione negli ultimi 3 anni e che il 17 per cento è stato interessato ad operazioni di M&A, auspicabilmente anche per aumentare la dimensione media aziendale».

Uno dei fenomeni previsti, conferma Beppe Russo «è che ci sarà una semplificazione del numero dei fornitori. Ci sarà una razionalizzazione, e quindi delle aggregazioni. I componenti della Fiat sono circa 2.500. Sono troppo piccoli rispetto ai fornitori americani». Le fusioni non sono però inevitabili, secondo Aurelio Nervo. «Più che la grandezza – osserva – quello che conta è essere presenti su vari mercati. Senza una capacità di produzione e supporto in altre parti del mondo, è difficile pensare di sopravvivere».

Export vera opportunità?

La vera differenza tra chi ha prospettive di crescita e chi ne ha solo di guai in questo periodo la fa la capacità di esportare. In questo contesto, l’ulteriore internazionalizzazione della Fiat può essere una reale opportunità di crescita del settore. «Io la vedo molto più come opportunità che come rischio – risponde Nervo, a nome dei produttori – . La Fiat da sola non avrebbe avuto la forza di imporsi e la fusione con la Chrysler può essere positiva per la filiera automotive italiana». La ragione, continua, è che «la filiera è più competitiva, dalla crisi del 2008 in poi si è molto sviluppata ed è molto più agguerrita sui mercati internazionali. Ora abbiamo circa il 50% dell’export a livello di filiera e le imprese stanno prendendo quote di mercato». Detto questo, conclude Nervo, «è chiaro che se in Italia non c’è un mercato forte, soffre tutto il settore, a partire dalle piccole aziende che non hanno sbocchi internazionali».

Di tutt’altro avviso è invece il deputato ed ex sindacalista Giorgio Airaudo. «Non ci sono opportunità. Non è possibile. Anche i componentisti di sistema, che per esempio fanno cruscotti, plancia, sellerie, e che spesso sono multinazionali o vecchie terziarizzazioni dei produttori finali, si razionalizzano a livello continentale. Se devo fornire 20mila fanali, rifornisco altre parti d’Europa, così come altri parti d’Europa riforniscono l’Italia».

Un osservatore terzo, Beppe Russo, prova a sintetizzare: «è un classico caso di bicchiere che può essere mezzo pieno o mezzo vuoto. Immaginiamo che con la fusione ci sia la messa in comune delle piattaforme e ci sarà quindi un livello di fornitura più globale. L’opportunità è che c’è spazio di crescita per gli italiani a livello globale, a patto che i fornitori si attrezzino. La minaccia è di non riuscire a seguire questo soggetto nel mondo».

Molte forniture non potranno spostarsi: i fornitori di componenti pesanti e poco complessi, come ad esempio i paraurti, sono inevitabilmente legati agli stabilimenti. E gli scenari sono poco chiari. «Gli annunci dicono che Fiat rimarrà in Italia – continua Beppe Russo -. Ma certo il catalogo non è brillante e si è depauperato, sia per Fiat che per Chrysler. Le prospettive sono dubbie e dipendono dagli investimenti; se fossi un componentista sarei preoccupato, perché non sono stati ancora ingaggiati dalla Fiat».

Il cambio di fascia

L’ultimo grande interrogativo riguarda il cambio di fascia. Addio alla produzione in Italia delle piccole utilitarie, spostata definitivamente all’estero, e assemblaggio solo di auto di livello premium: Maserati, Alfa e alcune auto della gamma 500. Sono pronti la Fiat e i componentisti a questo passaggio? No, secondo Guido Viale. «La Fiat ha fatto una scelta discutibile – commenta -: posizionarsi sulla fascia alta, sulla quale ha un know how relativo. L’Alfa, ad esempio, è stata lasciata perdere nell’ultimo decennio. Inoltre la Fiat non ha una rete di vendita per quella tipologia di auto che permetta di competere con Bmw, Audi, Mercedes. Tutto questo è destinato a scaricarsi sull’indotto».

I dubbi sono condivisi da Giorgio Airaudo: «il cambio della produzione da tutti i segmenti di auto alle sole auto di lusso seleziona i fornitori anche della qualità e fare auto di lusso non vuol dire necessariamente essere riforniti dall’Italia.

Ma anche su questo punto l’associazione dei produttori dissente. «Credo che l’indotto sia preparato al cambiamento di fascia – dice l’ingegner Aurelio Nervo, che è anche amministratore delegato di Skf Industrie SpA -. Vuol dire aumentare la qualità e il livello di innovazione, cosa che è già stata presente nella filiera, che già fornisce Bwm, Ford e altri produttori stranieri. Il punto di domanda è che cosa verrà prodotto in Italia e dove sarà la progettazione». Su questo fronte le risposte arriveranno all’inizio di maggio, quando è prevista la presentazione del piano industriale triennale di Fca da parte di Sergio Marchionne. Oltre 2.500 aziende italiane lo seguiranno con il fiato sospeso.